martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'avvio

I Lavoratori

Nella prima metà del mese di maggio del 1966, terminò il mio soggiorno a Roma e fui trasferito a Manfredonia, preparando il trasloco di tutto il resto degli impiegati che avvenne poi ai primi di giugno. In fabbrica c’era il Direttore, l’ing. Raffetto, milanese, che aveva già incominciato i colloqui per la scelta e l’assunzione degli operai.

Subito dopo la mia assunzione, a Roma, avevo ricevuto tra le mani, con l’incarico di classificare e ordinare, la montagna delle domande di assunzione dei miei compaesani che aspiravano ad un posto di lavoro in quella che era la prima industria installatasi a Manfredonia, e molti erano amici miei o solo conoscenti.

Con l’anno nuovo e avvicinandosi l’avvio della produzione, molti di quelli che prima aspiravano ad essere assunti come impiegati, rifecero la domanda per entrare come operai, e molti nascondevano il possesso di un diploma di scuola superiore.

Il dott. Cantarella, capo del Laboratorio chimico, mi aveva detto che, secondo lui, il miglior operaio addetto al Laboratorio sarebbe stato un “quasi” diplomato, considerato che non si sarebbero trovati degli esperti “analisti chimici” in zona ma si sarebbero dovuti istruire con corsi di formazione interni. Infatti, i primi assunti del Laboratorio furono giovani diplomati che, ai fini dell’assunzione, avevano nascosto il possesso del diploma.

A metà giugno fu assunto il grosso della manodopera ed ognuno aveva la propria destinazione, assegnatagli dal Direttore, coadiuvato dai vari capi reparto, i chimici italiani. Devo confessare che la scelta del Direttore fu quanto mai oculata e motivata, anche se spesso dovette ascoltare le “segnalazioni” delle varie autorità.

La maggior parte degli operai era, naturalmente, originaria di Manfredonia o quivi residente, ma v’erano anche provenienti da Monte Sant’Angelo, Mattinata, San Giovanni Rotondo e da Foggia, anzi molti dei tecnici della manutenzione erano foggiani.

All’inizio volli tentare di dare dei “consigli” al Direttore, ma lui mi fermò subito, invitandomi a restare al mio posto. Solo dopo aver rispettato la consegna, fu lui stesso che, in alcuni casi, mi chiese dei pareri su alcune persone, ma ponendomi delle domande ben precise alle quali dovevo rispondere con sicurezza, e senza commenti non richiesti.

Le domande di lavoro furono molte più di mille, ne furono assunti circa duecento che, immediatamente, acquisirono ottocento nemici, frustrati e inappagati, che stavano alla finestra pronti a denigrare gli assunti, la fabbrica, il lavoro e chissà che altro, in ciò motivati e incoraggiati anche da coloro che, ed erano molti, continuarono a svolgere il proprio vecchio lavoro, in nero.

Tutti gli operai furono assunti e inquadrati nel quinto livello, il più basso del Contratto di Lavoro, percependo un salario di poco più di quaranta mila lire al mese, ma quasi tutti restarono, con la speranza che, prima o poi, il livello sarebbe migliorato.

Furono assunti, per i reparti di produzione, operai edili, ex artigiani, ex operai dell’industria rientrati dal nord Italia o dalla Germania. Uno dei primi assunti era un sarto da uomo, ben conosciuto in paese che, evidentemente, aveva chiuso bottega e si era iscritto disoccupato all’Ufficio di Collocamento: questo determinò la chiusura di tante altre sartorie in paese.

Lasciarono subito il posto, licenziandosi, quelli che non potevano accettare un così misero salario, o perché impegnati con debiti o mutui ipotecari per l’acquisto dell’abitazione, e ripresero la via dell’emigrazione in Germania, oppure perché avevano altri sbocchi più remunerativi, ancorché precari, ed era il caso degli ausiliari della pesca marittima che guadagnavano occasionalmente molto di più ed in nero; un paio ritornarono ad imbarcarsi sulle navi mercantili, ed erano i diplomati dell’Istituto Nautico che, secondo me, tra gli Istituti Tecnici, per le materie studiate, è quello che forma i tecnici di più alto profilo.

Per le officine e i servizi tecnici di fabbrica, furono assunti meccanici ed ex artigiani, ma la ricerca fu ardua per l’assunzione dei tecnici patentati per la conduzione delle caldaie a vapore, non perché non si trovassero, ma perché non accettavano il salario loro offerto, per cui si andò alla vera trattativa, offrendo categoria superiore e superminimi. Stessa cosa per qualcuno dei meccanici o degli elettricisti più esperti.

Il primo e più anziano dei fuochisti patentati era anche colui che riuscì ad avere il salario più alto e la terza categoria, e tutti n’erano a conoscenza. Sarà stato per questo motivo che una notte, agli inizi dell’attività, fu chiesto il suo intervento per un’emergenza: nel pompare la soda caustica dal serbatoio al reparto, ci si accorse che la tubatura aveva una perdita e riversava in parte a terra.

Non era stato ancora creato il responsabile di turno ma, in ogni caso, non era suo compito intervenire, al massimo avrebbe dovuto svegliare il proprio superiore che, a sua volta, avrebbe dovuto svegliare il responsabile della manutenzione, che avrebbe dovuto svegliare una squadra d’operai per l’emergenza: tranne questi ultimi, gli altri erano tutti forestieri. Ma lui voleva dimostrare che la manodopera locale era all’altezza di qualunque situazione.

Era un fuochista che, fino allora, aveva molto navigato su navi mercantili in tutto il mondo. Mise insieme una squadra d’emergenza e, indossata la cerata dei pompieri, si pose sotto il grosso getto di una manichetta d’acqua che gli pioveva sul capo, sul cappello a falde larghe da pompiere, e con occhiali e saldatore, mise una “pezza” provvisoria alla tubazione senza interrompere il flusso della soda caustica nel tubo d’adduzione.

Al mattino, tutti i capi, italiani e giapponesi, appresero della cosa, e grande fu la meraviglia generale. Il Direttore, invece, lo mandò a chiamare sul tardi, si fece raccontare il tutto e poi: - «Per il buon esito dell’intervento, per non aver dovuto fermare la produzione, lei si aspetta un elogio. Poiché tuttavia non era suo compito ed ha rischiato la propria incolumità, sono costretto a comminarle un rimprovero ed un’ammonizione a non ripetere più un fatto simile.» -

- «Direttore!» - rispose il fuochista: - «Non potevo tirarmi indietro! Dovevo pur dimostrare di che pasta siamo fatti noi sipontini!» -

- «Infatti, prima le ha parlato il Direttore Responsabile! Come uomo e come tecnico, le devo dire solo: BRAVO!» -

Il fuochista si chiamava Candido Collicelli ed era una persona retta e generosa, oltre ad essere affettuoso padre di molti figli.

Ma v’erano anche aspetti negativi. Una mattina fui chiamato dal Direttore per mostrargli alcuni documenti, ma prima mi chiese di attendere che terminasse di firmare alcune carte, invitandomi a sedere. Ad un certo punto scoppiò a ridere fragorosamente, al suo solito, commentando: - «…orca! Li hanno fatto fuori in tre mesi!» - Chiesi di cosa si trattasse e lui mi spiegò: - «Mi chiedono di acquistare una nuova serie di chiavi fisse per l’officina. Sa che significa? Che in tre mesi dall’inizio dell’attività, sono sparite tutte le chiavi, se le son prese e portate a casa!» -

Naturalmente mi sentii molto umiliato e rammaricato della cosa, anche se, come tutti gli altri dirigenti e superiori, spesso dimenticavano che io fossi un indigeno. Ma poi, evidentemente, leggendo in faccia il mio sentire, continuò chiarendo:

- «Guardi che è una cosa normale, che avviene in tutte le fabbriche! D’altronde, noi possiamo mettere un controllore: ma quanto ci costa? Lei sa meglio di me quanto costa un dipendente, senz’altro più del milione di lire, quanto costano quattro serie di chiavi in un anno! Senza dire che poi ci vorrà un controllore del controllore, e via di seguito. Del resto, prima o poi, il fenomeno diminuisce e si esaurirà, anche se mai del tutto: completeranno la serie di chiavi a casa propria o in officina, no? Mica possono mangiarle?!» -

I giapponesi.

Non si trasferì a Manfredonia il Dr. Fukazawa, che rimase presso l’Ufficio di Roma con Yamada almeno per un altro anno, prima di essere sostituito da un nuovo Amministratore Delegato, sempre giapponese.

Si avviò la produzione, con gli immancabili intoppi e gli inevitabili errori. Ogni reparto di produzione aveva il suo Capo Reparto, uno dei bravi chimici italiani, affiancato dal “consulente” giapponese, uno o più di uno, già esperto della lavorazione. C’erano poi i Vice, almeno due per reparto, assunti tra i diplomati in Agraria, pratici di Chimica organica.

Purtroppo nessuno dei Periti Agrari era di Manfredonia ma provenivano dai paesi del circondario, e si trovarono a stretto contatto con alcuni altri diplomati operai. La manodopera fu divisa in gruppi e, per ogni reparto, c’erano i turni di lavoro che coprivano tutte le 24 ore della giornata, compreso la domenica.

I chimici italiani svolgevano il proprio lavoro durante le ore diurne e, dopo dieci ore, tornavano alle proprie case. I chimici giapponesi che li affiancavano erano presenti anche sedici o diciotto ore al giorno, soli o con altri colleghi. La colonia dei tecnici giapponesi in questo periodo era arrivata a circa una ventina di tecnici, compreso i capi chimici, e questi ultimi impartivano ordini, al principio, solo ai propri assistenti, ma spesso con modi violenti e poco usuali per la realtà italiana.

A questo punto, forse, è bene chiarire com’era intesa l’organizzazione aziendale giapponese. Il giapponese, per natura e per educazione, aveva il massimo rispetto per le gerarchie e per i superiori, ma era, più che un rispetto, quasi una venerazione, prova ne sia la serie di inchini che, per consuetudine, variavano a seconda il diverso grado gerarchico tra le persone che s’incontravano: più profondo e insistito se il superiore fosse uno o più gradini più in alto dell’altro.

Il lavoratore giapponese, una volta assunto da un datore di lavoro, era sicuro che ci avrebbe lavorato insieme per tutta la vita, sempre che si fosse comportato in maniera da soddisfare le richieste e le esigenze del lavoro. Il datore di lavoro, per togliere dalla mente del lavoratore ogni eventuale “distrazione” che potesse influire sul rendimento, si preoccupava direttamente della salute del dipendente e della sua famiglia, dell’educazione e dello studio, anche dello stesso dipendente se questi mostrava di esserne particolarmente inclinato, nonché della sua vecchiaia.

Un triste destino attendeva il dipendente cacciato via con demerito: difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto ad assumerlo e si sarebbe dovuto accontentare di mansioni umili e disprezzate da tutti, oppure diventare un mendicante o, peggio, un delinquente.

Se s’ingrandiva l’azienda, il lavoratore era felice perché, oltre a consolidarsi il proprio lavoro, poteva sperare che, un domani, se avesse meritato, poteva entrare nella stessa azienda suo figlio, ciò perché, in ogni caso, la società giapponese era soprattutto “meritocratica” ma anche “paternalistica”.

E proprio come un “pater familias”, severo e inflessibile, si comportava il “capo”, a qualsiasi livello, premiando i bravi e punendo i cattivi. Di sindacato, neanche l’ombra.

Tra i nostri chimici che erano stati nella “casa madre” giapponese, aveva fatto molto scalpore vedere che, prima di incominciare la propria giornata lavorativa, l’operaio giapponese, insieme a tutti i propri colleghi, ubbidiva agli ordini di un altoparlante e, vicino al proprio posto di lavoro, effettuava alcuni brevi esercizi ginnici e poi, sempre tutti insieme, si cantava l’inno dell’azienda in cui si ringraziava “il bravo padrone” o il suo bravo manager per la gratificazione del lavoro.

Tra i nostri operai, invece, fece molto scalpore il trattamento subito da uno dei vice chimici più bravi e simpatici, alto e atletico, quando fu rimproverato dal suo capo reparto, il Dott. Okada, piccoletto e minuto, che a voce alta e con il dito indice puntato all’altezza del diaframma del malcapitato, lo spinse a piccoli passi e piccoli colpettini fino ad un angolo del reparto dove lui continuava a subire, sull’attenti, i rimproveri ed i colpetti, inchinandosi e ringraziando.

La maggior parte dei tecnici giapponesi, i vice chimici, erano giovani con diploma di laurea e scapoli e, come da programma, sarebbero rimasti a Manfredonia un paio d’anni per poi tornare a casa. Vivevano in gruppi e venivano a lavorare in fabbrica, a volte, anche con una sola macchina per gruppo, per cui, quando uno di loro, per esigenze di servizio, era costretto a trattenersi in fabbrica, tutti gli altri rimanevano e cercavano di aiutarlo a sbrigarsi.

Per quanto riguarda l’inserimento dei giapponesi nella comunità paesana, non ci furono problemi di questo tipo, per il semplice motivo che i giapponesi facevano vita comunitaria tra loro e, rispetto all’ambiente circostante, non avevano altri contatti se non con negozianti o ristoratori.

In verità, ci fu un inizio d’inserimento finché restò a Manfredonia il Dott. Komori, con le sue due figlie adolescenti e la moglie che, in Giappone, era insegnante nelle scuole superiori. Madre e figlie, parteciparono alla sfilata del Carnevale 1966, indossando le loro ricchissime e coloratissime vesti giapponesi, ed ebbero molto successo, ma fu l’unica occasione.

In verità, con la facilità dei bambini nel superare tutte le barriere, le ragazzine giapponesi di Komori avevano contatti con alcune coetanee del grande stabile in cui abitavano, ed ebbi modo di scoprirlo quando, dopo insistenti sollecitazioni, andai a visitare la casa e la famiglia di Komori con la mia fidanzata.

Devo tuttavia confessare che la cosa che m’impressionò maggiormente, a parte l’accoglienza e la cortesia, fu quella di vedere bellamente affilate in mostra, su un lungo mobile basso, tante statuine affiancate, dalla più bassa alla più alta al centro, per poi continuare, dall’altro lato, sempre verso la più bassa: al centro c’era la statua scura di Sant’Antonio da Padova, affiancata dalla riproduzione in gesso del David di Michelangelo e dalla statua d’alabastro dell’Arcangelo Michele di Monte Sant’Angelo, poi i pupazzi del Presepe, con i pastori ed un San Giuseppe e varie altre figure, il tutto in una curiosa commistione di sacro e profano.





Gli italiani.

I diretti corrispondenti dei tecnici giapponesi erano i vice capo italiani, i periti agrari che fungevano anche da capo turno, tutti forestieri e tutti condividevano il generale pregiudizio dei nostri “vicini” conterranei e corregionali: cioè che “il manfredoniano”, in genere, ha poca voglia di lavorare.

In verità, questo pregiudizio è il risultato dell’assunto, questo sì esatto, che al “manfredoniano” piace soprattutto divertirsi, ma non è detto che, sul lavoro, siano tutti “sfaticati”. In pratica, sbagliato l’approccio, continuò in maniera sbagliata la gestione del gruppo di lavoro: qualcuno dei vice capo italiani credeva che il proprio compito fosse solo quello di denunciare il più sfaticato.

I capi reparto italiani organizzarono i gruppi di lavoro degli operai e ne stabilirono la turnazione. Erano tutti già esperti ed avevano già coperto, presso altre realtà industriali, i ruoli loro assegnati; tutti, tranne il più giovane, il Dott. Gilli, appena laureatosi con lode, che era il capo del primo reparto “H2”, quello che dava inizio alla produzione con la fermentazione.

Infatti il tipo di lavorazione era “a ciclo continuo” e “di processo”, come in quasi tutte le industrie chimiche, nel senso che la lavorazione iniziava nel primo reparto e passava quindi al successivo, fino al reparto finale di confezionamento.

La materia prima era immessa in uno dei fermentatori, un serbatoio gigantesco in acciaio inossidabile, e qui era inoculata la “coltura” dei “batteri”, con aria compressa e con qualche sostanza organica che aiutava il batterio a nutrirsi, il tutto sotto stretto controllo e con continui prelievi per analizzarne l’andamento.

La durata della fermentazione era più o meno prevedibile, ma dipendeva da molteplici fattori come la temperatura esterna, la consistenza zuccherina della materia prima e forse da qualcos’altro che non ho mai saputo.

Naturalmente i giapponesi erano esperti in quel tipo di fermentazione, mentre gli italiani erano alle prime armi, così che una volta, agli inizi, accadde che al momento di fermare la fermentazione perché completata, e passare la sostanza al reparto successivo, fossero presenti solo i tecnici giapponesi e non gli italiani che, al loro sopraggiungere al mattino, trovarono tutto già fatto, s’immagini con quanta soddisfazione, e questo creò i primi screzi conclamati fra italiani e giapponesi.

La giustificazione fu che, giunti a quel punto del processo, non c’era la possibilità di aspettare e ritardare le manovre di lavorazione, pena il danneggiamento della sostanza, con il conseguente riversamento in fogna del tutto e notevole perdita finanziaria, oltre alla mancata produzione.

Ma gli italiani rimproveravano ai giapponesi la mancata collaborazione nella programmazione: sapendo più o meno l’ora, si sarebbero fatti trovare, anche in ore notturne. Inoltre tutti capimmo il perché avessero scelto il Dott. Gilli come capo reparto dell’H2, era il più giovane, il meno esperto ed il più mite e educato, non “sgamato” come gli altri che protestarono e puntarono i piedi per farsi rispettare maggiormente.

Con gli screzi tra chimici italiani e giapponesi, si crearono tra gli operai i “partiti” dei favorevoli agli uni, pochi, ed agli italiani, la maggioranza, si figuri con quale risultato per la produzione. Il direttore, l’Ing. Raffetto, cercava di fare da paciere tra le due fazioni spiegando com’entrambi fossero utili ed indispensabili alla fabbrica.

Purtroppo, proprio in questi frangenti avvenne “l’incidente”. Pare che uno dei Periti agrari, un vice capo reparto, usando modi poco urbani, ma solo a voce, sollecitasse uno degli operai ad eseguire un certo compito e questi, anziché provvedervi immediatamente, si attardasse a chiedere un certo formale rispetto, il tutto sotto gli occhi di un “consulente” giapponese che, conoscendo il compito richiesto, esasperato, intervenne agitato afferrando e tirando per un braccio il riluttante operaio, facendolo cadere, o battere, contro qualcosa di metallico, procurandogli una leggera ferita e contusione.

Scoppiò un caso diplomatico internazionale, con implicazioni sindacali e patriottici, naturalmente alimentato e fomentato dai chimici italiani. La Commissione Interna, come all’epoca si chiamava la rappresentanza sindacale interna, chiese al Direttore le spiegazioni e l’allontanamento del “colpevole”, giacché non “sapeva” come si gestisce il personale in Italia.

Si cominciarono a svelare molti altri scontri o diatribe, più o meno ravvicinati, avvenuti prima dell’incidente; si misero nel mirino anche quei Periti agrari che si comportavano da “aguzzini” o spie; si venne a sapere che spesso a sera, dopo cena, molti dei giovani tecnici giapponesi ritornavano in fabbrica quasi ubriachi. Si vennero a sapere anche le motivazioni dell’abbandono del Dott. Cantarella che, da vero signore, quando capì che sarebbe stato un Capo Laboratorio solo a metà, senza polemiche, preferì tornare alla sua Schiaparelli.

La Direzione italiana, nelle persone dell’Ing. Raffetto, dell’Ing. Ciceri e del Direttore Amministrativo, intervenne per pacificare gli animi e riuscirono a far capire agli amici giapponesi che, in Italia, il “superiore” non può usare le mani (e per fortuna che non c’era ancora lo Statuto dei Lavoratori).

Fu concordato però che lo staff giapponese sarebbe stato ridimensionato come numero e che sarebbero stati scelti solo tecnici regolarmente sposati; intanto, dopo qualche giorno di “sospensione”, il chimico colpevole della rivoluzione ritornò in fabbrica, prestando però la sua opera in Laboratorio, prima di tornare in Giappone.

I chimici italiani si ritirarono sull’Aventino, tutti compatti e solidali, con a capo, naturalmente, il Dott. Giavelli. Pensiamo ci sia stata qualche trattativa, ma il risultato, in ogni modo, fu che in poco tempo si licenziarono Giavelli e Giappicucci, subito seguiti dall’Ing. Ciceri e questo, in ogni caso, fu una notevole perdita per la fabbrica, considerato la competenza delle persone.

Rimase il Dott. Fontana, non per accettazione della propria posizione dimezzata, ma per autentici e gravi motivi di famiglia che gli impedivano di trasferirsi. Rimase il Dott. Gilli che sembrò in un certo senso accettare la propria posizione dimezzata di capo del reparto H2, dove imperversava il piccoletto suo omologo giapponese, il Dr. Okada, destinato in breve tempo a raccogliere il frutto della sua vittoria diventando il capo dello staff tecnico giapponese, sostituendo prima il Dott. Komori, il capo della produzione, e poi l’Ing. Saito, capo dell’intero staff giapponese, tornati in Giappone. Anche il Dr. Okada ritornò in Italia nel 1976.

Dopo qualche mese, Gilli si licenziò per andare in Brasile, raggiungendo laggiù il Dott. Giavelli. Per il proprio addio, volle lasciare un “regalo” al Dott. Okada, ma fu una caduta di stile per quel simpatico e prestante giovanotto.

Il Dott. Fontana fu “distaccato” presso l’Istituto di Ricerche Breda di Bari. Qui continuò, ed approfondì, una sua personale ricerca sui sistemi di depurazione delle acque reflue, sfruttando anche quanto acquisito nel nostro stabilimento e, dopo qualche mese, tornò nella sua Bologna e mise su, prima uno Studio di consulenza industriale, proprio sui sistemi di smaltimento e depurazione delle acque, poi brevettando un vero impianto tecnico.

Gli effetti “dell’incidente”, con tutto quel che seguì, si sentirono e perdurarono nel tempo e, secondo me, cambiò poi radicalmente tutto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti degli italiani. Se qualcuno dei nostri “ospiti” poteva aver avuto l’idea di integrarsi maggiormente nell’ambiente cittadino o in quello di lavoro, dopo “l’incidente” dovette cambiare idea e preferì restare al suo posto.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti