lunedì 8 novembre 2010

L'antica Siponto

Numerosi reperti, tra i quali i più significativi sono le stele daunie, lastre funebri scolpite dell'VIII - VI secolo a.C., attestano che la piana a sud del Gargano era abitata sin da epoca neolitica. L'area fu sede di un importante insediamento dauno, Siponto, che in seguito fu ellenizzato, diventando uno dei porti più settentrionali della Magna Grecia. A questo periodo risale la leggenda di una fondazione ad opera dell'eroe omerico Diomede. Conquistata prima dai Sanniti e poi da Alessandro I d'Epiro nel 335 a.C., nel 189 a.C. divenne colonia romana, mantenendo comunque viva la sua importanza strategica e commerciale.

Sede vescovile dal 465, Siponto fu centro importante tra il IV e il V secolo e vi fu costruita una basilica paleocristiana. A lungo contesa fra Longobardi e Bizantini, fu distrutta da questi ultimi nel VII secolo, durante il regno di Costante II. Ricostruita fu brevemente possedimento saraceno nel IX secolo e divenne sede di una delle 12 contee normanne.

Siponto subì pesanti distruzioni per i terremoti del 1223 del 1255, in seguito al quale si ebbero probabilmente fenomeni di bradisismo che fecero cadere in rovina la città.


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Monumenti di Manfredonia


Castello svevo-angioino-aragonese

Voluto da Manfredi di Sicilia all'atto di fondazione della città, il castello è frutto di diverse trasformazioni, ampliamenti e rifacimenti durante le diverse epoche. All'origine la struttura era un quadrilatero con una cinta muraria dotata di cinque torrioni a pianta quadrata (quattro agli angoli ed una presumibilmente posta a nord-est presso la porta centrale). Attualmente esistono di quelle torri solo quattro di cui solo quella a sud-est ha mantenuto l'originaria forma quadrangolare, mentre le altre tre sono state inglobate in strutture cilindriche. Di chiara marca sveva, il primo castello fu concluso da Carlo I d'Angiò.

In epoca aragonese si assisté a un processo di radicale trasformazione del complesso, nell'ambito di un complessivo progetto di fortificazione delle strutture difensive delle più importanti città costiere. Fu infatti disposta la costruzione di una nuova cortina muraria inglobante la struttura primitiva e dotata di una leggera inclinazione a scarpata tale da renderle più rispondenti alle esigenze dell'arte difensiva conseguenti all'uso dell'artiglieria militare. Agli angoli vengono costruiti quattro torrioni cilindrici più bassi di quelli interni. Dopo l'attacco nel 1528 del maresciallo francese Lautrec il torrione di nord-ovest venne modificato a bastione inglobando la precedente struttura a forma cilindrica. Anche le altre tre torri erano interessate al progetto di fortificazione ma questo non fu mai portato a termine. Nel 1620 il castello dovette capitolare all'attacco dei turchi a causa della esiguità dei pezzi di artiglieria e perché privo di parapetti protettivi sufficientemente alti a garantire l'incolumità dei difensori.

Nel corso del XVIII secolo la struttura venne usata come caserma ed il grande bastione a prigione. Durante il regno dei Borboni e in epoca successiva fino al 1884 il Castello viene tenuto in efficienza in quanto Manfredonia viene qualificata come piazza forte. Dal 1888 fino al 1901, anno in cui l'edificio fu acquistato dal Comune di Manfredonia, appartenne all'orfanotrofio militare di Napoli.

Nel 1968, con D.P.R. del 21 giugno n. 952, il Castello viene donato dal Comune allo Stato con l'impegno, da parte di quest'ultimo, di istituire al suo interno un museo per conservare i reperti provenienti dal territorio circostante. L'attuale museo archeologico che custodisce stele daunie databili all'VIII-VI secolo a.C.).

Architetture religiose


La Cattedrale di Manfredonia

Cattedrale

Intitolata a san Lorenzo Maiorano patrono della città, che fu vescovo di Siponto tra la fine del V secolo e la metà del VI, venne costruita tra il 1270 e il 1274, ma solo nel 1324 vi si trasferì il capitolo diocesano. Nel 1620 fu distrutta dagli ottomani. L'edificio attuale risale all'episcopato di Antonio Marullo (1643-1648). Vi si conservano le reliquie del patrono della città e alcune opere d'arte traslate nel XX secolo dalle altre chiese del territorio, tra le quali l'antica icona della Madonna di Siponto, la statua in legno policromo di fattura bizantina detta Madonna dagli occhi sbarrati o La Sipontina e un possente crocifisso ligneo duecentesco.

Basilica di Santa Maria Maggiore di Siponto

Sorta sopra una preesistente chiesa paleocristiana (a sua volta rimaneggiamento di un tempio classico), la chiesa è attestata dal 1117 e assolse funzioni di cattedrale di Siponto sino al 1323. Si presenta come un edificio in stile romanico pugliese a pianta quadrata, edificato su una cripta della quale riproduce la struttura. Per motivi di sicurezza i principali arredi sacri fra cui l'icona della Madonna di Siponto e la statua della Madonna dagli occhi sbarrati sono oggi custoditi nella cattedrale cittadina. Nel 1977 è stata eretta a basilica minore.

Abbazia di San Leonardo

Fondata nel XII secolo, in Lama Volara, a 10 km. dalla cittadina, si compone di una chiesa dell'XI secolo in stile romanico pugliese con influssi bizantini, e dei resti abbaziali e dell'ospedale, che per secoli ha assolto il ruolo di luogo di sosta per i pellegrini che percorrevano la via Sacra Longobardorum verso il santuario di San Michele Arcangelo, sulle pendici del Gargano.

Sia il portale sia l'esterno conservano una serie di sculture e bassorilievi che raffigurano episodi biblici ed elementi significativi della mistica medievale.

Chiesa di San Domenico

La costruzione della cappella, di fatto un'abside, dedicata a Santa Maria Maddalena, contigua della Chiesa di San Domenico e del Convento dei Frati Predicatori fu disposta da Carlo II d'Angiò nel 1294. Dopo la devastazione del 1620 ad opera dei turchi, il complesso fu riedificato poco dopo sulla vecchia costruzione. Il nuovo progetto settecentesco ridusse la chiesa ad una sola navata, come appare oggi. Le pareti laterali della navata sono popolate da sei altari in stile barocco, anche se all'interno della Chiesa sono numerosi i richiami allo stile romanico; la facciata in stile gotico è stata restaurata ed il suo rosone ripristinato nel 1960; la vecchia cappella conserva quattro preziosi affreschi parietali del Trecento.

Convento di Santa Maria della Vittoria

Edificato nel 1571 e distrutto dai turchi nel 1620, venne ricostruito nel 1662. Nell'intitolazione ricorda la vittoria navale dei cristiani sugli ottomani nella battaglia di Lepanto combattuta nello stesso anno della fondazione. Qui nel 1575 si convertì san Camillo de Lellis, che visse durante il noviziato. Nel 1811 il convento fu chiuso definitivamente e inglobato nell'attuale cimitero con l'annessa chiesa. Tra gli ambienti superstiti, quello di maggior richiamo è il chiostro.

Chiesa della Sacra Famiglia


Parrocchia Sacra Famiglia negli anni '80

Sorta nel 1982, è caratterizzata dai maestosi mosaici dell'artista Ambrogio Zamparo, raffiguranti la Natività, la Trinità, il Cristo, la Nuova Gerusalemme, il Battesimo di Gesù e alcune scene evangeliche. L'icona lignea del crocifisso è opera di Matteo Mangano.

Altre chiese

  • Chiesa della Beata Vergine Maria Stella Maris
  • Chiesa di San Camillo de Lellis
  • Chiesa di San Carlo Borromeo
  • Chiesa di San Giuseppe sposo
  • Chiesa di San Michele Arcangelo
  • Chiesa di Santa Maria del Carmine
  • Chiesa dello Spirito Santo
  • Chiesa del Santissimo Redentore
  • Chiesa della Santissima Trinità
  • Chiesa del Santissimo Salvatore
  • Chiesa di Santa Maria Regina
  • Chiesa di Santa Maria del Grano
  • Chiesa del Corpus Domini
  • Chiesa di San Benedetto
  • Chiesa di San Francesco d'Assisi
  • Chiesa di Sant'Andrea
  • Chiesa di San Francesco da Paola
  • Chiesa di Santa Maria delle Grazie
  • Chiesa di San Matteo

Architetture civili

Palazzo San Domenico

Sito in piazza del Popolo, è sede del Comune. Caratterizzato da un colonnato e loggetta, fu convento dei Padri Domenicani, che alla fine del XIII secolo fino all'epoca napoleonica l'abitarono officiando nella Chiesa attigua (Chiesa di San Domenico).

Palazzo Mettola

Tra corso Manfredi e via Arcivescovado, fu della Famiglia De Florio, della quale si ricorda suor Antonia, che nel 1592 tramutava la sua abitazione nel monastero delle Clarisse.

Palazzo De Nicastro

Il palazzo, in stile tardo barocco, sorge in via Tribuna. In questo palazzo ebbe i suoi natali il musicista e storico Michele Bellucci(1849-1944).

Palazzo Delli Guanti

in Via San Lorenzo, in stile tardo barocco. Questo palazzo fu abitato nel 1432 dai Cavalieri Teutonici di San Leonardo. È caratterizzata nella parte centrale da un elegante loggiato con volte a crociera in colonnine che sovrastano il portale d'ingresso ad archivolto. All'interno vi è un grazioso cortile con scale di accesso al loggiato, dov'è custodito un crocifisso ligneo del XVIII secolo, testimone di una tradizione popolare. Dopo un salto di oltre tre secoli pervenne alla famiglia del Marchese Delli Guanti.

Palazzo Celestini

In corso Manfredi, dal 1350 monastero dei Celestini fu mutato in abbazia nel 1657. Nel XVIII secolo fu demolito e ricostruito secondo i dettami del barocco che oggi si ammira. Nel 1813 fu concesso al Comune da Gioacchino Murat per uso di Casa Comunale. Dopo recenti lavori di restauro è attualmente sede delle Civiche Biblioteche Unificate e dell' Auditorium Comunale.

Palazzo De Florio

Casa patrizia in stile barocco, fu fatta costruire da ricchi mercanti sipontini in contatto con Lorenzo il Magnifico e con i mercanti europei del Rinascimento. Il loggiato, di epoca posteriore al palazzo di pura linea classica, è costituito da una serie di archi a tutto sesto insistenti su pilastri a sezione rettangolare con semplici cornici all'imposta. Il tutto è coperto da una serie di volte a crociera.

Palazzo delli Santi

In via Santa Maria delle Grazie, risalente al XVIII secolo. Questo Palazzo è caratterizzato da un portale in pietra finemente lavorato in forma rococò e dalla elegante balaustra continua che sormonta il muro perimetrale del primo piano con pregevole soluzione di balconata d'angolo. Ospitò Ferdinando II, re di Sicilia nel 1859.


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Storia di Manfredonia

Fondazione di Manfredonia

Nel gennaio 1256 il re di Sicilia e principe di Taranto Manfredi giunto a Siponto durante una battuta di caccia sul Gargano, trovò la città distrutta e gli abitanti costretti a vivere in case non più adatte all'uso abitativo, in un'area resa malarica dall'impaludamento. Decise quindi di ricostruire la città due miglia a nord dell'insediamento originario. Le sue intenzioni erano duplici: da un lato, creare uno dei più importanti centri di governo di tutto il Regno, secondo gli evoluti canoni amministrativi ormai consolidati dal padre, l'imperatore Federico II; dall'altro, presidiare il territorio la cui posizione era strategica anche per via della vicinanza all'Oriente bizantino.

Le conferì il proprio nome in segno di futuro prestigio, onore e potenza. In marzo i lavori vennero affidati al maestro costruttore Marino Capece, che riutilizzò i ruderi della città più antica e organizzò l'importazione via mare dalla Schiavonia di legname, calce, pietre e sabbia. Nel complesso furono impiegati 700 operai e molti buoi. Il 23 aprile 1256, giorno di san Giorgio, fu posata la prima pietra e nel 1257, convocato il Parlamento di Puglia a Barletta, Manfredi ottenne di costruire la nuova città a spese dell'erario reale e della sua cassa privata. Nel novembre 1263 venne consegnato il Datum Orte, ossia l'atto notarile col quale la città veniva ufficialmente riconosciuta. Manfredi successivamente affidò i lavori a suo zio Manfredi Maletta.

Ai primi del 1258 erano state costruite la metà delle mura che guardano verso il mare e verso Foggia, con fortini e baluardi, e la grande torre di San Francesco; la piccola chiesetta della Maddalena e la grande campana il cui suono era percettibile a distanze notevoli, questa serviva in caso di pericolo per chiamare a raccolta i pochi abitanti di Manfredonia. Nel 1264 Manfredi inaugurò solennemente il castello e la città.

La nuova città ottenne benefici fiscali (franchigie) che la resero un porto franco e la sua popolazione si accrebbe con il trasferimento di abitanti delle vicine città di San Paolo di Civitate, Trani, Carpino, Monte Sant'Angelo, Barletta, Ischitella, Andria e Corato. Sin dalla sua costituzione fu dotata di una zecca che coniò e impresse diverse monete (doppio tarì, dinari d'oro, di rame e di biglione).

Il periodo angioino


Panoramica dal Castello di Manfredonia

Con la battaglia di Benevento del 1266, che segnò la morte di Manfredi e il passaggio dei suoi possedimenti a Carlo I d'Angiò, gli angioini completarono il castello sotto la direzione del maestro costruttore Giordano Onofrio e del soprintendente l'architetto Pierre d'Angicourt. Nel 1269 Carlo I confermò i privilegi che Manfredi diede alla città. Il 7 febbraio 1270 iniziarono i lavori del nuovo duomo sotto l'arcivescovo Giovanni VII (Freccia da Ravello).

Nel 1272 papa Gregorio X visitò Manfredonia ed in questa occasione Carlo dietro consiglio del papa fece collocare una lapide a Porta Puglia e ribattezzò la nuova città col nome di Sypontum Novellum o Sipontum Nova, denominazione che tuttavia non si affermò.

Il 7 maggio 1273 Carlo I tornato in città, fece costruire a spese della città un ulteriore torrione al lato nord e perfezionare le mura a due ordini, rendendole praticabili con la costruzione di una strada tra il primo e secondo muro; tra il 1279 ed il 1282 venne completato il castello con bastioni, mura di cinta e fossato.

Nel 1274 fu terminato il duomo e l'anno successivo riunitosi il parlamento manfredoniano si decise che l'Arcivescovo prendesse possesso del duomo come Pastor Bonus e nella città si stabilì il Magistrato. Dal 1256 molti canonici officiavano a Siponto ed altri a Manfredonia, tale discordia durò fino al 1327.[non chiaro]Carlo II, succeduto a Carlo I, fece erigere altri tre torrioni lungo le mura e alterò il progetto originario del castello di Manfredi con l'utilizzo del sistema francese per avere una migliore difesa.[non chiaro] Nel 1292 Carlo II stabilì i confini della città e sistemò le difese e nel 1299 incominciarono i lavori per la costruzione del porto e dell'episcopio, che sarebbe stato terminato soltanto nel 1316.

La città perse parte dei suoi privilegi e nel 1300, con il trasferimento a San Severo della sede del Gran Giustiziere, perse anche il titolo di capitale della Puglia (Apuliae caput). Nonostante questo, la città s'avviava a diventare il centro commerciale più importante della Capitanata[]. L'importanza strategica del porto sipontino è attestata dai numerosi viaggi dei reali angioini: nel 1309 vi si imbarcò Carlo Roberto d'Angiò per occupare il trono d'Ungheria per diritto di successione; il 31 luglio 1333 Carlo Roberto e suo figlio Andrea sbarcarono a Manfredonia e nel 1344, la regina Elisabetta terza moglie di Carlo Roberto s'imbarco per raggiungere Visgrad, in Polonia. Gli Ungheresi si stanziarono a Manfredonia facendo del porto la base delle loro operazioni militari: Luigi I il Grande, re d'Ungheria sbarcò con il suo esercito il 18 settembre 1345 dopo l'uccisione del fratello Andrea.

Il 6 maggio 1380 il golfo di Manfredonia fu teatro di un'aspra battaglia navale tra le flotte genovese e Veneziana, che vide la prevalenza dei primi, i quali fecero prigioniero l l'ammiraglio della Serenissima, Matteo Giustiniani. Il 13 agosto 1380 moriva a Manfredonia il celebre ammiraglio veneziano Vettor Pisani mentre la sua armata era alla fonda nel golfo di Manfredonia.

Il periodo aragonese-spagnolo

Durante il XV secolo gli Aragonesi per uniformarsi ai tempi ed alle nuove tattiche difensive costruirono altre torri. Dal 1424 al 1435, Manfredonia fu concessa in contea a Francesco Sforza.

Dalla metà del '400 con Re Alfonso la città di Manfredonia iniziò ad impoverirsi caricando gli abitanti di tasse e balzelli; e così gli Aragonesi, Austriaci ed i Borboni. Nel 1444 alla città toccarono le spese dell'incoronazione di Re Alfonso e nel 1459 Re Ferdinando diede in pegno la città con altre città pugliesi ai Veneziani. Nel 1463 la città fu saccheggiata del Re Ferdinando.

Nel 1503 i francesi occuparono Napoli e molte città del regno. Solo Manfredona e Taranto rimasero fedeli fino alla fine a Federico d'Aragona. Durante la dispora tra Venezia e la Spagna i primi conquistarono i principali porti pugliesi tra cui Manfredonia data in pegno da Ferdinando II d'Aragona.

Resistenza all'attacco francese

Manfredonia ospitò Cesare e Guido Fieramosca quando il maresciallo francese Lautrec invadeva il Regno di Napoli. Guido combatteva contro i Veneziani in Puglia dopo che questi stavano riconquistando tutte le città tranne Manfredonia, difesa da Carlotto di Parma detto il Cavaliere, da Alessio Lascari e Pier Luigi Farnese e lo stesso Fieramosca. Tre città resistettero alla Francia: Manfredonia, Gaeta e Napoli. Il Lautrec non riuscendo a conquistare la città operò delle razzie nelle campagne circostanti fino a quando una delle navi che appoggiavano le operazioni francesi venisse colpita dai cannoni della Torre di San Francesco. La città di "Manfredi" dunque nel 1528 resistette all'assedio francese e fu conservata all'imperatore Carlo V. Lo stesso imperatore per alleviarla e riconpensarla della fedeltà le riconfermò nel 1533 gli antichi privilegi, esenzioni e gabelle. Sotto Carlo V, la città godette un periodo di felice progresso e benessere

Lo sbarco dei turchi


Sbarco sul porto di Manfredonia

Lungomare storico di Manfredonia avvolto in una fitta nebbia

Pedro Téllez-Girón y de la Cueva fu deposto dal grado di Viceré di Napoli da Filippo III di Spagna. Costui incoraggiò gli Ottomani a venire nel Meridione promettendo loro l'appoggio del popolo napoletano e così questi il 16 agosto 1620, forti di 56 galee comandate da Alì Pascià sbarcarono presso Manfredonia. Trovando impreparati i difensori riuscirono in poco tempo a conquistare le mura ed i bastioni, da questi aprirono il fuoco contro il Castello. Le suore dei conventi con gli altri cittadini si rifugiarono nel Castello e dopo aver resistito tre giorni sfiniti dalla fame e senza alcuna speranza di soccorso capitolarono il 18 agosto 1620. Durante l'assalto furono uccisi cinquecento Manfredoniani e settecento ottomani. La città fu selvaggiamente saccheggiata e distrutta, non rimase nulla della splendente città medievale che anni prima valorosamente resistette al Lautrec. Il bottino de Turchi fu di 36 cannoni di bronzo, tutte le campane delle chiese, una statua d'argento di san Lorenzo Maiorano, oro, argento, vestiti, libri, grano, cereali etc. Furono distrutti tutti i documenti più importanti della città, fu bruciato il corpo di san Lorenzo Maiorano (rimase solo il braccio destro). Solo la chiesa di San Marco vicino alla Cattedrale rimase leggermente lesionata e funzionò da Cattedrale fino alla costruzione del nuovo Duomo nel 1640. I manfredoniani furono spogliati anche dei loro abiti e maltrattati, molti di essi fustigati, uccisi e condotti schiavi. Tra i prigionieri anche la giovine Giacoma Beccarino una bella fanciulla portata in Turchia come dono al Sultano, il quale rimase affascinato dalla bellezza della ragazza. Divenne la sua favorita ed ebbe successivamente da Giacoma l'erede al trono (che morì in età giovane). La Beccarino visse da prigioniera ed inviò alle suore clarisse di Manfredonia, dove anni prima risiedeva, una lettere per sapere notizie sui suoi genitori (morti durante il sacco) e due ritratti: il suo e quello della balia.

La lenta ricostruzione

Dopo la calata dei turchi nulla restò di Manfredi e dei d'Angiò, tranne la piccola Chiesa di San Marco con la volta lesionata, parte del Castello e le antiche mura. L'Arcivescovo sipontino Annibale sceso dai monti del Gargano per constatare le rovine osservò che la valanga turca non aveva lasciato altro che rovine, desolazione, lutti e miserie. Questi, aiutato dal cardinale, viceré Borgia ottenne franchigie per trent'anni per i dispersi manfredoniani. Nel 1624 fu riedificato il Duomo e nel 1644 il nuovo Seminario. Grande aiuto alla ricostruzione fu dato dall'Arcivescovo Cardinale Orsini (fu poi papa Benedetto XIII), che resse la diocesi sipontina dal 1675 al 1680. Nel 1737, Manfredonia aveva una popolazione di 536 abitanti e nel 1749 di 3238. Alla pubblica istruzione provvedeva un solo maestro, la cui remunerazione ammontava a 12 ducati annui nel 1754[2]. Nel 1783, per ordine dell'arcivescovo con una spesa di 200 ducati veniva trasferito il cimitero dal vecchio ubicato al centro della città attaccato alla Cattedrale all'attuale ubicazione attaccato alla chiesa di Santa Maria dell'Umiltà. La prima mappa della città di Manfredonia si ebbe sotto il Sindaco Giacinto Cipriano il 22 aprile 1787. Furono stabiliti i confini del territorio che toccavano l'antica Salpi (ora Zapponeta) estendendosi nella Puglia fino a Borgo Mezzanone, Ramatola con Santa Tecla, Farano, Ciminiera, Coppolachiatta, Colonnelle e sotto i monti del Gargano e verso Macchia (frazione del Comune di Monte Sant'Angelo). Nel 1835, veniva ultimata la strada Manfredonia-Foggia e avviata una comunicazione da Manfredonia-Cerignola, il cui progetto era già approvato in precedenza e attuato in seguito. In questo stesso anno furono lastricate molte strade interne di Manfredonia e aperta "alla ruota" la strada Manfredonia-Monte Sant'Angelo. Solo dopo gli inizi del XIX secolo, migliorate le vie di comunicazione e il porto, si creò una situazione favorevole al commercio e la città cominciò di nuovo ad espandersi e a crescere. Testimonianza di questo sviluppo è il dato di fatto che la città di Manfredonia fu anche sede nel settecento di una importante magistratura speciale, il Tribunale del Consolato di Terra e di Mare, che trattava le vertenze inerenti il commercio marittimo ed estero, come da uno studio di Carmine de Leo.

Il Novecento


Cattedrale di Manfredonia e Campanile dell'Orsini, anni '30

Nel 1910, in occasione di una epidemia di colera, alcuni giovani si riunirono in un'associazione di assistenza, chiamata "Croce Verde", che collaborava con il personale del locale ufficio sanitario[3]. Fu la prima città d'Italia ad essere bombardata da navi austriache durante la prima guerra mondiale, all'alba del 24 maggio 1915. Fu colpita la stazione ferroviaria con 100 bombe. Due lapidi poste una proprio nella stazione e un'altra all'inizio del Corso ricordano l'evento.


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Scheda di Manfredonia

Stato: Italia
Regione: Puglia
Provincia: Foggia
Coordinate: Latitudine 41.63333°N - Longitudine 15.91667°E
Altitudine: 5 m s.l.m.
Superficie: 356,93 km²
Abitanti:
57.332 aprile 2010
Densità: 160,63 ab./km²
Frazioni: Siponto, Riviera Sud (Sciali e Ippocampo), San Salvatore, Pastini, Tomaiuolo, Ruggiano, Borgo Mezzanone.
Comuni contigui: Carapelle, Cerignola, Foggia, Monte Sant'Angelo, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, Zapponeta
CAP: 71043
Pref. telefonico: 0884
Codice ISTAT: 071029
Codice catasto: E885
Class. sismica: zona 2 (sismicità media)
Class. climatica: zona D, 1523 GG
Nome abitanti: manfredoniani, sipontini
Santo patrono: San Lorenzo Maiorano, Maria Santissima di Siponto e San Filippo Neri
Giorno festivo: 7 febbraio, 30 agosto

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martedì 8 giugno 2010

38 anni di attività dell'IRAPL nelle parole del Presidente Rag. Domenico Brunetti

Ritengo doveroso dire due parole sulla attività dell’IRAPL, che in 38 anni di lavoro ha svolto a Manfredonia in favore dei giovani.
L’IRAPL, rappresenta per noi un motivo di conforto, se penso che ho realizzato con un gruppo di amici che mi ha seguito in questa avventura ad un preciso desiderio di Padre Pio, che nel corso di un incontro avvenuto nel 1958, in qualità di Funzionario del Ministero del Lavoro, incaricato alla Presidenza della Commissione di Esami al Centro ITCA di San Giovanni Rotondo, mi disse “ pensate ai ragazzi e promuovili tutti, se sono bravi si faranno strada ”.
Divenne per me un chiodo fisso perché mi chiedevo cosa volesse esattamente dirmi il FRATE.
Ritenni che ai giovani potesse occorrere una formazione professionale, che la scuola tradizionale non offriva, e dialogando con il Frate mi disse “fallo tu l’Istituto di Formazione per i giovani”.
Questo mi spinse, nel corso degli anni, ad interpellare alcuni amici che condividessero i passi del cammino, aperto quel 4 febbraio del 1972, quando presso il Notaio Signore, sottoscrivemmo l’Atto costitutivo dell’Ente.
Oggi alcuni di questi amici non ci sono più, ma con loro nel 1981, ho vissuto uno dei momenti più intensi della storia di questo Istituto, per il quale chiedemmo alla Presidenza della Repubblica il riconoscimento di Ente Morale, proprio per dimostrare che non eravamo proprietari nè di contributi ricevuti, nè di macchine nè di attrezzature didattiche e quant’altro ci fosse stato finanziato.
L’istruttoria fu favorevole, ma quello stesso anno si delegarono i compiti alla Regione Puglia e così la pratica istruita dalla Presidenza della Repubblica passò alla Regione, la quale in data 28 settembre 1981, deliberò il riconoscimento giuridico dell’IRAPL, quale Ente Morale.
Oggi l’Istituto promuove e progetta corsi di Formazione Professionale, e l’azione che svolge, può ben configurarsi come essenziale servizio pubblico ,perché rivolto alla promozione culturale sociale e professionale dei giovani, e si presenta con un corso professionale destinato a disoccupati OVER 50.
I settori impegnati in questi anni di attività sono partiti all’inizio con Decreti del Ministero del Lavoro e successivamente, con il trasferimento delle competenze alla Regione Puglia con Delibere di Giunta Regionale, per il settore agricoltura, industria, servizi e commercio ed infine corsi di recupero gratuiti per i giovani rimandati nelle scuole dell’obbligo.
Questo rappresenta un qualificante impegno politico, umano e sociale, e l’Istituto ha voluto rompere una tradizione che poneva i giovani lavoratori meridionali in uno stato di inferiorità e, quindi, di grave handicap morale e sociale.
Mentre la Scuola costituisce un momento essenziale nello sviluppo della società; l’Addestramento Professionale svolge un ruolo essenziale per il riscatto e la crescita socio-economica della gente del sud e soprattutto nella preparazione professionale per la creazione di fonti di lavoro, così come vuole rappresentare il corso di “Informatica e Sviluppo professionale “ destinato agli Over 50.

domenica 6 giugno 2010

Corso di INFORMATICA E SVILUPPO PROFESSIONALE organizzato dall'IRAPL

AVVISO N. 15/2009
INFORMATICA E SVILUPPO PROFESSIONALE
Corso per n. 300 ore
Approvato con DD n. 602 del 17/11/2009 e pubblicato sul BURP n. 190 del 26/11/2009Formazione professionalizzante per reinserire gli ultracinquantenni disoccupati nel mercato del lavoro
Modello per la domanda di iscrizione
Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà che attesti di non essere beneficiari di alcun sostegno al reddito e di altri interventi di politica attiva

Presentazione del di corso di Informatica e sviluppo professionale organizzato dall'IRAPL

L’IRAPL organizza un corso di “Informatica e sviluppo professionale” destinato a disoccupati (uomini e donne) con più di 50 anni, al fine di sostenerli nel rientro del mercato del lavoro.

Per l’occasione l’IRAPL organizza un seminario di lancio che avrà luogo il 16 giugno 2010 alle ore 17.30 presso il Palazzo dei Celestini in Corso Manfredi.

Per la circostanza interverranno il Sig. Sindaco di Manfredonia, Angelo Riccardi, gli Assessori Regionali Alba Sasso ed Elena Gentile, e la Dirigente del Settore di Formazione Professionale Regionale Giulia Campaniello.

Gli interessati sono invitati a partecipare al Seminario di lancio.

martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Scritta dal Rag. Michele Brunetti

LE RAGIONI DI UNA “FUGA”

ovvero

Storia della AJINOMOTO-INSUD dagli inizi alla fine

Raccontata da MICHELE BRUNETTI


In sterquilinio pullus gallinaceus
Dum quaerit escam, margaritam repperit.
"Iaces indigno quanta res" inquit "loco" .
(Fedro)

PREFAZIONE - LE RAGIONI DI UN RACCONTO
Cap. I - I PRODROMI
Cap. II – GLI INIZI
Cap. III – L’AVVIO
Cap. IV – L’ESTERNO
Cap. V – IN PRODUZIONE
Cap. VI – ARIE DI CRISI
Cap. VII – L’INIZIO DELLA FINE
Cap. VIII – LA FINE
Cap. IX – I RETROSCENA


Le ragioni di un racconto.


Molte volte, in questi anni, avevo notizia di incontri e di dibattiti pubblici in cui, tra l’altro, si parlava delle vicende del primo insediamento industriale a Manfredonia, la Ajinomoto-INSUD, e tutte le volte mi preoccupavo di chiedere all’amico Mimì Tavano, l’unico col quale ho condiviso tutte le mie informazioni al riguardo, se avessero chiesto notizie a lui, visto che non lo avevano fatto a me e, alla sua risposta negativa, concludevamo, insieme: - «Si diranno le solite inesattezze!» -

Con Tavano, infatti, abbiamo condiviso molti degli avvenimenti narrati, scambiandoci sempre pareri, consigli e informazioni, e rileggendo queste note e ricordi, mi sono accorto di aver usato, molto spesso, il plurale “noi” che non vuol assolutamente essere un pluralis majestatis, ma solo l’indicazione di condivisione, con lui ed altri amici e colleghi, di quei fatti e di quelle interpretazioni di fatti cui assistevamo.

Spesso, e ripetutamente, mi hanno chiesto di conoscere i veri motivi della chiusura della fabbrica Ajinomoto di Manfredonia, per semplice curiosità o per avere la conferma della propria convinzione, e allora sentivo:

1. i giapponesi se ne sono andati scandalizzati dalla poca voglia di lavorare delle maestranze;

2. i giapponesi hanno scoperto che gli operai, invece di lavorare, giocavano a carte o vedevano filmini pornografici;

3. i giapponesi hanno scoperto che i dipendenti “rubavano” (che cosa, nessuno lo diceva);

4. tutti insieme questi motivi e altre simili facezie.

Sfatare tutte queste convinzioni era una impresa che avrebbe richiesto lo spreco inutile di molte energie, perciò, se l’uditorio meritava, rispondevo solo:

- «Sono tutte idee sbagliate! Non avete detto una sola ragione valida ed effettiva.» -

A coloro che, invece vogliano veramente sapere quali sono stati i veri motivi della fine di quell’esperienza industriale, chiedo prima di tutto la disponibilità a dedicarmi una parte del loro tempo, poi cerco di raccontare il tutto, non senza ribadire che io posso raccontare solo quelli che conosco, se vi sono altri motivi, di cui non ho contezza, non posso parlarne.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - I prodromi

Gli Auguri
In piena atmosfera festaiola, prima di lasciare l’ufficio e tornare alle nostre case, andammo a porgere i nostri auguri per il nuovo anno, il 1977, al Presidente della Società, il Professor Mario Signora. Avevamo visto scendere il personale giapponese, per questo pensammo di poterlo trovare solo e restare a parlare un po’ più a lungo e serenamente. Invece lo trovammo in compagnia del nuovo direttore di stabilimento, il Dott. Cappuccio, seduto di fronte a lui, ma il Presidente ci fece segno di entrare lo stesso e si alzò in piedi, venendoci incontro con la mano tesa.
In altri momenti, saremmo stati lusingati di questa sua gentilezza e cortesia, invece, non so perché, ne rimasi quasi scombussolato e confuso. Per fortuna, il mio collega Tavano era più lucido di me e, dopo gli auguri ed i convenevoli, gli chiese se avrebbe voluto, l’indomani mattina, che qualcun altro, oltre all’autista, andasse in macchina con lui.
- «No, no! Non c’è bisogno! Sono solo due ore di macchina! E poi..» - e si voltò verso il dott. Cappuccio che, nel frattempo, si era alzato e stava uscendo: - «Per distrarmi mi rileggerò queste carte che, oddìo, ancora non mi suonano tanto bene….» -

Tavano allungava il suo discorso, dicendo che gli avrebbe fatto immenso piacere accompagnarlo e cogliere l’occasione per porgere gli auguri di buon anno anche al fratello del Presidente, l’Arcivescovo di Pompei, luogo di destinazione appunto del viaggio dell’indomani mattina. Intanto il nuovo direttore di fabbrica, Cappuccio, salutava uscendo, lasciandoci soli col Presidente che, nel frattempo, gli rivolgeva frasi di circostanza, farfugliando però anche qualcosa di incomprensibile in milanese e terminando, così mi parve, con una espressione d’accento napoletano.

Sarà stato per la mia antipatia verso il Dott. Cappuccio, ma mi convinsi che quelle imprecazioni del Presidente erano verso di lui, così come, alzandosi e venendoci incontro, avesse voluto licenziare il suo dirimpettaio che, infatti, era uscito:

- «Qui è tutto tranquillo, vero?» - chiese il Presidente.

Pensai che la domanda fosse rivolta al Capo dell’Ufficio del Personale, il Dott. Tavano appunto, che si affrettò a rispondere affermativamente e in maniera rassicurante. Poiché tuttavia, formulando la domanda, il Presidente guardò alternativamente anche me, chiesi timidamente: - «In che senso, mi scusi?» - rammentandomi che la stessa domanda mi aveva rivolto, un paio di settimane prima, il Dott. Cipriani, già Amministratore della Società fino a pochi mesi prima, mentre io gli formulavo gli auguri per l’imminente Natale.

E il Presidente: - «Insomma, i nostri amici sindacalisti, sempre pronti a saltare su ad ogni stormir di foglia, in una situazione simile, se ne stanno calmi e tranquilli? Forse non avete..…, non hanno capito quel che sta succedendo!» - E ci congedò, affermando che n’avremmo discusso la prossima volta.

Tornando a casa in macchina, insieme, io e Tavano, ci chiedevamo il significato di quanto avevamo udito e che cosa volesse dirci con quelle parole, cosa intendesse con “quel che sta succedendo”, concludendo che, qualunque cosa fosse, non si trattasse in ogni caso di argomenti rassicuranti per il nostro futuro.

Nella mia posizione di Responsabile amministrativo, con Tavano Capo del personale, insieme al Chimico, Capo della Produzione, forestiero e in quei giorni assente per ferie, eravamo, anzi lo eravamo stati fino ad un paio di mesi prima, cioè prima del ritorno del nuovo direttore di stabilimento Cappuccio, gli italiani con la carica più alta nell’organigramma aziendale e, noi due, gli unici indigeni locali.





La società.

La Società per Azioni, con sede in Manfredonia, era stata fondata alla fine dell’anno 1963 ed era denominata ancora Ajinomoto-INSUD, anche se, ormai alla fine del 1976, l’INSUD non ne faceva più parte, avendo ceduto la proprietà del suo 50%, in parte alla stessa Ajinomoto giapponese ed in parte alla Deutsche Ajinomoto con sede in Amburgo.

All’epoca della fondazione, negli anni sessanta, v’erano pochi contatti del mondo occidentale con i giapponesi che, si riteneva, fossero solo bravi a “copiare” e “rifare” tutti i prodotti occidentali e, con questi, stessero invadendo il mercato nord americano. In Europa, le cose giapponesi più note erano le piccole radioline a transistors gracidanti che si cominciavano a portare allo stadio, e le motociclette Honda.

L’Ajinomoto giapponese era un grande colosso chimico industriale e finanziario, una vera multinazionale con stabilimenti in tutto l’estremo Oriente che, prima della guerra mondiale, aveva avuto anche uno stabilimento in California (USA), che, però, fu prima requisito dal Governo USA e poi chiuso quando, con personale americano, non furono più in grado di produrre alcunché.

Aveva in ogni modo alle spalle una storia industriale di oltre cento anni e il significato del suo nome, Aji-no-moto, composto appunto da tre lemmi, era “essenza del sapore” oppure, se letto nell’altro verso, all’occidentale, era “sapore d’essenza”.

I laureati in chimica più aggiornati m’informarono che, di 36 aminoacidi conosciuti all’epoca e isolati in laboratorio, su ben 24 il brevetto industriale apparteneva all’Ajinomoto. Sempre gli stessi tecnici, mi spiegarono che gli aminoacidi erano la base di tutti i medicinali moderni, che le industrie farmaceutiche stavano studiando tutte le applicazioni di quelli più conosciuti, e le scoperte erano continue e strabilianti.

Ma per gli aminoacidi si apriva anche un grande mercato per l’alimentazione umana e, soprattutto, per quella dietetica che stava incominciando ad affermarsi, anche se, all’epoca, era per gli “snob” e, per quanto riguardava i dolcificanti, per i diabetici.

Quando i giapponesi decisero di espandersi in Occidente fondarono la Deutsche Ajinomoto ad Amburgo, con lo scopo di studiare il mercato europeo e, contemporaneamente, per offrire i loro prodotti.

Le più grandi industrie chimiche e farmaceutiche tedesche non si fidavano dei giapponesi anche perché questi, quando si presentavano per offrire joint-venture o chiedere partnerships, per istinto di conservazione si presentavano a mani vuote, escluso le normali brochures illustrative e commerciali. La Francia, agli investitori stranieri, consentiva il 49% della proprietà. La Gran Bretagna aveva un colosso chimico che, da parte sua, cercava di penetrare sul mercato giapponese e già si era scontrato evidentemente con i nostri amici giapponesi.

L’unico colosso chimico italiano era l’ANIC ma, all’epoca, mi dispiace dirlo, era appena morto l’Ing. Enrico Mattei e non c’erano dirigenti avveduti ed esperti, e forse, come sempre mi capitava in seguito, veramente pensarono, per assonanza col nome, che l’Ajinomoto producesse motociclette tipo le Honda. E, infatti, spedirono i giapponesi all’IRI che, naturalmente, assicurò che non aveva interesse. Qualcuno del Ministero delle Partecipazione Statali, per fortuna, non volle perdere l’occasione e mandarono i giapponesi al nuovo ente di recente fondazione, l’EFIM.

Presidente dell’EFIM era l’Avv. Pietro Sette, barese e fedelissimo di Moro, che ricevette appunto i giapponesi, affiancato da un altro barese, l’ingegner Musaio-Somma, Presidente della INSUD e d’altre numerose società del Gruppo. Avranno avuto fiuto, saranno stati abbagliati dalla visita in Giappone presso la sede della Ajinomoto, qualcosa insomma li avrà convinti rispetto agli altri “boiardi” delle P.S., perché fu immediatamente convenuto di costruire la nuova fabbrica per la produzione del glutammato monosodico in Puglia e, più precisamente, nel Collegio elettorale di Moro, con la partecipazione paritetica della INSUD.

Veramente si pensava di metterla nell’area industriale barese, dove, secondo i programmi dell’EFIM, si stavano insediando nuove industrie chimiche e, soprattutto, si stava costruendo il Centro Ricerche Breda per la ricerca pura e applicata nell’area chimica e farmaceutica, ma i giapponesi, con la loro simpatica e irremovibile cortesia, scelsero, sempre in ogni modo nel Collegio di Moro, la terra vergine di Manfredonia, naturalmente per una, per loro, valida ragione: volevano tenerla lontana da occhi indiscreti o da curiosi più o meno disinteressati.

Rimase qualcosa, comunque, della terra di Bari, perché tutti i giapponesi conoscevano la parola “sciamanìnn(e)!” che nel dialetto barese significa solo “andiamocene”, ma viene anche usata per intendere “andiamo avanti! Cominciamo!” e, a quanto pare, fu l’ultima parola pronunciata dall’Ing. Musaio-Somma alla fine della trattativa e, come tale, degna di passare alla storia.

Loro l’avevano intesa con questo significato e come un vocabolo della lingua italiana, anche se sbagliavano l’accento e dicevano “sciamàni”, ma se ne servivano, al termine di un incontro, come biglietto da visita con gli italiani per rendersi simpatici, solo che la potevo intendere subito io, pugliese, ma non i nostri chimici settentrionali, che ci scherzavano sopra, avendola ascoltata addirittura in Giappone e capìta solo dopo molte difficoltà grazie alla presenza, tra loro, di uno con genitori e origini baresi.





I Preliminari
I patti para-sociali per la vita della nuova Società prevedevano che la parte tecnica e produttiva fosse esclusivo campo dei giapponesi che ne avevano la conoscenza e, soprattutto, ne detenevano il brevetto industriale che gestivano e proteggevano, coprendolo molto gelosamente.

I nostri laureati in chimica, tutta gente di qualità, molto preparati ed esperti, mi raccontarono che, in Giappone, ebbero modo di costatare che la protezione del segreto industriale e del brevetto assumeva aspetti addirittura maniacali e paranoici, specie se visti con la nostra mentalità occidentale.

Il prodotto scelto per mettere un piede nell’occidente era appunto il glutammato monosodico ottenuto in maniera organica dalla fermentazione della melassa di barbabietola, e tale glutammato era presente, e comunemente usato, sulle mense e nelle cucine orientali da oltre cento anni.

Tutti gli alimenti e le sostanze alimentari in genere contengono l’acido glutammico sotto la forma delle glutammine, che sono quelle sostanze “tipiche” di ciascun alimento che ne determinano il sapore ed il contenuto vitaminico. Il glutammato monosodico è un sale sodico dell’acido glutammico che, aggiunto ai cibi, si scioglie immediatamente, “liberando” l’acido glutammico perché “attratto”, appunto, da quelle glutammine tipiche e proprie dello stesso cibo, con le quali si apparenta aumentandone il sapore ed il valore nutritivo; resta “libero” il sodio ma, siccome in tutti i cibi è presente o ci aggiungiamo il cloruro di sodio, ovvero il sale da cucina, trova con questo il suo “parente” naturale.

Al termine di ogni spiegazione, da qualunque soggetto venisse, naturalmente esperto del settore, tutti concludevano.

- «In ogni caso fa bene al cervello. No! Non è che fa diventare più intelligente o più stupido! E’ che rinforza la corteccia cerebrale. Ciò significa che previene o rende più difficile la degenerazione dei tessuti nella corteccia cerebrale, per qualsiasi causa o accidente!» - Periodicamente, su qualche rivista, apparivano degli articoli che predicavano sulla nocività del glutammato, definito “additivo” alimentare, “scoperto” analizzando gli alimenti nel quale era stato aggiunto.

I chimici mi spiegavano che era pressoché impossibile scoprire il glutammato se aggiunto in un cibo nelle giuste dosi, per la semplice ragione che il composto, non essendo un “additivo” ma semplicemente un “esaltante” del sapore, svaniva presto e, con i cibi caldi, in un attimo, e non lasciava tracce se non in un incremento delle glutammine e, quindi, delle sostanze nutritive proprie del cibo: in pratica, era come dire che “questo cibo è più nutriente e saporito del normale, quindi vi deve essere stato aggiunto il glutammato”.

L’additivo alimentare che veniva invece spesso usato dall’industria alimentare era il “ciclammato di sodio”, una sostanza chimica sintetica, fabbricata in laboratorio quindi, di cui, all’epoca, non era stata ancora valutata la nocività, ma era tutta un’altra cosa, completamente diversa, ed in seguito fu severamente vietato.

Il glutammato si ricava con un procedimento naturale quale la “fermentazione”, lo stesso millenario procedimento con il quale si trasforma l’uva in vino, provocata appunto da batteri noti contenuti nella buccia o nei graspi. Il segreto industriale dei giapponesi era proprio questo “batterio” usato per la fermentazione della melassa e segreta era la sua composizione e la sua natura.

Detto in parole povere, questo batterio, posto nella melassa zuccherosa, con la temperatura giusta e studiata e con l’aggiunta dosata di aria compressa, l’assorbiva e si nutriva di essa, riproducendosi fino a “consumare” tutta la sostanza nutritiva, trasformandola in tutt’altra sostanza, finché, giunto il composto ad una voluta saturazione, si faceva fermare la fermentazione e, tramite vari passaggi e con sostanze chimiche adatte, si depurava il prodotto ottenuto e si cristallizzava come un sale che veniva poi insaccato e confezionato.

Fui il testimone inconsapevole dell’arrivo in Italia, a Roma, del primo ceppo dei batteri, portato come “bagaglio appresso” in una borsa termica da viaggio da uno degli amministratori giapponesi in visita al nuovo stabilimento in corso di ultimazione. L’arrivo a Roma di questo amministratore della casa madre, creò nei giapponesi una grande eccitazione, fin dai giorni precedenti al suo arrivo, tanto da richiedere anche la presenza dei chimici già trasferiti a Manfredonia.

Ed effettivamente, l’importazione di batteri vivi doveva essere severamente vietata o, quanto meno, prima di ammetterne l’entrata in Italia, doveva essere analizzata e valutata l’eventuale pericolosità: proprio ciò che i giapponesi volevano assolutamente evitare. In verità i retroscena di questo ingresso le intuii, più che ascoltati, dalle sonore e sollevate risate dei giapponesi quando i pochi presenti al racconto dell’amministratore, per ragioni di posizione gerarchica, la riferivano agli altri. In breve, aveva “fatto fesso” i doganieri italiani dichiarando che si trattava di cibo dietetico al quale, data la sua avanzata età, non avrebbe potuto assolutamente rinunciare durante il suo breve soggiorno in Italia.

In fabbrica, invece, il batterio era custodito in un’apposita sala sterile costruita nel Laboratorio dello stabilimento e, in questa sala sterile, nessuno era autorizzato ad entrarvi se non un paio di chimici giapponesi. La sala sterile aveva le quattro pareti di vetro. Non appena ci entrava il chimico, il primo suo gesto era abbassare le veneziane per non mostrare all’esterno cosa stesse facendo.



Ritornando al racconto dei patti para-sociali, dopo l’esclusiva della parte tecnico-produttiva della fabbrica che, sotto certi aspetti, era anche comprensibile, l’altra esclusività di competenza dei giapponesi era la parte commerciale, la vendita. Anche questa, in un certo senso, poteva ritenersi comprensibile sapendo che i giapponesi conoscevano tutto del mercato del glutammato in Europa.

Da Amburgo, tramite un vero e proprio servizio di spionaggio industriale a livello europeo, sapevano le quantità prodotte dagli altri produttori, le quantità vendute ai maggiori clienti, e persino le quantità che si sarebbero potuto produrre con la campagna annuale della barbabietola.

Infatti, i principali produttori europei erano gli stessi degli zuccherifici che, però, ottenevano il glutammato dagli avanzi della lavorazione dello zucchero, ma era un glutammato di scarsa qualità e di basso rendimento, puro al 50% mentre, quello del nostro Stabilimento, era puro al 99+% e ad alto rendimento, il che significava un impiego di dosi minori e con più risultato.

Ma prima del nostro, quello impuro era l’unico conosciuto e usato dalle grandi industrie alimentari per la produzione, essenzialmente, del dado per brodo o per i pochi, anzi pochissimi, “piatti pronti” pre-cucinati offerti all’epoca.

Con l’impiego del glutammato di Manfredonia, le più grandi industrie produttrici di dadi per brodo cambiarono la loro pubblicità, ora il piccolo e maleodorante dado da brodo era usato e consigliato per “insaporire” l’arrosto e gli altri piatti cucinati dalla brava cuoca: non è il dado che “insaporisce” i cibi ma il glutammato contenuto nel dado, ed, infatti, sulla confezione si incominciò a scrivere “”a base di glutammato monosodico””.

Qualche fabbrica del nord Italia, con una politica di vendita coraggiosa ed aggressiva, cominciò ad aumentare la gamma delle proprie produzioni, specie se destinate ai servizi di ristorazione e “catering”, introducendo i primi piatti precotti e confezionati, insaporiti ed esaltati nel sapore proprio dal glutammato.

In verità, il problema principale nella fabbricazione dei piatti pronti precotti era l’uso di appropriati additivi chimici destinati a conservare e stabilizzare il composto, additivi che, tuttavia, riducevano o modificavano il sapore del cibo: l’aggiunta del glutammato monosodico permetteva appunto ad esaltare il sapore del prodotto, nonostante la presenza degli additivi chimici.

I primi grandi clienti del nostro stabilimento furono la Star e la Knorr, che si convinsero però solo dopo lunghe e insistenti trattative e prove. Ma la perdita di questi due grandi clienti, ci creò dei nemici tra gli altri produttori che poi, come ha dimostrato in seguito la Magistratura, anche se per altre questioni, esercitavano un vero e proprio “cartello”, a livello anche europeo, controllando tutto il mercato dello zucchero, dalla barbabietola al prodotto finito, ed erano, in Italia, le famose “tre M”, vale a dire il gruppo Monti, quello Montesi e quello Maraldi che, insieme, rappresentavano circa l’85 per cento del mercato saccarifero italiano.

Ma del mercato dello zucchero e della melassa di barbabietola avremo modo di riparlarne più avanti. Ritornando ai patti para-sociali, l’unico aspetto di esclusività italiana, e quindi della INSUD, era la gestione contabile-amministrativa, questo perché i nostri amministratori si illudevano di poter controllare tutta la vita aziendale attraverso il controllo economico di gestione. Ma anche di questo parleremo dopo.





Il Presidente Prof. Signora.

Dopo Musaio-Somma, venne, come Presidente, il Prof. Mario Signora, che, mi pare di ricordare, fosse libero docente di chimica industriale, comunque era stato un combattente della Resistenza e, come tale, amico personale dell’Ing. Mattei dell’ENI e da lui messo alla Presidenza di varie società del gruppo. In seguito, con il passaggio della Terni Chimica all’EFIM, entrò a far parte anche di questo ultimo gruppo, oltre ad essere Presidente e Consigliere di Amministrazione in altre Società varie sparse tra la Campania e il nord Italia.

Dotato di grande carisma e di innata simpatia, oltre che di competenza industriale, entrò subito nelle simpatie dei dipendenti della Società e dei sindacalisti, non disdegnando il contatto diretto con gli stessi sindacalisti e con le maestranze, ma sempre con il dovuto rispetto dei reciproci ruoli, ciò in virtù della sua signorilità, di nome e di fatto.

Si definiva un paladino e tifoso degli italiani del sud, lui lombardo verace, dicendo spesso che noi sudisti eravamo più in gamba e svegli dei nordisti, ci mancavano solo le opportunità e le occasioni. Sotto questo aspetto, non potevamo non essere d’accordo con lui, noi che avevamo scalciato e sgomitato per assurgere ai più alti gradini nell’organigramma aziendale, sempre pronti ad ascoltarlo e riverirlo, senza comunque servilismi o lecchinismi che lui odiava.

Se dunque, in quel fine anno 1976, il Presidente si lamentava che non avevamo capito niente della situazione societaria, se si meravigliava di come i nostri sindacalisti non si fossero fatti avanti per protestare, o comunque, far sentire la loro presenza, voleva dire che, secondo la sua visione della cosa, si avvicinavano avvenimenti sfavorevoli e che, in ogni caso, erano previsti tempi bui per la nostra società e per i suoi dipendenti.

L’avvenimento più recente verificatosi nella vita della Società era stato l’uscita dalla compagine societaria della INSUD e, quindi di conseguenza, l’uscita della Società dall’ambito delle Partecipazioni Statali per diventare a tutti gli effetti una società privata a completo capitale estero. In verità la Commissione Interna dei sindacalisti era stata avvertita di questo movimento ma era stata anche rassicurata che, per i dipendenti, niente sarebbe cambiato.

Dopo l’uscita della INSUD, a ottobre del 1976, tornarono a Manfredonia due ex dipendenti licenziati anni prima, per la precisione un ex Direttore Amministrativo, il Rag. Fraschetti, e l’ex Responsabile dell’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio.

Il Rag. Fraschetti fu presentato come il Consulente Amministrativo della Società con sede di lavoro presso il nostro Ufficio Vendite di Milano, questo, evidentemente, per non creare o meglio per non far riemergere le frizioni con me che ero il Responsabile Amministrativo in fabbrica e gli altri impiegati amministrativi, mentre il Dottor Cappuccio fu presentato come il nuovo Direttore italiano dello stabilimento, che affiancava il precedente Direttore giapponese che, però, conservava la delega unica della firma societaria e la rappresentanza legale.

In conclusione, quel Capodanno del 1976-1977 non fu il più sereno per me e per il collega Tavano.





La INSUD

L’EFIM era il terzo Ente statale destinato, come diceva la sigla, al finanziamento delle industrie manifatturiere. In verità, mentre all’IRI predominavano i DC, all’ENI il PSI e il PRI, l’EFIM doveva essere il feudo dei socialdemocratici, per ricomporre il quadripartito al potere.

Si dedicò all’inizio soprattutto a “salvare” per volontà politica quelle industrie ormai “decotte”, sparse “a pioggia” un po’ in tutta Italia, che non erano gradite né all’ENI né all’IRI. Ed infatti, il suo primo “regalo” fu l’acquisizione della Società per l’estrazione e lo sfruttamento dell’alluminio sardo, una impresa da liquidare, con un numero importante di dipendenti e trascorsi storici molto significativi: ciò determinò una buona dotazione finanziaria iniziale per il nuovo Ente.

A nord, la principale e più importante partecipata EFIM era la Breda che fu spezzettata; le attività più economicamente valide furono inglobate nell’IRI (come la Breda armi e la Oto Melara), anche perché complementari alle altre attività del gruppo, tutte le altre (ad es. la Breda Fucine ferroviaria) furono rilevate dalla Finanziaria Ernesto Breda che le gestiva e le controllava, insieme con altre industrie alimentari, meccaniche, tessili e varie ed era, a sua volta, di proprietà dell’EFIM.

Al centro Italia, nel “portafogli” EFIM, all’epoca c’era la Terni Industrie Chimiche, già abbandonata dall’ENI, ma bussava prepotentemente la Terni Siderurgica, in grave crisi industriale e finanziaria, la cui destinazione naturale sarebbe stato il gruppo IRI che aveva altre siderurgiche nel portafoglio, ma che, evidentemente, aveva le sue ragioni per rifiutarla.

Al sud esisteva già la INSUD, una finanziaria con la partecipazione dell’ISVEIMER, l’istituto della “famosa” Cassa per il Mezzogiorno. L’EFIM entrò come azionista minoritario della INSUD ma, a poco a poco, a furia di coprirne le perdite, ne divenne il principale azionista e gestore.

Questa INSUD, oltre a finanziare nuove iniziative industriali, aveva anche “nel portafoglio” la proprietà di una pletora di piccole e medie industrie ubicate nei territori del Mezzogiorno, tutte ampiamente e largamente finanziate tramite la “Cassa” e l’ISVEIMER, ma che poi, per non vederle fallite, venivano acquisite e ristrutturate, anche finanziariamente, e quindi offerte sul mercato ad altri investitori più o meno locali, quando v’erano.

L’Amministrazione della nostra Società era di competenza della INSUD e della EFIM che si riservava la scelta e la nomina del Direttore Amministrativo e, inoltre, aveva propri funzionari nel Collegio Sindacale. Penso che feci invece una buona impressione ai Sindaci della Società quando vennero per una delle solite rituali visite, e vollero controllare la Cassa ed i valori, come previsto e prescritto dal Codice Civile italiano.

Pur essendo giovane, non ero completamente alle prime armi, avendo avuto anche nella mia precedente esperienza di lavoro le visite di Sindaci, anche se erano di piccole Cooperative locali, tuttavia ero perfettamente a conoscenza delle funzioni del Collegio Sindacale. Ero tuttavia irriverente, come tutti i giovani, e mi fece molto ridere l’eccitazione del mio Capo contabile prima della visita, ed il suo nervosismo quando il Presidente dei Sindaci volle rimanere solo con me per controllare i valori di Cassa.

La visita andò bene e ricevetti moderati elogi dal Presidente dei Sindaci, il dott. Antonio Zurzolo. Solo dopo capii e compresi il nervosismo del Capo contabile, quando seppi che il dott. Zurzolo era il Direttore Generale dell’EFIM.

Il primo Direttore Amministrativo, quello che mi assunse, si dimostrò utile per i rapporti con il Comune di Manfredonia e tutti gli altri enti necessari per le numerose autorizzazioni per la costruzione, ma con poca esperienza operativa in fabbrica.

Infatti fu poi subito richiamato presso la sede dell’EFIM per continuare l’opera per altre aziende e fu sostituito da un Direttore operativo, esperto di contabilità e di amministrazione di fabbrica ma, soprattutto, bravo nella gestione delle risorse umane. Nel suo primo anno di lavoro a Manfredonia, questo giovane e simpatico direttore insegnò, a tutti noi amministrativi, il modo di lavorare in squadra, l’individuazione degli scopi aziendali, i moderni sistemi di rilevazione delle spese e di contenimento dei costi.

Si viveva un momento critico nella gestione dei rapporti sindacali tra 1967 e 1969: lui ci insegnò che, nei rapporti con i dipendenti, bisognava prima di tutto essere onesti e severi, ma non arroganti. Riuscì a convincere i giapponesi a riconoscere ai dipendenti e agli operai le categorie ed i livelli retributivi previsti dal contratto di lavoro.

Purtroppo questo Direttore, il Dott. Roberto Italia, romano, dopo un paio d’anni, prese l’epatite virale e rimase fuori della fabbrica per oltre sei mesi, senza tuttavia che il lavoro in ufficio ne risentisse, proprio perché ormai la “squadra” di lavoro era pronta e formata. In ogni caso, dopo la guarigione, rimase pochi mesi e fu subito richiamato presso altre aziende più grandi, lasciando un grande rammarico per la sua bravura e per la sua innata simpatia.

Fu sostituito dal Rag. Fraschetti, un altro esperto amministrativo, quasi sessantenne, che rimase per un più lungo periodo ma che, dopo il licenziamento, ritornò come “consulente” in quel 1976 “fatidico”. Fra il ’73 ed il ’74, il Rag. Fraschetti fu sostituito dal Dott. Cipriani che, per la sua esperienza, entrò a far parte anche del Consiglio di Amministrazione in rappresentanza, appunto, dell’azionista INSUD, ma quest’ultimo merita un capitolo a parte.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Gli inizi

L’Amministratore Delegato
Ad agosto 1965, quando io entrai in azienda, primo dipendente nativo di Manfredonia, la costruzione delle opere edili era a buon punto e si incominciavano ad ordinare le prime macchine ed i primi impianti. Il caso volle che entrai in azienda con una vistosa fasciatura alla mano destra, per essere scivolato nel corridoio di casa paterna, battendo la mano contro il vetro di un quadretto che mi procurò diversi punti di sutura.

La mattina del lunedì 2 agosto fui accolto dal mio capo contabile e dal mio direttore amministrativo che, però, partì il giorno stesso per Manfredonia per perfezionare in Capitaneria di Porto la pratica per la concessione demaniale del deposito costiero sul porto.

Il giorno dopo, il capo contabile mi consegnò la cassa, comunicandomi che l’indomani partiva per le ferie. Il mercoledì ero l’unico impiegato amministrativo presente e ricevetti, come cassiere, la richiesta di un anticipo per spese di viaggio da parte del capo dei chimici. Come da istruzioni ricevute, compilai un assegno bancario di un milione di lire, sulla Banca Nazionale del Lavoro e lo portai alla firma dell’Amministratore Delegato, il Dr. Fukazawa.

Mi avevano detto che questo Amministratore proveniva dalla carriera diplomatica e, ultimamente, era stato addetto commerciale all’ambasciata giapponese a Parigi. Era un signore dai modi gentilissimi, come e più degli altri giapponesi, e che da oltre vent’anni viveva in Europa. Fu sorpreso e meravigliato dalla mia richiesta e, prima di firmare, mi chiese notizie sulla mia ferita e poi mi chiese, sempre in inglese, di chiamare il direttore amministrativo:

- «E’ a Manfredonia, dottor Fukazawa,» - gli risposi.

- «Ah si! Ricordo! Mi faccia venire allora il capo contabile.» -

- «Non c’è signore, è andato in ferie.» -

Rimase sorpreso e mi guardò in silenzio. Poi guardò le carte che gli avevo portato alla firma, che, oltre all’assegno, comprendevano dei mandati di pagamento da me scritti a mano, con la mano fasciata, per pagamenti da me disposti e che lui doveva autorizzare. E chiese:

- «Chi va allora in banca a cambiare l’assegno?» -

- «Ci andrò io!» - risposi sicuro: - «Ieri sono stato presentato al Cassiere della Banca!» -

Ma, evidentemente, non era quella la sua preoccupazione. Andai in banca, ma prima entrai nel bar a prendere un caffè, poi prelevai il denaro e tornai in ufficio. Rientrando, non vidi al suo posto all’ingresso il fattorino, di poco più vecchio di me, che mi era stato raccomandato di tener sotto controllo per la sua facilità di imboscarsi e dedicarsi ai propri affari.

Misi tutto a posto e, per fare un gesto di cortesia, mi recai di persona a portare il denaro al Dr. Giavelli, il capo dei chimici, che apprezzò molto il mio gesto e restammo per un po’ a parlare, naturalmente, della mia ferita e di Manfredonia.

Nel corridoio, vidi al suo posto il fattorino, piuttosto accalorato e sudato, che mi guardava ad occhi sgranati dalla sorpresa. Più avanti, nel mio ufficio, trovai in piedi al centro della stanza il Dr. Fukazawa che mi aspettava e mi chiese:

- «E’ andato tutto bene in banca?» -

- «Yes Sir, of course! (Sì signore, naturalmente!)» -

Solo dopo qualche minuto, riflettendoci sopra, mi sembrò che ci fosse qualcosa di strano.

L’ufficio di Roma era al centro, a Via Bissolati, la strada dove si trovavano gli uffici di rappresentanza di quasi tutte le linee aeree internazionali e sicuramente di tutte le più importanti. Il nostro ufficio era al primo isolato verso Via Nazionale, mentre all’altro estremo, verso Via Veneto, al terzo ed ultimo isolato, quasi di fronte all’Ambasciata USA, c’era l’edificio della Banca Nazionale del Lavoro. Proprio di fronte ad un ingresso secondario della BNL, a Via San Basilio, alle spalle dell’ingresso principale di Via Veneto, c’era il bar dove avevo preso il caffè.

C’era un grande bar proprio sotto il nostro ufficio a Via Bissolati, era un American Bar, nel senso che vi si poteva mangiare anche una bistecca o un piatto di pasta, e qui al mattino, prima delle otto e trenta, facevo la colazione con cappuccino e cornetto, ma il caffè di mezza mattina preferivo prenderlo all’altro bar, perché, come mi aveva fatto subito notare un collega più anziano, in quell’American Bar, dopo le nove del mattino, sulle tazze ci potevi trovare tracce di rossetto di tutte le nazioni e continenti del mondo, ed era vero.

Quando, nell’intervallo per il pranzo, chiesi al fattorino perché fosse uscito dopo di me, quello mi riferì invece che, subito dopo di me, era uscito il Dr. Fukazawa, non prima di aver chiesto di me in maniera concitata, tanto che lo stesso fattorino, preoccupato, pensò che io avessi dimenticato qualcosa che lo stesso Amministratore mi stata riportando, rincorrendomi.

In pratica, appresi che Fukazawa mi aveva seguito a distanza, mentre io ero entrato in banca dalla porta posteriore, ne ero uscito subito dopo dal portone laterale di Via Bissolati per tornarmene in ufficio, lasciando Fukazawa a Via San Basilio a spiare e attendermi. Quando non mi vide più in banca andò forse a chiedere notizie al Cassiere, uscendo subito dopo.

- «Quando l’ho visto uscire,» - continuò il fattorino, - «mi sono messo a correre e l’ho preceduto di poco. E lui mi fa: il ragioniere? E io, nel suo ufficio! Poi, invece, t’ho visto arrivare dall’altra parte, dall’altro corridoio!» -

Tentai di trovare una spiegazione a tutto quanto avevo ascoltato: raccontai che forse aveva dei dubbi sulla mia capacità di poter ritirare il danaro dalla banca, come, del resto, si era espresso al momento della firma dell’assegno, forse perché era accaduto a lui di incontrare delle difficoltà in banca.

Invece avevo la netta sensazione che avesse pensato che potessi scappare con la cassa: proprio io che, nel mio lavoro precedente, avevo maneggiato spesso anche molto più di un milione di lire. Alla verifica dei miei primi stipendi ricevuti a Roma, dove ci rimettevo del mio ogni mese, poteva anche giustificarsi la diffidenza dell’Amministratore. In ogni caso, c’era sicuramente una certa diffidenza nei confronti degli italiani, ma anche questi, gli italiani, non erano esenti da colpe e prevenzioni verso i giapponesi.





















Lo Staff tecnico

Il Calendario Cinese: ne sapevo l’esistenza ma non avevo avuto mai occasione di farne la conoscenza. Ne sentii parlare per la prima volta la sera del 5 gennaio dell’anno 1966, scoprendo che aveva un ciclo di dodici anni, nel senso che, per dodici anni, ogni anno era rappresentato da un animale, al tredicesimo anno si riprendeva la rappresentazione daccapo, come al primo.

Quella sera del 5 gennaio 1966, vigilia di un giorno festivo, ero in una saletta riservata del Ristorante Sistina, in Via Sistina a Roma, di fronte al mitico Teatro e tempio dello spettacolo leggero e del musical italiano, palestra della premiata ditta Garinei & Giovannini e di tutti gli altri più famosi attori ed autori dello spettacolo più o meno leggero italiano.

Al tavolo del Ristorante una ventina di commensali, italiani e giapponesi misti, ed io ne ero praticamente uno degli ultimi, essendo stati assegnati i posti rispettando scrupolosamente le scala gerarchica dell’organigramma aziendale, per cui, il mio dirimpettaio era il disegnatore giovane mentre, alla mia sinistra, c’era il mio unico collega pari grado, assunto da meno d’un mese e, di fronte a lui, c’era l’usciere.

A capo tavola, quindi dall’altra parte rispetto al mio posto, sedeva l’anfitrione, l’Amministratore Delegato della nostra Società, il dott. Fukazawa di nazionalità giapponese e di religione buddista.

E fu appunto l’Amministratore Delegato che, prima di iniziare la cena, volle motivare quella serata ricordandoci che, in quel nuovo anno appena iniziato, il nostro Stabilimento di Manfredonia sarebbe stato ultimato entrando in produzione, voleva augurare quindi buon lavoro a noi dipendenti e, soprattutto, una lunga e ricca vita alla nostra Società, sottolineando a questo punto che tutti gli auspici erano favorevoli in quanto, fra pochi giorni, sarebbe iniziato il nuovo anno cinese rappresentato dal “cavallo”, animale nobile che galoppa e corre e che, quindi, avrebbe fatto galoppare anche il nostro Stabilimento, la nostra Società con tutti i suoi dipendenti.

La costruzione dello stabilimento era organizzata e diretta dal Giappone. Tutti i disegni tecnici arrivavano dal Giappone infatti, anche se non pervenivano direttamente alla sede dell’Ufficio, ma al domicilio dei tecnici giapponesi, come effetti personali spediti da privati a privati. Questo sistema, che era solo ipotizzato dai tecnici italiani, io ebbi modo di accertare con sicurezza quando poi fui messo a dividere la mia stanza con i tecnici giapponesi, ciò finché non fu assunto l’altro Ragioniere e, con il Capo contabile, potemmo creare insieme un “reparto”.

Ma fintanto rimanevo il più giovane e l’ultimo arrivato, ero il primo a traslocare ad ogni nuovo arrivo, finché mi sistemarono nella grande stanza dei giapponesi, ed ebbi modo di studiare loro ed il loro modo di pensare, e questo ancor più quando arrivò a Roma il Dr. Yamada, l’unico “consulente” amministrativo.

Era un laureato in giurisprudenza, anche lui poco più vecchio di me, e voleva assolutamente imparare l’italiano, per cui facemmo un patto, lui con me parlava italiano ed io dovevo correggerlo in caso di errori, ed io con lui parlavo in inglese, con lo stesso obbligo per lui. Per aumentare le occasioni di “studio”, evidentemente, prese a venire con noi, nell’intervallo meridiano, a mangiare nella vicina mensa del Ministero dell’Agricoltura, almeno fino a quando non arrivò a Roma la sua famiglia. Anche costui ritornò poi in Italia in quel fatidico anno 1976.

In effetti, il numero degli impiegati variava continuamente per le nuove assunzioni e per i trasferimenti a Manfredonia dopo il periodo, più o meno breve, di istruzione a Roma.

Per ogni team di italiani, c’era la corrispondente squadra di giapponesi. In ordine gerarchico, dopo Fukazawa, c’era l’ingegnere Saito, responsabile giapponese della costruzione, e il chimico capo della produzione industriale, dr. Komori. I due responsabili avevano alle proprie dipendenze gruppi di tecnici e chimici giapponesi che svolgevano il lavoro materiale, di numero molto variabile.

A fronte di questi, c’era il gruppo dei chimici italiani, capitanati dal Dr. Giavelli, proveniente dalla Squibb svizzera, ma da una fabbrica in Francia, dove aveva conosciuto la moglie che aveva sposato di corsa, pochi giorni prima di andare in Giappone.

A capo del laboratorio chimico ci sarebbe stato il Dr. Cantarella, torinese dalla Schiaparelli, poi c’era il Dr. Giappicucci, romano che aveva girato il mondo, e il Dr. Fontana, bolognese. Tutti questi chimici erano molto bravi e molto esperti, specie i primi tre. L’ultimo dei chimici era il Dr. Giorgio Gilli, nato nel Trentino ma figlio di coniugi baresi, giovane ed appena laureato.

L’altro staff tecnico, quello che si occupava della costruzione, era capitanato dall’Ing. Ciceri, milanese, bravo ed esperto, sempre distratto o assorto nei suoi pensieri, altissimo e dalla camminata sbilenca.

Lo staff dell’ing. Ciceri, tutta gente molto esperta, era in gran parte già al lavoro presso il cantiere di Manfredonia, come il geom. Caponio, barese, che praticamente costruì tutte le parti in muratura. C’era un bravo perito meccanico milanese e uno strumentista pneumatico marchigiano, si era alla ricerca di uno strumentista elettronico.

Restavano invece fissi a Roma i due disegnatori tecnici, un giovane ed uno molto anziano. Infatti i disegni giapponesi venivano ridisegnati per i tecnici italiani, rivisti dai tecnici giapponesi, approvati dall’Ing. Saito e, quindi, firmati dall’Ing. Ciceri. Gli impianti chimici subivano la stessa procedura. Le caratteristiche tecniche arrivavano dal Giappone, tradotte in inglese dai tecnici giapponesi, ritradotte in italiano dai chimici e dai tecnici italiani.

Si stendeva quindi l’ordine di fornitura in italiano che, però, prima di essere trasmesso, veniva tradotto in inglese dagli italiani, poi in giapponese dai tecnici nipponici, approvato dall’Ing. Saito e firmato dal Dr. Giavelli o dall’Ing. Ciceri, oltre che dall’Amministratore Fukazawa con valore di impegno finanziario. Si saltò un passaggio quando il Dr. Komori, il chimico, andò a Manfredonia a seguire direttamente i lavori.

Tuttavia, prima di andar via, Komori ebbe un lungo colloquio con me, solo perché ero l’unico indigeno locale di Manfredonia. Si informò sulle abitudini locali, sui nomi dei medici, sui pediatri più bravi, sui ristoranti, sui meccanici riparatori d’auto, sulle farmacie e sui negozi più importanti, prendendo debita nota di tutto. Questo perché, verso la fine di agosto, portò a Manfredonia moglie e figlie.

Tutti gli ordini ed i contratti di fornitura dei materiali e dei lavori, venivano compilati dall’Ufficio Acquisti, dall’Ing. Porcelli, un anziano ed esperto pensionato, con lunga militanza nella Breda, affiancato da un avvocato barese.

Tutti i chimici italiani, che erano stati circa un mese in Giappone, per uno stage sugli impianti presso la casa madre, trattavano i corrispondenti chimici giapponesi con rispetto e simpatia, anche se, tra loro, ne sparlavano dicendone peste e corna. Gli altri tecnici italiani trattavano i giapponesi con curiosità e qualcuno con sufficienza.

Essendo la società nell’orbita delle Partecipazioni Statali, era stato concordato, evidentemente, che le forniture ed i lavori sarebbero stati affidati, nei limiti del possibile, alle altre aziende parastatali, con preferenza per le baresi e le meridionali. Ciò anche in considerazione che il Contributo a fondo perduto erogato dalla Cassa per il Mezzogiorno per i nuovi investimenti nel Sud, era in misura maggiore per gli acquisti da aziende del Mezzogiorno e, similmente, il finanziamento a tasso agevolato.

Tutte le opere edili e murarie erano affidate alla Società “Giovannini & Micheli”, introdotta presso tutte le aziende parastatali, gli impianti elettrici alla “Energie”, con sede a Bari, una società che aveva assorbito varie altre piccole imprese meridionali.

Due ingegneri di questa Società, la Energie appunto, vennero richiamati a discutere dei loro disegni esecutivi con l’Ing. Saito e l’Ing. Ciceri, in mia presenza, visto che dividevo la stanza con Saito e due altri tecnici giapponesi.

In pratica, Saito aveva trovato molte cose sbagliate nei disegni e negli schemi elettrici preparati. Lui ne aveva discusso, come al solito animatamente, con Ciceri che li aveva riferiti alla Energie e questi avevano contestato i rilievi perché ingiustificati.

Quando vennero i due giovani ingegneri, si sedettero davanti a Saito con molto sussiego e sufficienza. Dopo i primi preamboli, Saito prese il disegno e cominciò a svolgerlo sulla propria scrivania e, con un pennarello rosso, cominciò a segnare con grossi tratti, i punti errati, come un maestro che corregge il compito degli allievi.

Gli ingegneri della Energie prima reagirono timidamente, poi incominciarono a protestare, dicendo di aver seguito le direttive e le prescrizioni ricevute dal nostro ordine di fornitura, ma, quando Ciceri li invitò a rileggere l’ordine, confessarono di non averlo portato con sé, dimostrando la scarsa preparazione o la poca importanza data all’incontro. Ciceri prese la sua copia che io mi preoccupai di fotocopiare per i due tecnici, mentre Saito mise fuori la propria copia in giapponese.

Alla fine, pur non comprendendo quanto dicevano, essendo termini strettamente tecnici, con Ciceri che parlava in inglese con Saito ed in italiano coi due ospiti, dedussi che avevano davvero sbagliato, dimostrando di aver svolto con molta approssimazione il proprio lavoro, sottovalutando i committenti e, soprattutto, non avevano capito il significato di molte soluzioni tecniche adottate o solo richieste dai giapponesi, soluzioni che in Italia, all’epoca, erano sconosciute o non applicate, ritenendole inutili o inutilmente dispendiose. In pratica, davanti ad una soluzione tecnica per loro sconosciuta o semplicemente nuova, l’avevano ignorata adottando la propria o quella a loro nota, dando per scontato che i giapponesi si fossero sbagliati.

Qualche mese dopo, a Manfredonia, ero diventato amico del capo cantiere barese della Energie, colui che dirigeva i lavori, e non potei fare a meno di raccontargli la scena cui avevo assistito.

Da lui ebbi la conferma che i due ingegneri della Energie non avevano capito niente, che la Società aveva firmato il contratto di fornitura sulla base dei disegni predisposti dai due ma che, quando furono rifatti e corretti secondo la esatta interpretazione delle prescrizioni, risultò che il prezzo pattuito era stato esageratamente basso e poco remunerativo, e i due furono licenziati.

Stesso atteggiamento di sufficienza vidi nei tecnici di una grande e storica società siderurgica genovese, l’Ansaldo, alla quale erano stati ordinati i due fermentatori in acciaio inossidabile, cioè i giganteschi serbatoi nei quali avveniva la fermentazione della melassa, la prima e la più delicata fase della lavorazione. In questo caso erano meno giovani e si discuteva in via preventiva e senza disegni.

Qui, subito all’inizio, avvenne che uno degli ingegneri fece osservare che forse c’era stato un errore, in quanto era stato previsto un certo tipo di acciaio inox speciale anche per bulloni e dadi, mentre era risaputo che, in effetti, nessuno aveva mai usato bulloni di tale materiale. Alle insistenze di Saito, uno degli ingegneri si rivolse in milanese a Ciceri:

- «Via! Non perdiamo tempo! Lo convinca lei che tali tipi di bulloni non esistono in Europa, figuriamoci se li hanno loro!» -

- «Signori miei!» - rispose Ciceri: - «Se li hanno previsti, significa che “loro” li hanno e li usano anche!» -

Saito era un vero Samurai e aveva oltre quarantacinque anni. Il Samurai, mi spiegarono, era il capo ereditario di una grande e nobile famiglia e, quindi, oltre alle materie tecniche della sua facoltà, aveva avuto una educazione tipo principe regnante, cioè istruzione umanistica orientale, arti marziali giapponesi, uso delle antiche armi e studi tecnici presso le migliori Università, con Stage e Master presso le più importanti Università della California, USA.

Era alto e massiccio, con grande testone, tanto che, vedendolo da lontano, si sarebbe pensato fosse un “piccoletto” come i suoi connazionali; il suo modo di camminare mi ricordava quello tipico visto nel film, con cintura bassa sotto la pancia e passo leggero, quasi in punta di piedi. Parlava in ufficio un inglese ruvido ed elementare, con la sua voce gutturale, e capiva abbastanza bene l’italiano, anche se non lo dava a vedere e non lo parlava mai.

Questo per spiegare che aveva capito la conversazione dell’ingegnere italiano e, infatti, partì un ordine secco, in giapponese, verso il suo collaboratore, che uscì immediatamente e tornò dopo un quarto d’ora con un telex ed uno dei loro soliti foglietti in carta di riso sui quali scrivevano a mano, era l’elenco di tutte le fabbriche che producevano i bulloni in quel tipo speciale di acciaio: in Europa c’erano due svedesi, due tedesche e una italiana, in Giappone ben sei e una a Singapore.

I rapporti di lavoro tra Ciceri e Saito erano quanto mai tempestosi e animati, ed io ne ero, mio malgrado, il testimone. Avevo assistito a tante discussioni e battibecchi, ma avevo capito che, in fondo, si stimavano vicendevolmente. Naturalmente i diverbi nascevano sulle diverse vedute circa le soluzioni tecniche da adottare e sui prezzi da riconoscere ai fornitori, e avvenivano sempre in inglese, lingua che entrambi, evidentemente, dominavano perfettamente.

Se l’argomento era di natura chimica, allora al fianco di Ciceri interveniva il Dr. Giavelli e, con lui, Saito era sempre meno irruente e la conversazione aveva un tono più calmo e sommesso.

Una di queste discussioni a tre fu particolarmente lunga e complessa, trascinandosi per diversi giorni. Quando i due italiani parlavano tra loro, capitava spesso che conversassero in francese, forse perché sapevano che Saito non lo capiva, ma, una volta, anziché parlare di termini tecnici, Giavelli fece un commento piuttosto salace su Saito.

Io avevo la testa sul mio lavoro ma capii il commento ed ebbi un involontario scatto e sorriso poi, allarmato, alzai il capo e guardai prima Saito e poi Giavelli: Saito stava guardandomi con occhi furbi, Giavelli guardò prima lui poi me, allarmato. Da quel giorno i nostri due tecnici non usarono più il francese, ma parlarono in tedesco, una lingua di cui a stento conoscevo il significato di una diecina di vocaboli, oppure una lingua per me veramente ostica e del tutto incomprensibile: il bergamasco.





Il processo produttivo

Nella produzione di glutammato, i giapponesi avevano, come già detto, una esperienza più che secolare e, come sistema, avevano l’abitudine di registrare e conservare nella storia tutti gli incidenti e gli inconvenienti che si fossero verificati e incontrati nel corso del processo produttivo, di ogni tipo e genere.

I loro tecnici, prima di essere assunti, facevano uno stage aziendale e dovevano imparare a memoria tutti gli inconvenienti con tutti i relativi rimedi e le soluzioni adottate e praticate, e quanti più episodi dimostravano di conoscere, più probabilità avevano di essere assunti e impiegati sui reparti produttivi.

Negli uffici romani, come normale orario di lavoro, avevamo un intervallo per il pranzo per più di due ore, appena sufficiente per coloro che andavano a mangiare a casa propria, ma troppo lungo per me che mangiavo alla mensa del Ministero dell’Agricoltura, a cinquanta metri dall’ufficio, e che, in poco più di mezz’ora, avevo ben che finito tutto.

C’era sempre qualche collega dello staff tecnico che mi faceva compagnia alla mensa, mentre il più anziano dei disegnatori rimaneva in ufficio con il panino, e accadeva quindi, molto spesso, che si rientrasse in ufficio molto prima dell’orario previsto, rimanendo a chiacchierare nella grande stanza dei disegnatori, tra l’altro l’unica con finestre sulla Via Bissolati.

Fu proprio in questi colloqui con l’anziano disegnatore e con gli altri colleghi tecnici che appresi tutti gli aspetti più interessanti e particolari dello stabilimento e della produzione. Anzi, per non smentirsi, un pomeriggio il dr. Fukazawa, prima dell’orario di lavoro, sorprese me ed il disegnatore a colloquio davanti al disegno tecnico proprio del processo, e rivolse, sorridendo, un garbato e gentile richiamo all’anziano disegnatore ed a me di ignorare e dimenticare tutto quel che c’eravamo detti, essendo riservato.

Tra l’altro mi saltò subito agli occhi la stranezza del nome dato ai vari reparti di produzione: si partiva da “H2”, per andare poi a “H4”, “H5” e “H6”, saltando il numero uno e il numero tre. Appresi che l’H1 sarebbe stato il reparto per ottenere la melassa di barbabietola ma, la cosa più interessante, il reparto H3 poteva essere il reparto più importante dello stabilimento in quanto, con l’utilizzo di una parte della sostanza fermentata, vi si poteva produrre molti tipi di aminoacidi e in quantità industriali.

I reparti H2 e H5 formavano un unico blocco, avendo vari piani di lavoro in comune tra loro, anche se ben separati. Nello stesso blocco, al piano terra, c’era il reparto H6, dove si insaccava e confezionava il prodotto che, attraversando una cancellata, veniva stivato nel magazzino. Il reparto H4, grande forse più degli altri tre messi insieme, faceva blocco a sé e separato.

Mi spiegarono, in pratica, che la fabbrica era costruita a struttura modulare, nel senso che aveva spazio sufficiente per costruire il famoso reparto “H3” mancante e prevedeva dall’origine la possibilità di raddoppiare gli impianti esistenti, anche per le cosiddette utilities, cioè aria compressa, caldaie a vapore ed energia elettrica.

L’unica struttura che, anche ad un occhio inesperto, dimostrava di “largheggiare” come spazi e dimensione, era il laboratorio chimico, già pronto quindi a qualsiasi progetto di espansione. Infatti, tutto il processo di produzione industriale veniva ripetuto, in scala ridotta, nelle sale del Laboratorio chimico da dove poi si avviava, in effetti, l’intero processo produttivo.

Dopo qualche anno dall’inizio della produzione, parlando con un perito chimico italiano che lavorava in Laboratorio, mi riferì che aveva avviato, in via sperimentale, d’accordo con i chimici giapponesi, una specie di reparto H3, per poter quantificare, in scala ridotta, il prodotto che si sarebbe potuto ottenere nella eventuale lavorazione industriale.

Mi mostrò un recipiente in vetro, contenente, per un paio di litri, una polvere finissima e bianchissima, dicendomi che lo aveva ottenuto dal materiale fermentato che, normalmente, si buttava in fogna, che quella polvere era un aminoacido molto richiesto dalle industrie farmaceutiche che lo pagavano al prezzo di 40 mila lire (anni settanta) al grammo, mentre lui ne aveva prodotto in pochi giorni, nei ritagli di tempo, oltre due chili.

Il Dr. Cantarella era un chimico di vasta e documentata esperienza, ed era destinato a diventare il Capo del Laboratorio. Quando da Roma fu trasferito a Manfredonia, venne subito a cercarmi per chiedere informazioni. Ci accordammo per andare in auto insieme a Manfredonia un sabato, lui per trasferirsi con la moglie in albergo, io per portare a casa i panni sporchi da lavare, risparmiando le spese del treno.

Ebbi modo di conoscere lui e sua moglie, avendo la conferma che era un vero signore torinese dai modi fini e cortesi, poco esperto di viaggi in auto, tanto che, diceva, “avrebbe sbagliato strada anche nel “Sahara”. Non so cosa avvenne nei suoi pochi mesi di lavoro a Manfredonia, so soltanto che ancor prima dell’avvio dello stabilimento per la produzione industriale, il Dott. Cantarella se ne tornò, insalutato ospite, alla sua Torino ed alla sua Schiaparelli, raccogliendo allori e successi, come ebbi modo di apprendere, in seguito, dalla stampa.

Quasi tutti i giapponesi, in questa fase e prima di trasferirsi a Manfredonia, venivano da me per informarsi sulla vita paesana a Manfredonia, facendomi le solite domande sugli alberghi e sui ristoranti, o sui dottori o sui meccanici per auto. Ci fu uno solo, il Dr. Okada, un chimico piccoletto e sempre sorridente, che venne con una agenda multilingue, comprata in cartoleria, e mi chiese notizie e spiegazioni su tutte le festività italiane, ovvero le numerose giornate in cui, all’epoca, normalmente non si lavorava.

Ad ogni mia spiegazione, lui annotava con una matita a mina Pilot, naturalmente in giapponese, ciò che gli dicevo sulla pagina dell’agenda del giorno in questione. Poi rileggeva quanto scritto e ripeteva: - «A-scen-sio-ne, ne-skà? Ah so de-skà!» - e restava per un lungo minuto in silenzio.

Avevo iniziato a spiegare dettagliatamente le ragioni della festività, poi, specialmente per le religiose, mi trovai in difficoltà, perché, per esempio, tra Pasqua, Ascensione e Corpus Domini, il festeggiato era sempre lo stesso e lui mi chiese: - «Ancora per Gesù?» - e sorrideva scuotendo la testa.

Stesso commento per le festività della Madonna, finché arrivammo all’8 dicembre, che io non nominai ma che lui lesse distintamente e poi mi formulò la temuta domanda:

- «Che significa Imma-co-la-ta Con-ce-zione?» -

Ci pensai bene prima di rispondere e, infine, con un po’ d’inglese e un po’ di italiano, cercai di spiegargli il Dogma della Vergine e Madre.

Ci pensò sopra per parecchi minuti, guardando alternativamente me e l’agenda, poi guardandomi diritto negli occhi: - «Do you know it’s impossible? Ne-skà? (Lei sa che è impossibile? Nevvero?)» -


Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'avvio

I Lavoratori

Nella prima metà del mese di maggio del 1966, terminò il mio soggiorno a Roma e fui trasferito a Manfredonia, preparando il trasloco di tutto il resto degli impiegati che avvenne poi ai primi di giugno. In fabbrica c’era il Direttore, l’ing. Raffetto, milanese, che aveva già incominciato i colloqui per la scelta e l’assunzione degli operai.

Subito dopo la mia assunzione, a Roma, avevo ricevuto tra le mani, con l’incarico di classificare e ordinare, la montagna delle domande di assunzione dei miei compaesani che aspiravano ad un posto di lavoro in quella che era la prima industria installatasi a Manfredonia, e molti erano amici miei o solo conoscenti.

Con l’anno nuovo e avvicinandosi l’avvio della produzione, molti di quelli che prima aspiravano ad essere assunti come impiegati, rifecero la domanda per entrare come operai, e molti nascondevano il possesso di un diploma di scuola superiore.

Il dott. Cantarella, capo del Laboratorio chimico, mi aveva detto che, secondo lui, il miglior operaio addetto al Laboratorio sarebbe stato un “quasi” diplomato, considerato che non si sarebbero trovati degli esperti “analisti chimici” in zona ma si sarebbero dovuti istruire con corsi di formazione interni. Infatti, i primi assunti del Laboratorio furono giovani diplomati che, ai fini dell’assunzione, avevano nascosto il possesso del diploma.

A metà giugno fu assunto il grosso della manodopera ed ognuno aveva la propria destinazione, assegnatagli dal Direttore, coadiuvato dai vari capi reparto, i chimici italiani. Devo confessare che la scelta del Direttore fu quanto mai oculata e motivata, anche se spesso dovette ascoltare le “segnalazioni” delle varie autorità.

La maggior parte degli operai era, naturalmente, originaria di Manfredonia o quivi residente, ma v’erano anche provenienti da Monte Sant’Angelo, Mattinata, San Giovanni Rotondo e da Foggia, anzi molti dei tecnici della manutenzione erano foggiani.

All’inizio volli tentare di dare dei “consigli” al Direttore, ma lui mi fermò subito, invitandomi a restare al mio posto. Solo dopo aver rispettato la consegna, fu lui stesso che, in alcuni casi, mi chiese dei pareri su alcune persone, ma ponendomi delle domande ben precise alle quali dovevo rispondere con sicurezza, e senza commenti non richiesti.

Le domande di lavoro furono molte più di mille, ne furono assunti circa duecento che, immediatamente, acquisirono ottocento nemici, frustrati e inappagati, che stavano alla finestra pronti a denigrare gli assunti, la fabbrica, il lavoro e chissà che altro, in ciò motivati e incoraggiati anche da coloro che, ed erano molti, continuarono a svolgere il proprio vecchio lavoro, in nero.

Tutti gli operai furono assunti e inquadrati nel quinto livello, il più basso del Contratto di Lavoro, percependo un salario di poco più di quaranta mila lire al mese, ma quasi tutti restarono, con la speranza che, prima o poi, il livello sarebbe migliorato.

Furono assunti, per i reparti di produzione, operai edili, ex artigiani, ex operai dell’industria rientrati dal nord Italia o dalla Germania. Uno dei primi assunti era un sarto da uomo, ben conosciuto in paese che, evidentemente, aveva chiuso bottega e si era iscritto disoccupato all’Ufficio di Collocamento: questo determinò la chiusura di tante altre sartorie in paese.

Lasciarono subito il posto, licenziandosi, quelli che non potevano accettare un così misero salario, o perché impegnati con debiti o mutui ipotecari per l’acquisto dell’abitazione, e ripresero la via dell’emigrazione in Germania, oppure perché avevano altri sbocchi più remunerativi, ancorché precari, ed era il caso degli ausiliari della pesca marittima che guadagnavano occasionalmente molto di più ed in nero; un paio ritornarono ad imbarcarsi sulle navi mercantili, ed erano i diplomati dell’Istituto Nautico che, secondo me, tra gli Istituti Tecnici, per le materie studiate, è quello che forma i tecnici di più alto profilo.

Per le officine e i servizi tecnici di fabbrica, furono assunti meccanici ed ex artigiani, ma la ricerca fu ardua per l’assunzione dei tecnici patentati per la conduzione delle caldaie a vapore, non perché non si trovassero, ma perché non accettavano il salario loro offerto, per cui si andò alla vera trattativa, offrendo categoria superiore e superminimi. Stessa cosa per qualcuno dei meccanici o degli elettricisti più esperti.

Il primo e più anziano dei fuochisti patentati era anche colui che riuscì ad avere il salario più alto e la terza categoria, e tutti n’erano a conoscenza. Sarà stato per questo motivo che una notte, agli inizi dell’attività, fu chiesto il suo intervento per un’emergenza: nel pompare la soda caustica dal serbatoio al reparto, ci si accorse che la tubatura aveva una perdita e riversava in parte a terra.

Non era stato ancora creato il responsabile di turno ma, in ogni caso, non era suo compito intervenire, al massimo avrebbe dovuto svegliare il proprio superiore che, a sua volta, avrebbe dovuto svegliare il responsabile della manutenzione, che avrebbe dovuto svegliare una squadra d’operai per l’emergenza: tranne questi ultimi, gli altri erano tutti forestieri. Ma lui voleva dimostrare che la manodopera locale era all’altezza di qualunque situazione.

Era un fuochista che, fino allora, aveva molto navigato su navi mercantili in tutto il mondo. Mise insieme una squadra d’emergenza e, indossata la cerata dei pompieri, si pose sotto il grosso getto di una manichetta d’acqua che gli pioveva sul capo, sul cappello a falde larghe da pompiere, e con occhiali e saldatore, mise una “pezza” provvisoria alla tubazione senza interrompere il flusso della soda caustica nel tubo d’adduzione.

Al mattino, tutti i capi, italiani e giapponesi, appresero della cosa, e grande fu la meraviglia generale. Il Direttore, invece, lo mandò a chiamare sul tardi, si fece raccontare il tutto e poi: - «Per il buon esito dell’intervento, per non aver dovuto fermare la produzione, lei si aspetta un elogio. Poiché tuttavia non era suo compito ed ha rischiato la propria incolumità, sono costretto a comminarle un rimprovero ed un’ammonizione a non ripetere più un fatto simile.» -

- «Direttore!» - rispose il fuochista: - «Non potevo tirarmi indietro! Dovevo pur dimostrare di che pasta siamo fatti noi sipontini!» -

- «Infatti, prima le ha parlato il Direttore Responsabile! Come uomo e come tecnico, le devo dire solo: BRAVO!» -

Il fuochista si chiamava Candido Collicelli ed era una persona retta e generosa, oltre ad essere affettuoso padre di molti figli.

Ma v’erano anche aspetti negativi. Una mattina fui chiamato dal Direttore per mostrargli alcuni documenti, ma prima mi chiese di attendere che terminasse di firmare alcune carte, invitandomi a sedere. Ad un certo punto scoppiò a ridere fragorosamente, al suo solito, commentando: - «…orca! Li hanno fatto fuori in tre mesi!» - Chiesi di cosa si trattasse e lui mi spiegò: - «Mi chiedono di acquistare una nuova serie di chiavi fisse per l’officina. Sa che significa? Che in tre mesi dall’inizio dell’attività, sono sparite tutte le chiavi, se le son prese e portate a casa!» -

Naturalmente mi sentii molto umiliato e rammaricato della cosa, anche se, come tutti gli altri dirigenti e superiori, spesso dimenticavano che io fossi un indigeno. Ma poi, evidentemente, leggendo in faccia il mio sentire, continuò chiarendo:

- «Guardi che è una cosa normale, che avviene in tutte le fabbriche! D’altronde, noi possiamo mettere un controllore: ma quanto ci costa? Lei sa meglio di me quanto costa un dipendente, senz’altro più del milione di lire, quanto costano quattro serie di chiavi in un anno! Senza dire che poi ci vorrà un controllore del controllore, e via di seguito. Del resto, prima o poi, il fenomeno diminuisce e si esaurirà, anche se mai del tutto: completeranno la serie di chiavi a casa propria o in officina, no? Mica possono mangiarle?!» -

I giapponesi.

Non si trasferì a Manfredonia il Dr. Fukazawa, che rimase presso l’Ufficio di Roma con Yamada almeno per un altro anno, prima di essere sostituito da un nuovo Amministratore Delegato, sempre giapponese.

Si avviò la produzione, con gli immancabili intoppi e gli inevitabili errori. Ogni reparto di produzione aveva il suo Capo Reparto, uno dei bravi chimici italiani, affiancato dal “consulente” giapponese, uno o più di uno, già esperto della lavorazione. C’erano poi i Vice, almeno due per reparto, assunti tra i diplomati in Agraria, pratici di Chimica organica.

Purtroppo nessuno dei Periti Agrari era di Manfredonia ma provenivano dai paesi del circondario, e si trovarono a stretto contatto con alcuni altri diplomati operai. La manodopera fu divisa in gruppi e, per ogni reparto, c’erano i turni di lavoro che coprivano tutte le 24 ore della giornata, compreso la domenica.

I chimici italiani svolgevano il proprio lavoro durante le ore diurne e, dopo dieci ore, tornavano alle proprie case. I chimici giapponesi che li affiancavano erano presenti anche sedici o diciotto ore al giorno, soli o con altri colleghi. La colonia dei tecnici giapponesi in questo periodo era arrivata a circa una ventina di tecnici, compreso i capi chimici, e questi ultimi impartivano ordini, al principio, solo ai propri assistenti, ma spesso con modi violenti e poco usuali per la realtà italiana.

A questo punto, forse, è bene chiarire com’era intesa l’organizzazione aziendale giapponese. Il giapponese, per natura e per educazione, aveva il massimo rispetto per le gerarchie e per i superiori, ma era, più che un rispetto, quasi una venerazione, prova ne sia la serie di inchini che, per consuetudine, variavano a seconda il diverso grado gerarchico tra le persone che s’incontravano: più profondo e insistito se il superiore fosse uno o più gradini più in alto dell’altro.

Il lavoratore giapponese, una volta assunto da un datore di lavoro, era sicuro che ci avrebbe lavorato insieme per tutta la vita, sempre che si fosse comportato in maniera da soddisfare le richieste e le esigenze del lavoro. Il datore di lavoro, per togliere dalla mente del lavoratore ogni eventuale “distrazione” che potesse influire sul rendimento, si preoccupava direttamente della salute del dipendente e della sua famiglia, dell’educazione e dello studio, anche dello stesso dipendente se questi mostrava di esserne particolarmente inclinato, nonché della sua vecchiaia.

Un triste destino attendeva il dipendente cacciato via con demerito: difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto ad assumerlo e si sarebbe dovuto accontentare di mansioni umili e disprezzate da tutti, oppure diventare un mendicante o, peggio, un delinquente.

Se s’ingrandiva l’azienda, il lavoratore era felice perché, oltre a consolidarsi il proprio lavoro, poteva sperare che, un domani, se avesse meritato, poteva entrare nella stessa azienda suo figlio, ciò perché, in ogni caso, la società giapponese era soprattutto “meritocratica” ma anche “paternalistica”.

E proprio come un “pater familias”, severo e inflessibile, si comportava il “capo”, a qualsiasi livello, premiando i bravi e punendo i cattivi. Di sindacato, neanche l’ombra.

Tra i nostri chimici che erano stati nella “casa madre” giapponese, aveva fatto molto scalpore vedere che, prima di incominciare la propria giornata lavorativa, l’operaio giapponese, insieme a tutti i propri colleghi, ubbidiva agli ordini di un altoparlante e, vicino al proprio posto di lavoro, effettuava alcuni brevi esercizi ginnici e poi, sempre tutti insieme, si cantava l’inno dell’azienda in cui si ringraziava “il bravo padrone” o il suo bravo manager per la gratificazione del lavoro.

Tra i nostri operai, invece, fece molto scalpore il trattamento subito da uno dei vice chimici più bravi e simpatici, alto e atletico, quando fu rimproverato dal suo capo reparto, il Dott. Okada, piccoletto e minuto, che a voce alta e con il dito indice puntato all’altezza del diaframma del malcapitato, lo spinse a piccoli passi e piccoli colpettini fino ad un angolo del reparto dove lui continuava a subire, sull’attenti, i rimproveri ed i colpetti, inchinandosi e ringraziando.

La maggior parte dei tecnici giapponesi, i vice chimici, erano giovani con diploma di laurea e scapoli e, come da programma, sarebbero rimasti a Manfredonia un paio d’anni per poi tornare a casa. Vivevano in gruppi e venivano a lavorare in fabbrica, a volte, anche con una sola macchina per gruppo, per cui, quando uno di loro, per esigenze di servizio, era costretto a trattenersi in fabbrica, tutti gli altri rimanevano e cercavano di aiutarlo a sbrigarsi.

Per quanto riguarda l’inserimento dei giapponesi nella comunità paesana, non ci furono problemi di questo tipo, per il semplice motivo che i giapponesi facevano vita comunitaria tra loro e, rispetto all’ambiente circostante, non avevano altri contatti se non con negozianti o ristoratori.

In verità, ci fu un inizio d’inserimento finché restò a Manfredonia il Dott. Komori, con le sue due figlie adolescenti e la moglie che, in Giappone, era insegnante nelle scuole superiori. Madre e figlie, parteciparono alla sfilata del Carnevale 1966, indossando le loro ricchissime e coloratissime vesti giapponesi, ed ebbero molto successo, ma fu l’unica occasione.

In verità, con la facilità dei bambini nel superare tutte le barriere, le ragazzine giapponesi di Komori avevano contatti con alcune coetanee del grande stabile in cui abitavano, ed ebbi modo di scoprirlo quando, dopo insistenti sollecitazioni, andai a visitare la casa e la famiglia di Komori con la mia fidanzata.

Devo tuttavia confessare che la cosa che m’impressionò maggiormente, a parte l’accoglienza e la cortesia, fu quella di vedere bellamente affilate in mostra, su un lungo mobile basso, tante statuine affiancate, dalla più bassa alla più alta al centro, per poi continuare, dall’altro lato, sempre verso la più bassa: al centro c’era la statua scura di Sant’Antonio da Padova, affiancata dalla riproduzione in gesso del David di Michelangelo e dalla statua d’alabastro dell’Arcangelo Michele di Monte Sant’Angelo, poi i pupazzi del Presepe, con i pastori ed un San Giuseppe e varie altre figure, il tutto in una curiosa commistione di sacro e profano.





Gli italiani.

I diretti corrispondenti dei tecnici giapponesi erano i vice capo italiani, i periti agrari che fungevano anche da capo turno, tutti forestieri e tutti condividevano il generale pregiudizio dei nostri “vicini” conterranei e corregionali: cioè che “il manfredoniano”, in genere, ha poca voglia di lavorare.

In verità, questo pregiudizio è il risultato dell’assunto, questo sì esatto, che al “manfredoniano” piace soprattutto divertirsi, ma non è detto che, sul lavoro, siano tutti “sfaticati”. In pratica, sbagliato l’approccio, continuò in maniera sbagliata la gestione del gruppo di lavoro: qualcuno dei vice capo italiani credeva che il proprio compito fosse solo quello di denunciare il più sfaticato.

I capi reparto italiani organizzarono i gruppi di lavoro degli operai e ne stabilirono la turnazione. Erano tutti già esperti ed avevano già coperto, presso altre realtà industriali, i ruoli loro assegnati; tutti, tranne il più giovane, il Dott. Gilli, appena laureatosi con lode, che era il capo del primo reparto “H2”, quello che dava inizio alla produzione con la fermentazione.

Infatti il tipo di lavorazione era “a ciclo continuo” e “di processo”, come in quasi tutte le industrie chimiche, nel senso che la lavorazione iniziava nel primo reparto e passava quindi al successivo, fino al reparto finale di confezionamento.

La materia prima era immessa in uno dei fermentatori, un serbatoio gigantesco in acciaio inossidabile, e qui era inoculata la “coltura” dei “batteri”, con aria compressa e con qualche sostanza organica che aiutava il batterio a nutrirsi, il tutto sotto stretto controllo e con continui prelievi per analizzarne l’andamento.

La durata della fermentazione era più o meno prevedibile, ma dipendeva da molteplici fattori come la temperatura esterna, la consistenza zuccherina della materia prima e forse da qualcos’altro che non ho mai saputo.

Naturalmente i giapponesi erano esperti in quel tipo di fermentazione, mentre gli italiani erano alle prime armi, così che una volta, agli inizi, accadde che al momento di fermare la fermentazione perché completata, e passare la sostanza al reparto successivo, fossero presenti solo i tecnici giapponesi e non gli italiani che, al loro sopraggiungere al mattino, trovarono tutto già fatto, s’immagini con quanta soddisfazione, e questo creò i primi screzi conclamati fra italiani e giapponesi.

La giustificazione fu che, giunti a quel punto del processo, non c’era la possibilità di aspettare e ritardare le manovre di lavorazione, pena il danneggiamento della sostanza, con il conseguente riversamento in fogna del tutto e notevole perdita finanziaria, oltre alla mancata produzione.

Ma gli italiani rimproveravano ai giapponesi la mancata collaborazione nella programmazione: sapendo più o meno l’ora, si sarebbero fatti trovare, anche in ore notturne. Inoltre tutti capimmo il perché avessero scelto il Dott. Gilli come capo reparto dell’H2, era il più giovane, il meno esperto ed il più mite e educato, non “sgamato” come gli altri che protestarono e puntarono i piedi per farsi rispettare maggiormente.

Con gli screzi tra chimici italiani e giapponesi, si crearono tra gli operai i “partiti” dei favorevoli agli uni, pochi, ed agli italiani, la maggioranza, si figuri con quale risultato per la produzione. Il direttore, l’Ing. Raffetto, cercava di fare da paciere tra le due fazioni spiegando com’entrambi fossero utili ed indispensabili alla fabbrica.

Purtroppo, proprio in questi frangenti avvenne “l’incidente”. Pare che uno dei Periti agrari, un vice capo reparto, usando modi poco urbani, ma solo a voce, sollecitasse uno degli operai ad eseguire un certo compito e questi, anziché provvedervi immediatamente, si attardasse a chiedere un certo formale rispetto, il tutto sotto gli occhi di un “consulente” giapponese che, conoscendo il compito richiesto, esasperato, intervenne agitato afferrando e tirando per un braccio il riluttante operaio, facendolo cadere, o battere, contro qualcosa di metallico, procurandogli una leggera ferita e contusione.

Scoppiò un caso diplomatico internazionale, con implicazioni sindacali e patriottici, naturalmente alimentato e fomentato dai chimici italiani. La Commissione Interna, come all’epoca si chiamava la rappresentanza sindacale interna, chiese al Direttore le spiegazioni e l’allontanamento del “colpevole”, giacché non “sapeva” come si gestisce il personale in Italia.

Si cominciarono a svelare molti altri scontri o diatribe, più o meno ravvicinati, avvenuti prima dell’incidente; si misero nel mirino anche quei Periti agrari che si comportavano da “aguzzini” o spie; si venne a sapere che spesso a sera, dopo cena, molti dei giovani tecnici giapponesi ritornavano in fabbrica quasi ubriachi. Si vennero a sapere anche le motivazioni dell’abbandono del Dott. Cantarella che, da vero signore, quando capì che sarebbe stato un Capo Laboratorio solo a metà, senza polemiche, preferì tornare alla sua Schiaparelli.

La Direzione italiana, nelle persone dell’Ing. Raffetto, dell’Ing. Ciceri e del Direttore Amministrativo, intervenne per pacificare gli animi e riuscirono a far capire agli amici giapponesi che, in Italia, il “superiore” non può usare le mani (e per fortuna che non c’era ancora lo Statuto dei Lavoratori).

Fu concordato però che lo staff giapponese sarebbe stato ridimensionato come numero e che sarebbero stati scelti solo tecnici regolarmente sposati; intanto, dopo qualche giorno di “sospensione”, il chimico colpevole della rivoluzione ritornò in fabbrica, prestando però la sua opera in Laboratorio, prima di tornare in Giappone.

I chimici italiani si ritirarono sull’Aventino, tutti compatti e solidali, con a capo, naturalmente, il Dott. Giavelli. Pensiamo ci sia stata qualche trattativa, ma il risultato, in ogni modo, fu che in poco tempo si licenziarono Giavelli e Giappicucci, subito seguiti dall’Ing. Ciceri e questo, in ogni caso, fu una notevole perdita per la fabbrica, considerato la competenza delle persone.

Rimase il Dott. Fontana, non per accettazione della propria posizione dimezzata, ma per autentici e gravi motivi di famiglia che gli impedivano di trasferirsi. Rimase il Dott. Gilli che sembrò in un certo senso accettare la propria posizione dimezzata di capo del reparto H2, dove imperversava il piccoletto suo omologo giapponese, il Dr. Okada, destinato in breve tempo a raccogliere il frutto della sua vittoria diventando il capo dello staff tecnico giapponese, sostituendo prima il Dott. Komori, il capo della produzione, e poi l’Ing. Saito, capo dell’intero staff giapponese, tornati in Giappone. Anche il Dr. Okada ritornò in Italia nel 1976.

Dopo qualche mese, Gilli si licenziò per andare in Brasile, raggiungendo laggiù il Dott. Giavelli. Per il proprio addio, volle lasciare un “regalo” al Dott. Okada, ma fu una caduta di stile per quel simpatico e prestante giovanotto.

Il Dott. Fontana fu “distaccato” presso l’Istituto di Ricerche Breda di Bari. Qui continuò, ed approfondì, una sua personale ricerca sui sistemi di depurazione delle acque reflue, sfruttando anche quanto acquisito nel nostro stabilimento e, dopo qualche mese, tornò nella sua Bologna e mise su, prima uno Studio di consulenza industriale, proprio sui sistemi di smaltimento e depurazione delle acque, poi brevettando un vero impianto tecnico.

Gli effetti “dell’incidente”, con tutto quel che seguì, si sentirono e perdurarono nel tempo e, secondo me, cambiò poi radicalmente tutto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti degli italiani. Se qualcuno dei nostri “ospiti” poteva aver avuto l’idea di integrarsi maggiormente nell’ambiente cittadino o in quello di lavoro, dopo “l’incidente” dovette cambiare idea e preferì restare al suo posto.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti