Di ritorno a Foggia, ci rimettemmo dopo brevissima sosta di nuovo in via per Manfredonia. Volevamo vedere l’unico monumento che ancora rimanga dell’eroico re Manfredi. Le due città distano l’una dall’altra proprio come Roma e Tivoli. La strada corre attraverso la pianura, chiusa questa a manca dal lungo dorso del Gargano, mentre a destra si distende a perdita d’occhio, confondendosi con l’orizzonte.
Codesta pianura, onde Foggia è circondata, è la parte alta del Tavoliere di Puglia. Essa ricorda assai dappresso la campagna di Roma, ove anche dall’ottobre alla primavera vagolano a migliaia le pecore, menatevi pel pascolo dagli Abruzzi e dalla Sabina. Però, a differenza. di quest’ultima, è più ricca di erba ed ha insieme qualcosa della steppa e, non offrendo alla vista che un piano perfetto, è meno pittoresca.
Dal lato del Gargano e giù innanzi, verso Manfredonia, il Tavoliere è quasi privo affatto di alberi. Il finocchio selvatico dalle lunghe aste, coronate dei lor graziosi mazzolini di fiori color giallo d’oro, ha preso il posto degli alberi e degli arbusti. Qui, come nella campagna romana, lussureggiano pure l’asfodèlo, il caglio, la menta e tutte quelle piante aromatiche tanto predilette dal bestiame. In alcuni punti era come un mare flessuoso e ondeggiante di fiori.
La verde steppa, per quanto l’occhio può abbracciarne, è qua e là cosparsa di fattorie. Vi stanno annessi magazzini per provvisioni, abitazioni per pastori e fattori, cannicciate che servono da ovili, tettoie per ricoverarvi carri ed attrezzi, e via via quanto altro si riferisce all’economia rurale. Dall’alto di ciascuna di esse si eleva una piccola piramide, che si termina in un fumaruolo: sono i fornelli ove vien cotto e manipolato il formaggio pecorino. Siffatti camini possono chiamarsi le figure caratteristiche di questi pascoli senza fine, come nella campagna di Roma io sono le torri medievali e i sepolcri antichi. Per tutto il tratto da Foggia a Manfredonia non ci occorse vedere che una sola vecchia torre, presso alla strada, posta lì un tempo a servire da vedetta doganale, e più tardi convertita in un corpo di guardia militare, quando le contrade del Gargano erano infestate tutte da briganti.
La calda stagione era quell’anno piuttosto in ritardo anche nelle Puglie; sicchè il maggio si manteneva insolitamente freddo. Forse per questo motivo greggi in gran numero popolavano tuttora il Tavoliere, in luogo di andare a riprendere i loro quartieri estivi su’ monti. E di greggi e di mandrie ne vedemmo assai e d’ogni genere: bovi, pecore, capre, bufali e branchi di cavalli e d’asini indomiti dal pelame ispido e grosso. I pastori a cavallo, la loro lunga asta in mano, e dietro cani vellosi, proprio come in Etruria e nel Lazio.
La vista della steppa pugliese riconduce il viaggiatore col pensiero in contrade assai remote, e quasi lo ripone in un periodo della civiltà superato già da lunga pezza. E nondimeno codesto periodo è essenzialmente italico, e risale ai tempi in che le campagne di Puglia si chiamavano la Daunia. Le condizioni primitive di una vita pastorale si mantennero qui attraverso i secoli. Rimaste come uno stato di natura quasi immutate, si accompagnarono con tutti i rivolgimenti, con tutte le trasformazioni politiche e sociali d’Italia, e durano ancora oggidì le medesime.
Il Tavoliere comprende 800 miglia quadrate italiane o, ch’è lo stesso, 300,000 ettari. Esso si estende su tutta la Capitanata, e dal lato del mezzogiorno si prolunga sino nelle province di Bari, di Basilicata e di Terra d’Otranto. La sua esistenza ed anche la sua destinazione, se non tutto intero qual è, in una gran parte rirnontano ad un tempo anteriore alla guerra e alla conquista fatta da’ Romani di quelle regioni, le quali, a quanto pare, rimasero dipoi proprietà incolte dello Stato e deputate ad accrescere i tributi che si cavavano da’ pubblici pascoli. Il dire se ancora sotto l’Impero, e poscia sotto la dominazione de’ Goti e de’ Bizantini, avessero tali regioni seguitato a far parte dell’Ager Publicus, ovvero gli fossero state sottratte, sarebbe in verità difficile. Certo è intanto che nel più lontano medio evo, al tempo de’ Normanni e degli Hohenstaufen, si vede riapparire di nuovo il Tavoliere come appartenente al Regio Demanio sotto ]a denominazione di Regie Difese.
Nulladimeno un sistema ordinato di locazione de’ regi pascoli non venne introdotto che in sul cominciare del secolo XV. Mercè una legge di Alfonso I d’Aragona tutti i possessori di greggi in contrade montuose furono obbligati di condurle, pagando un’imposta, a svernare nel Tavoliere. Di qui il bisogno di costituire un’amministrazione speciale, conosciuta sotto il nome di Dogana della mena delle pecore in Puglia; e sembra che il fisco da questo cespite traesse annualmente una somma non minore di 300,000 fiorini d’oro.
Per la immigrazione ed emigrazione degli armenti, ampie strade furono aperte attraverso tutto il Tavoliere e, come strade maestre, provviste di termini e colonne migliari. Ebbero il nome di tratturi.
Nulla di più singolare di codesti tratturi. Come una lunga arteria solcano da un capo all’altro gran parte dell’Italia Meridionale, dall’Abruzzo Aquilano, dal Gran Sasso e dalla Maiella presso Sulmona, giù giù sino alle montagne della Calabria, ove vanno a terminarsi. Da secoli sono rimasti gli stessi sempre, e sino al giorno d’oggi milioni di pecore e di bovi vi si sono mossi su e giù con grande uniformità, come facevano un tempo gli eserciti di Roma sulla via Flaminia e sull’Appia.
Così il tratturo si stende quasi striscia verde larga da’ quaranta agli ottanta e sino centoventi metri. Gli armenti vengono e vanno: nell’autunno scendono al piano, tornano nel maggio ai patrii monti. In Etruria e nel Lazio mi sono spesso imbattuto in siffatte colonne di bestiame in marcia, quando, forti sino a 5000 capi, ingombrano tutta la strada ed impediscono l’andare a chiunque venga loro incontro. Il vederle ha qualcosa di curioso, ma a volte anche, quando si tratti di mandrie di bovi, può essere cagione di un po’di paura. Non dimenticherò mai una scena pastorale occorsami a Cerveteri, ove mi vidi passare innanzi a precipizio un paio di migliaia di bovi dalle lunghe corna, seguíti dai loro generali, i pastori, che venivano maestosamente cavalcando e armati de’ loro spuntoni.
Come dev’essere nuovo e bizzarro lo spettacolo degli armenti sul tratturo pugliese! Quando n’è il tempo, le immigrazioni si succedono giorno per giorno quasi senza interruzione. Un gregge tutt’insieme vien chiamato punta, e non di rado si compone di un numero di bestiame, che va sino a 10,000 capi. Ogni punta è come una repubblica che trasmigra; una repubblica bene ordinata, poichè si divide in tante sezioni di 300 a 400 capi, a ciascuna delle quali sono addetti cinque o sei grossi cani da pecoraio. A lato è il pastore a cavallo; e in fine chiudono la colonna una quantità di muli e cavalli carichi di attrezzi, utensili e mille minute masserizie. Così ordinate e regolate, muovono queste grandi masse su pel tratturo, dove il bestiame trova pure qui e là, cammin facendo, un po’d’erba o qualche virgulto da spelluzzicare.
A poca distanza dalla strada per Manfredonia corre quasi parallelo un ramo laterale del tratturo; e noi, per accorciare la strada, ne battemmo un tratto. Più tardi avemmo occasione di vedere il grande tratturo che viene dagli Abruzzi, là ove passa innanzi alle mura di Andria e quindi volge e s’interna, in direzione di mezzogiorno, nella provincia di Bari. Colà appunto è posto un termine coll’iscrizione: P. T., cioè, Pubblico Tratturo, 1810. Esso adunque rimonta al tempo in che Murat era re di Napoli. Io guardai rispettosamente quella pietra come un monumento storico, e presi nota nel mio taccuino delle cifre e della data.
Questo sistema di pastorizia forzata nel Tavoliere fu, per altro, già nel passato secolo fatto segno a ripetute critiche quale istituzione nociva agl’interessi dell’agricoltura. E sin d’allora fu messa innanzi la proposta di rendere alla cultura quegli estesi pascoli, lasciando facoltà ai fittaiuoli di comprarli e ridurli in proprietà privata. Infatti, sotto il governo francese, il sistema forzato venne soppresso con legge del 21 maggio 1806. Ma, restaurato il governo borbonico, il sistema del Tavoliere venne pur esso ricostituito, quale era stato prima, nell’anno 1817. Finalmente, successa l’annessione delle province napolitane al Regno d’Italia fu con legge del 26 febbraio 1865 abolito daccapo l’Editto del 1817, e stabilito invece il sistema dell’affrancamento e del libero acquisto de’ pascoli.
Così dunque il pascolo obbligatorio è destinato a cessare, i tratturi dovranno scomparire, i fittaiuoli diventeranno proprietarii e i pastori dovranno trasformarsi in agricoltori. Però codesto nuovo ordinamento, benchè già in parte messo in pratica, ha urtato contro parecchie opposizioni e grandi difficoltà. Tutta una serie di scritti è stata pubblicata sull’argomento, de’ quali io voglio citare due soltanto: Studii e Proposte su11a legge di affrancamento del Tavoliere di Puglia del deputato GUSEPPE ANDREA ANGELONI (Napoli, 1872); e 11 Tavoliere di Puglia, ovvero l’avvenire economico-indust1riale d’Italia e di Germania dell’ingegnere CONSOLINI (Napoli, 1872), ch’è un programma e uno statuto di una banca di credito internazionale, dedicati al principe di Bismarck. Entrambi gli scritti difendono l’abolizione della pastorizia forzata; ma non mancano altre voci le quali si sono levate e tuttora si levano contro il progetto del Governo. Così nell’Unità Nazionale di Napoli del 1° luglio 1874 apparve un notevole articolo sulla Soppressione de’ Tratturi, nel quale l’autore mostra come codesta misura segnerà la rovina della pastorizia nell’Italia Meridionale, dalla quale l’agricoltura stessa non potrà non rimanere colpita, e come avrà la conseguenza di generare un vero caos di violazioni di diritti acquisiti, di contese e litigi.
Pertanto, può dirsi che la grande questione di vita o di morte del Tavoliere, tuttochè da dieci anni materia di studio pel Governo italiano e di discussioni in Parlamento, pende ancora irresoluta. E poichè non siamo competenti a pronunziare su di essa, non vogliamo più oltre torturarci il cervello.
Continueremo quindi la nostra strada, seguitando a gettare in qua e in là uno sguardo osservatore su’campi. Questi porgono davvero sembianza di una perfetta solitudine.
Quanto è lunga la via, tre ore buone di carrozza, sino a Manfredonia non toccammo nessun paese, se ne togli qualche sparsa e solitaria fattoria, semplice ricovero di pastori. Al paragone, la Via Appia da Cisterna a Terracina e tutta la contrada delle Paludi Pontine sono dieci volte più animate di questa campagna pugliese. Del resto, sulla strada stessa, ch’è ben mantenuta, incontrammo appena tre o quattro carrozze, tra le quali quella della posta, e solo un paio di persone a cavailo che affrettavano i passi per raggiungere una delle fattorie perdute laggiù, nel mezzo del deserto.
Pure, di tanto in tanto, si vedevano gruppi li persone a piedi e a cavallo, dall’apparenza stanca ed abbattuta pel lungo cammino. Uomini e donne portavano l’usuale bordone de’ pellegrini, ornato in punta di un ramo verde di pino col suo piccolo cono pendente ed una immagine di santo dipinta a color rosso acceso. Facevano impressione insolita e strana Donde venissero, lo mostravano già quei simboli: il ramo cli pino era senza dubbio cresciuto lì, sul Gargano, e l’immagine rappresentava l’alato Arcangelo Michele nell’atto di trafiggere l’orrido drago. I pellegrini scendevano dal Promontorio, dopo avervi visitato il santuario miracoloso dell’Arcangelo. L’8 di maggio, giorno della festa, comincia il grande concorso, il quale poi si continua tutto il mese. Ancora parecchi giorni più tardi, ritornando da Taranto, c’imbattemmo sulle ridenti sponde dell’antico Auidus (Ofanto) in codeste schiere di pellegrini reduci dal Gargano.
Infrattanto noi andavamo accostandoci di più in più alla montagna, che avevamo sempre sulla sinistra parte. In una linea lunga parecchie miglia, slanciato in alto, quale insormontabile muraglia cinese, il Promontorio si protende nell’Adriatico. Ora sì, possiamo scorgerne le parti e le membra grandiose: aspre rocce tagliate a picco, voragini e valloni, boschi fitti e cupi di pini e querce, e pendici ricche di verdeggianti olivi; ma costa costa solo pochi e radi villaggi. Il cielo annuvolato rendeva il vedere difficile, e ci toglieva anche la vista di Sant’Angelo, la città del pellegrinaggio, situata quasi in cima della montagna. L’aria s’era fatta sensibilmente pungente, anzi fredda; sicchè cercammo coprirci il meglio che ci fu possibile, quasi viaggiassimo nel più crudo inverno.
A mezza strada facemmo un po’alto alla bottega di un maniscalco, il quale teneva insieme cantina. Erano quivi parecchi pastori con uno stuolo di asini irsuti, menati per farli ferrare o medicare. Uomini ed animali grossolani ed incolti, ampie pozze di sangue sul suolo, la negra e filigginosa stamberga, e lì presso una palude, attraverso la quale un fiumicello a stento poteva continuare il suo lento corso verso il mare, formavano la più bizzarra scena che di un nido di masnadieri possa immaginarsi. Per riscaldarci chiedemmo del vino, e l’oste ci presentò un boccale enorme con entro un vero vino da banditi, nero come inchiostro e impossibile al gusto.
A partire da questo punto il suolo si solleva, e forma qui e là colline brulle, le quali nascondono ancora il golfo di Manfredonia. Passammo innanzi ad una cava di pietre, donde Foggia ritrae il materiale per le sue costruzioni, la quale, tuttochè in più piccole proporzioni, rassomigliava alle latomie siracusane. La pietra calcarea, che se n’estrae, è del più delicato color bianco: la si taglia in forma di cubi allungati e all’azione dell’aria s’indurisce e divien solida come travertino.
A quattro miglia da Manfredonia ci si offrirono allo sguardo le rovine di una badia abbandonata, con una porta bellissima ed una tribuna ben conservata di puro stile romano. Un tempo fu una delle più ricche commende dell’Ordine Teutonico, e chiamavasi San Leonardo Ordinis Theutonicoum; e, stando ai dati dell’Ughelli, non gettava meno di 20,000 fiorini d’oro di rendita annua. V’erano,per altro, nella diocesi di Siponto ancora due altre badie, quella de’ Cistercensi di San Giovanni in Lamis, e la famosa de’ Benedettini, Santa Maria de Pulsano, entrambe sul territorio del Gargano, ove le loro belle chiese sussistono tuttora. Oggi San Leonardo è diventato centro di una fattoria e non è abitato che da pecorai.
Intanto l’impazienza di vedere il mare ed insieme il segno desiderato del nostro viaggio cresceva in noi a misura che il freddo si faceva più acuto e il vento impetuoso sempre più ci estenuava. Dal lato di mezzogiorno il cielo era tutto burrascoso, e noi eravamo dolenti di non poter per questo godere la vista del mare così splendido d’ordinario, così raggiante della calda luce meridionale. Allorchè in fine, di là da San Leonardo, giungemmo a superare l’altura, la spiaggia ci si offrì tutta dinanzi, come un immenso quadro pieno di malinconia profonda e di torbida e tetra magnificenza. Il più chiaro, il più splendido sole d’estate non avrebbe potuto produrre tinte così possenti ed incantevoli, come ora, in sull’imbrunire, ne produceva il cielo in lotta con le ombre de’ burrascosi nuvoloni accampati sul golfo. Lì davanti ci stava il mare, le tinte e i toni del quale, il nero più fitto, il verde più cupo e il cilestre, erano oscuri eppure ardenti così che il descriverli non è possibile; e gli serviva di lembo una lunga distesa di coste basse, che rendevano un color violetto; mentre grosse paludi e maremme, il Pantano Salso, e più in là, a mezzogiorno, verso Barletta, il lago di Salpi, splendevano ora del più delicato vermiglio, ora di un colorito verde e giallastro. A settentrione il Gargano, che si disegnava alla fine intero nella sua cupa maestà: un vero gigante immane postatosi nel mare. Ai piedi suoi, sul golfo, una piccola città, munita di un castello che gli anni han reso grigio, e di un faro che addita il porto, dove un paio di vecchie barche a vela stanno sull’áncora. E sopra tutto turbinavano il temporale e le raffiche del vento procelloso. Allora con giubilo gridammo i nomi di Manfredi e Manfredonia!
Ad una mezz’ora da Manfredonia, quasi sulla strada e non lontano dal mare, si vede una piccola chiesa antica con un portico ad archi in stile romano. La porta poggia su colonne, sostenute da leoni. La facciata è un semplice quadrilatero di travertino giallo senza alcuna composizione. Solo un campanile e una piccola torre si elevano al di sopra. Sulla piazzuola solitaria e coperta d’erba, innanzi alla porta, sta ritta un’unica colonna antica senza capitello, e sul suolo giacciono alcun ruderi di un antico tempio. Questo è quanto ancora rimanga di Siponto, della città marittima di un tempo. Noi siamo infatti giunti sul luogo che fu sua sede; e la chiesa è Santa Maria Maggiore, una volta cattedrale dell’arcivescovado di Siponto, ed ora unico avanzo medievale della scomparsa città. Meno qualche sparso vestigio delle vecchie mura, di Siponto non resta più altro; mentre pure verso il 1525 Leandro Alberti trovò ancora esistenti tante e sì grosse ruine da poterne indurre che doveva essere stata città nobile e ragguardevole.
La fondazione di Siponto, originariamente greca — Sipus, secondo Strabone — si perde nelle tenebre del mito, avvegnachè edificatore suo sarebbe stato Diomede. Essa giaceva sopra una sinuosità formata dal grande golfo, e come colonia romana era un centro commerciale non privo di vita. Qual città commerciale, ancorachè decaduta, continuò ad esistere sino al tempo di Manfredi. Secondo la leggenda cristiana era uno de’ più antichi vescovati d’Italia; anzi san Pietro stesso vi avrebbe ordinato il primo vescovo. Se non che Felice, il quale vien nominato in un Concilio dell’anno 465, è il primo vescovo di Siponto che si conosca. La cattedrale primitiva della città era la sede arcivescovile; ma gli arcivescovi, forse temendo le incursioni de’ Saraceni, trasportarono per un certo tempo la residenza loro sul Monte Gargano, ed il papa Leone IX giunse sino ad aggregare Siponto a Benevento. L’antico santuario di Santa Maria, caduto in rovina, venne in sugl’inizii del XII secolo, sotto Pasquale II, riedificato. A questo tempo rimonta la magnifica cripta, la cui volta è sostenuta da venti piccole colonne antiche di granito. A maggior sostegno vi sono stati poi aggiunti moderni pilastri in fabbrica. Ed anche le mura di cinta e la porta della chiesa, ch’è un superbo edifizio de’ primi anni del secolo XVI, sono ancora le stesse del tempo di Pasquale II.
Questo Papa visitò Siponto e ne conservò la cattedrale, alllorchè nell'anno 117 raccolse a Benevento un Concilio. Assai di frequente occorre trovar menzionata nel XII secolo la città e il suo porto. Quivi nell’anno 1177 andò ad imbarcarsi a Venezia al famoso Congresso e concludere pace con l’imperatore Barbarossa.
Sembra che il porto di Siponto, come luogo di approdo per l’intera provincia, si chiamasse allora Porto di Capitanata; e come tale potè tenersi su, benchè la città fosse già in decadenza, specie dopo il violento terremoto dell’anno 1223. Il fatto è che ancora l’8 gennaio 1252 in questo porto stesso sbarcò l’Hohenstaufen, Corrado IV, per prendere possesso dell’Italia Meridionale; e quivi fu ricevuto dal fratellastro suo, Manfredi, il quale generosamente gli cedette il dominio delle Puglie e delle altre province, che pure egli da Lucera era riuscito con la prudenza e con la forza a conquistare e tener tranquille.
Tre anni più tardi un secondo terremoto gettò al suolo tutta Siponto, ed allora Manfredi, divenuto per la morte di Corrado erede e signore del paese, venne nella risoluzione di edificare una nuova città in luogo più sano ed anche meglio garantito contro i pirati, lontano un due miglia dalle macerie di Siponto, più presso al Monte Gargano e immediatamente sul grande golfo. Egli stesso ne fece il disegno, ed il congiunto suo Malecta nè diresse l’esecuzione. La nuova città, alla cui edificazione furono impiegate le rovine dell’antica, ebbe da lui il nome di Manfredonia.
Cominciata nell’anno 1256, dopo due anni era già tanto innanzi che l’arcivescovo sipontino Ruggiero d’Anglona col suo clero potette prender possesso della nuova cattedrale. Questa fu dedicata al vescovo San Lorenzo di Siponto, e le furono trasferiti tutti i diritti e il titolo dell’antico arcivescovado. Naturalmente la costruzione in pietra delle mura del castello e di altre parti della città esigette più lungo tempo; sicchè Manfredonia non era per anco compiuta, quando re Manfredi, combattendo da eroe, cadde presso Benevento. Gli Angioini menarono a termine la città ed anche le opere di difesa.
D’ordinario l’immagine che noi sogliamo farci delle cose e degli uomini innanzi di averli effettivamente presenti, non risponde mai alla realtà. E questo accadde anche a me, che dovetti di molto attenuare la rappresentazione di Manfredonia che con l’immaginazione m’ero formata. In cambio di una città antica dalle alte torri e annerita dall’opera de’ secoli, mi trovai innanzi ad un piccolo paese di mare, ridente, profusamente imbiancato, con poche torri ed una cinta di mura in più parti sgretolata. Manfredonia lambisce il mare, adagiata sulla spiaggia affatto piana, che solo verso il Gargano va lievemente rigonfiandosi, e il cui fondo è pietra calcarea. Qui il fico d’India pullula per tutto; i giardini intorno intorno ne sono pieni, e sul nudo e brullo terreno roccioso la pianta produce un effetto singolarmente meridionale. Le terre estese e quasi incolte lungo la spiaggia, ravvivate appena da qualche raro ulivo o da qualche pianta fruttifera, richiamano alla memoria le campagne della Sicilia. La mole del Gargano, a qualche miglio appena di distanza, con le sue forme di promontorio colossale, chiude il vago semicerchio del golfo, e impronta questi lidi deserti di un carattere di solennità grandiosa.
Entrammo nella città, ora aperta sempre, di là dove una volta era la Porta di Foggia, e percorremmo la strada principale. Quest’antica porta è stata smantellata nell’anno 1860, e sino ad oggi le mura della città a’ due lati sono state lasciate come restarono allora, guaste e caduche; il che già in sul primo entrare rende l’impressione di un non so che di misero e di cencioso.
La prima cosa che mi colpisse, e non senza grande compiacimento, fu il nome della strada: Corso Manfredi. Sicchè i bravi abitanti hanno serbata viva e grata la ricordanza del fondatore della città loro; e in essi il sentimento storico ha avuto forza tanta da resistere all’andazzo generale. Evidentemente fra i rappresentanti del comune ve ne ha da essere alcuni non sprovvisti di sentimento siffatto; senza di che è sicuro che la strada sarebbe stata nuovamente battezzata col nome di Corso Vittorio Emamuele.
Dopo l’ultima rivoluzione è sciaguratamente diventato in Italia una vera manía il barattare ad ogni costo i vecchi nomi delle strade nelle città, con quelli de’ personaggi principali o de’ più notevoli avvenimenti della storia più a noi prossima. Il patriottismo, certo, è una bella e santa cosa; ma anch’esso ha i suoi limiti ragionevoli. I nomi antichi delle strade sono come tanti titoli de’ capitoli della storia delle città, e vanno perciò rispettati e mantenuti quali monumenti storici del passato. Ora intanto le città d’Italia dalle Alpi al Lilibeo si sono provviste tutte de’ medesimi nomi moderni di strade, i quali non stanno in alcuna relazione col luogo, non hanno con questo proprio nulla a che vedere. Fossi io il re d’Italia, ovvero Garibaldi o il Principe ereditario, vorrei pregare che si smetta dall’abusare siffattamente del nome mio. Questa uniformità di nomenclatura comincia a diventare ristucchevole e disgustosa. In quale che siasi la città italiana ove si vada, bisogna aspettarsi di trovarvi un Corso Vittorio Emanuele, o Garibaldi, o Umberto, e su’ canti delle strade le leggende eternamente e monotonamente ripetute delle battaglie di Magenta, Solferino, Castelfidardo, Montebello, Marsala, ovvero, ciò che ispira maggior nausea ancora, d’imbattersi in concetti astratti e totalmente vuoti, quali Piazza del Plebiscito, dell’Indipendenza, dell’Unità.
In Trani trovammo il nuovo quartiere, appunto in via di essere edificato, provvisto tutto d’indicazioni simili. E passi pure: si tratta in fine di un quartiere che non ha una storia. E il simile può dirsi rispetto ai nomi, che sono gli stessi, adottati a Roma pel nuovo quartiere, che va ora sorgendo dove una volta era il Castro Pretorio. Ma che cosa ha da fare Garibaldi con Taranto, per esempio, ove alla vecchia strada lungo il Mare Piccolo è stato dato il nome di lui? Così pure v’era in Andria un’antica Piazza Catuma, ed ora è stata ribattezzata Piazza Vittorio Emanuele. E di cosa in cosa si è andati al punto di mutare in Napoli insino il nome storico e tre volte secolare della Strada Toledo in quello di Strada Roma, e di voler costringere il popolo che vi si oppone e resiste a riconoscere la scipita violenza. Non poco invece mi rallegrai, quando a Bari, in opposizione a questa stupida tendenza, vidi fregiate parecchie strade di nomi che ricordano la storia locale: Via Melo, Via Argiro, Calefati, Roberto di Bari. Questi nomi mi riconducevano immantinenti al pensiero i tratti più essenziali della storia di quella insigne città. In generale, la prima cosa che io faccio in una città a me non ancora conosciuta, è leggere i nomi delle strade e prenderne nota.
Arrivando a Manfredonia noi non eravamo ancora ben certi intorno al se e al dove avremmo trovato da alloggiare. Ed ecco, in men che non si dica uno sciame di gente ruvida, lurida, seminuda piombarci addosso, e con impeto di gesta e grande gridío ciascuno si offre a portale le nostre cose e condurci ad una locanda. La vista di cotesti mascalzoni, che senza tema di far loro torto si sarebbero potuti tenere per tanti galeotti evasi dal bagno, fece su noi impressione disaggradevolissima; ed io riandai a un tratto tutto quello che m’era stato raccontato della selvatichezza e ferocia della regione del Gargano, e dell’essere essa piena di briganti, e come il percorrerla non fosse quindi senza pericoli. Più tardi però, quando potemmo liberarci dall’assalto di quegli accattoni, ci accorgemmo che tanto nella parte bassa verso il porto, quanto nell’alta abitava una popolazione tranquilla e pacifica.
Noi trovammo insino discreto alloggio nella maggiore locanda della città sul Corso Manfredi, se di locanda merita il nome una casa di apparenze assai modeste, fornita di parecchie camere con letti. Il locandiere, una volta sarto, non sembrava poco fiero della sua casa che originariamente era stata un monastero. Volle condurci a visitare le camere, che erano per lo meno una ventina; il che lascia supporre che nella città non manchi un certo traffico. Comandata la cena, andammo un po’a zonzo per Manfredonia. Il numero de’ suoi abitanti si eleva ad 8000; ma, a vederla, si direbbe non ne conti al più che un 5000. La sua giacitura è affatto piana; è edificata a forma di quadrato; e il lato che guarda la campagna è ancora cinto in parte dalle antiche mura. Ha quattro o cinque strade principali parallele, intersecate da altre trasversali. Oltre il Corso Manfredi, i nomi delle più notevoli sono: Via delle Grazie, Cristallina, delle Cisterne, San Matteo, della Tribuna, del Castello. Il lastricato è di pietra calcarea regolarmente tagliata, e su per giù discretamente buono; anzi nel Corso Manfredi è addirittura eccellente. Che Manfredonia avesse apparenze così moderne, non mi fu cagione di lieve sorpresa; ma la storia della città ne porge la spiegazione.
Presa d’assalto da’ Turchi, venne incendiata l’anno 1620, e di poi edificata daccapo. Pertanto non vi è più nulla d’antico; nulla di gotico; nulla che derivi dal tempo di Manfredi e degli Angioini, se ne togli alcune chiese, e quel che ancora rimane delle mura e del castello. Ed eccettuati pochi edifizii, soprattutto chiostri, i quali hanno certa aria di palazzi, il resto non è che casupole impiastrate per mano dell’imbianchino, con tetti scoperti e a terrazzo, in quello stile che ha del moresco, così comune sui golfi di Salerno e di Napoli. Anche qui nelle pareti esterne che danno sulla strada non s’aprono che rade finestre, le quali hanno talora la bizzarra forma di una foglia. Sull’ingresso di molte case vi è una nicchia, con entro una piccola figura dell’Arcangelo Michele, eseguita in pietra del Gargano che ha qualche somiglianza con l’alabastro. Così gia in Manfredonia è sensibile l’irradiarsi artistico e morale della leggenda di San Michele. Probabilmente tutta la regione del Gargano, come paese dell’Arcangelo, è posta sotto il patrocinio e la dominazione di quella figura. E infatti già su molte porte in Foggia, e poi anche su tutte le fattorie lungo la strada per Manfredonia avevamo potuto osservare lo stesso fantoccio con le ali spiegate, col suo scudo e la sua spada sguainata.
Quasi al centro della città sorge il duomo, mediocre edifizio con piccola cupola, all’interno affatto moderno e senza navate. Tiene a lato un piccolo ma grazioso campanile, terminato anch’esso a forma di cupola e costrutto di pietra calcarea di color giallo. Dopo la distruzione della città per mano de’ Turchi, la cattedrale fu ricostruita dal cardinale Orsini; epperò non vi sono monumenti: tutti quelli dell’antico duomo insieme con l’archivio andarono distrutti nell’anno 1620. Lì presso c’è pure il grande palazzo arcivescovile, costrutto dopo l’anno 1565 dagli arcivescovi Tolomeo Galli e Domenico Ginnasi: un edifizio dalle forme grandiose, ma senza alcun carattere; e le uniche cose che ci parvero degne d’attenzione, furono nella corte alcuni ruderi marmorei dell’antica Siponto, e due bei capitelli di colonne corinzie messi alla porta d’ingresso.
I monasteri in Manfredonia sono stati soppressi, ovvero, come in tutto il rimanente d’Italia, sussistono quelli soltanto i cui abitatori si dedicano all’istruzione. Di frati non ne vedemmo che tre o quattro. Il monastero una volta de’ Domenicani, grande edifizio dipinto in giallo, è annesso alla chiesa dello stesso Ordine; e questa è una delle più antiche della città, come lo indica la porta in stile romano. Le sta innanzi una piazza ridotta a giardino. Nel monastero è ora la sede del Municipio. Manfredonia non ha, del resto, avuto mai una vita municipale indipendente, essendo stata sempre città di diritto regio e a volte feudo baronale. Così venne un tempo data in feudo dalla regina Giovanna II al celebre condottiero Sforza.
All’estremità del Corso Manfredi è situato sul mare il castello angioino, quadrilatero munito di mura, con tozze torri, simile in tutto agli altri castelli delle città marittime sull’Adriatico e, come questi, in via anch’esso di deperire.
Benchè il primo concetto fosse di re Manfredi, pure la fortezza non fu fatta elevare che da Carlo I. Egli ne commise l’incarico al suo architetto, maestro Giordano da Monte Sant’angelo, sul Gargano, che diresse pure la costruzione delle magnifiche mura di cinta della città.
Il vincitore di Manfredi volle sopprimere il nome di Manfredonia, perchè la ricordanza della dinastia degli Hohenstaufen si estinguesse; epperò la città fu ufficialmente chiamata Siponto novello. Se non che il popolo mantenne il nome di Manfredonia, verosimilmente in sulle prime per un sentimento di vera pietà verso il fondatore della città; ma poscia principalmente per questo, che il nome suonava più armonioso ed era più agevole a pronunziare. Questo felice caso di Manfredonia mostra come non sempre i baratti violenti e arbitrarii de’ nomi storici riescano a vincerla. Oggi pare che la rimembranza o la rappresentazione di ciò che fu il re Manfredi siasi nel popolo in massima parte dileguata, se devo argomentarlo dalla spiegazione che un uomo della locanda, con sicurezza da pedante, mi diede del nome della città. Manfredonia, disse egli, viene da Manfredi, che era reggente della città, e da Onia, ch’era sua moglie.
Il castello oppose resistenza agli assalti del maresciallo Lautrec, al tempo in che questi condusse la sua celebre campagna contro Napoli: non così a quelli de’ Turchi. Oggi non serve più a niente, chè basterebbero pochi colpi a smantellarlo.
Una volta stava esso a difesa del porto; e questo è ora in parte invaso dalla rena. Presentemente si lavora a restaurare ed aggrandire il molo, costrutto già al tempo di Manfredi e alla cui estremità s’eleva un faro. Il golfo superbo non offre segno di vita nè di movimento: non mai un legno di grossa portata viene a gettarvi l’àncora. Anche il traffico con le coste della Dalmazia, che stanno lì, dirimpetto, sembra essere del tutto scarso. Accade di rado che qualche battello a vapore della linea Ancona-Napoli vi approdi, o alcun legno dell’armata italiana venga a farvi le sue esercitazioni. Tanto era grande l’abbandono in che il porto giaceva, che, facendone il giro, a noi pareva trovarci su qualche rada deserta di una delle isole del Mediterraneo.
Il Governo italiano ha in mente di costruire una strada ferrata da Foggia a Manfredonia per ridare alla città un po’di vita. Un semplice sguardo alla giacitura del suo porto basta per mostrare quali grandi vantaggi esso offra a petto degli altri porti delle coste adriatiche; imperocchè il golfo di Manfredonia sia di tutti il più ampio ed offra ad un tempo lo scalo più sicuro. Il golfo infatti s’insena molto addentro nella terra, e dal lato del settentrione è protetto dal Gargano. Di più, le sue spiagge sono lo sbocco naturale per tutta la regione nordica delle Puglie; onde il luogo sarebbe veramente destinato a diventare magazzino di deposito pe’ prodotti del paese da esportare. Malgrado di ciò nè nell’antichità nè nel medio evo Manfredonia è mai riuscita a levarsi sì alto e ad acquistare importanza siffatta, perchè alla greca Siponto non toccò mai il grado di considerazione che ebbero Taranto, Metaponto, Eraclea, Sibari ed altre città. E neppure può dirsi che Siponto, o più tardi Manfredonia, abbia mai potuto gareggiare con la vita di Barletta, Bari, Brindisi ed Otranto.
Le ragioni di questo fatto piuttosto strano devonlo forse trovarsi negli svantaggi derivanti dalla postura stessa della città, i quali scemano di molto quei vantaggi che il golfo sembra assicurarle. Il suolo, ond’è ricinta, non è ferace. Intorno intorno, oltre le terre a pascolo, oltre quel deserto rimasto così attraverso i secoli, non ci è altro. Dalla parte bassa del golfo non incontri per tutto che paludi e lagune, nelle quali, se per avventura qui e là viene a versarsi qualche misero rigagnolo, nessun fiume si scarica. E a settentrione poi quell’immane muraglia rocciosa del Gargano che sbarra la città e quasi la soffoca. Una strada ferrata da Foggia andrebbe sempre a terminarsi a Manfredonia come in una via senza uscita, e non potrebbe mai competere con quelle che in due o tre ore adducono i prodotti delle Puglie e delle province limitrofe ai luoghi di deposito, come Barletta, Trani o Bari. Bari specialmente, col suo territorio ubertoso, con la sua produzione di vino e d’olio che da dieci anni a questa parte sembra aver preso slancio assai notevole e con i suoi due porti, sarà sempre un ostacolo al venir su e al fiorire di Manfredonia.
Chi percorre le strade solitarie della piccola città, scorge ad ogni passo i segni dell’indigenza: qualche bottega dalle apparenze più modeste: non una traccia di prospero stato nè di bisogni in via di svolgimento. Il popolo ci parve vivesse tutto secondo abitudini e modi contadineschi. Se ne sta lì, in mezzo ad uno de’ più grandiosi panorami che le coste adriatiche sappiano offrire, godendosi la vista del mare e del promontorio maestoso, segregato affatto dal mondo, in condizioni primitive e idilliche, le quali in sostanza sono ancora le medesime come al tempo degli Angioini e degli Aragonesi.
Perchè insomma qui tutto si riduce alla ripetizione perenne e monotona degli stessi avvenimenti, che muovono da tre direzioni diverse: ad aspettare, cioè, quel che arrecano il golfo, il Tavoliere e il santo pellegrinaggio sulla montagna. La pastorizia, la pesca, e un po’anche l’agricoltura sono le uniche occupazioni di una parte degli abitanti. In pianura non ci sono vigne. Il vino viene da Barletta o da alcune pendici del Gargano che ne producono. In generale il vino, a dir così, del luogo lo si chiama vino di montagna ed è, più che buono, eccellente.
Il nostro oste ci diede appunto di codesto vino del Gargano, e propriamente di Carbonara, che noi trovammo squisito. Aveva qualcosa del moscato con un profumo di terra tutto suo. Devo dire che la sera come anche il giorno dopo i nostri pasti al Corso Manfredi furono gioviali e soddisfacenti. I pesci del golfo ne furono naturalmente l’ingrediente principale; e, preparati alla marinara, erano succulenti così che a Taranto stesso non gustammo di meglio. Sulla nostra richiesta di un po’di burro fresco, che grazie alla pastorizia nel prossimo Tavoliere ci pareva dovess’essere comunissimo, ce ne fu portato in un grosso recipiente di creta. Aveva la forma di una palla ed un colore azzurrognolo. Era semplicemente burro di pecora, che ci fu impossibile gustare; il che destò grande sorpresa nel nostro bravo anfitrione, assicurando egli essere il burro freschissimo e della più scelta qualità.
Dopo un placido riposo, al primo albeggiare eravamo già in carrozza avviati al Gargano per visitarvi il luogo del pellegrinaggio. E il dover essere iniziati agli strani misteri che nel santuario dell’Arcangelo, vecchio oramai di tredici secoli, si son consumati, non acuiva poco la nostra curiosità e la nostra aspettazione.
Ferdinand Gregorovius - Nelle Puglie
Traduzione in italiano di Raffaele Mariano
G. Barbera Editore - Firenze - 1882