Cap. VIII – LA FINE
L’occupazione di fabbrica
Esaurite tutte le iniziative di lotta e di richiamo, dopo una intera settimana di sciopero, la sera del 31 maggio 1977, iniziò la vera occupazione di fabbrica, mentre, già giorni prima, i giapponesi erano spariti dalla circolazione, e non solo dalla fabbrica, ma anche dalla proprie abitazioni e da Manfredonia.
E’ inutile precisare che, avendo iniziato l’occupazione di fabbrica alla fine del mese, con gli stipendi che venivano pagati i primi giorni del mese successivo, non facemmo in tempo a percepire la retribuzione.
La sera stessa, insieme ad alcuni dei sindacalisti, compilammo un duro comunicato stampa per annunciare la decisione dell’occupazione, venuta a seguito di una vertenza sindacale in cui il datore di lavoro si era dimostrato quanto mai agnostico e già, praticamente, non vincolato a quelli che dovevano essere gli obblighi e le responsabilità verso le maestranze e verso lo Stato italiano che aveva largamente contribuito finanziariamente alla costruzione dello Stabilimento.
Il testo del comunicato lo trasmettemmo, via telescrivente, a tutte le agenzie di stampa, alle principali testate giornalistiche, al Ministero delle Partecipazioni Statali ed a quello del Lavoro e ad altri vari ministeri, più al Sottosegretario agli Interni che era l’On. Vincenzo Russo.
L’indomani, anche se solo con un piccolo trafiletto, eravamo citati da tutti i più importati quotidiani, escluso “La Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari, che pubblicò, il terzo giorno successivo, un breve articolo sulla pagina della redazione foggiana, solo dopo che l’avevamo tempestata di numerosi telex e di telefonate, a firma ed a nome dei responsabili provinciali dei Sindacati. E, per i primi giorni, non avvenne niente altro.
Così la prima domenica successiva, il 5 giugno, uscimmo dalla fabbrica e bloccammo l’unica strada statale che conduceva a Manfredonia e al Gargano, ritardando il traffico dei primi bagnanti e dei turisti che si recavano alle spiagge di Siponto e sul Gargano stesso, allo scopo di “illustrare”, con ampi particolari, le ragioni della protesta a ciascun automobilista. A sera altro comunicato stampa via telex per informare dell’azione e delle reazioni di simpatia degli automobilisti bloccati.
Solo in questo modo avemmo l’onore di una visita del corrispondente da Manfredonia della “Gazzetta” di Bari, mentre tutti gli altri quotidiani cominciarono ad interessarsi a noi più estesamente. Ed incominciarono ad interessarsi anche gli uomini politici e gli amministratori locali con, in prima linea, il Sindaco comunista, Senatore Michele Magno.
Erano, invece, seriamente preoccupate le autorità preposte all’ordine pubblico. Prima come ufficio paghe, poi come Capo Contabile ed infine come Responsabile Amministrativo, avevo sempre avuto un rapporto privilegiato con Carabinieri e Commissariato.
In tutte le manifestazioni di protesta esterne alla fabbrica, avevamo sempre al fianco le forze dell’ordine pubblico che, in un certo senso, proteggevano le nostre manifestazioni. Non accadde mai niente di particolare, anche perché il paese era piccolo e si viveva in ambiente familiare: anche quando andammo a piedi ad occupare il Municipio di Manfredonia, era evidente che tutti gli impiegati ci aspettavano e sapevano del nostro imminente arrivo.
Fu invece una vera sorpresa per tutti quando, quasi tutto il personale uscì dallo stabilimento e si sparse sulla strada per Zapponeta, fermandosi al passaggio al livello, sedendosi sui binari del treno, bloccando quindi sia la linea ferroviaria Manfredonia-Foggia che la strada provinciale litoranea.
Per una causa di lavoro seguita al licenziamento di un dipendente, il Pretore di Manfredonia, il Dott. Cappabianca, aveva tenuto, qualche tempo prima, alcune udienze di quella causa direttamente nella nostra fabbrica, anche per effettuare un personale sopralluogo ad alcuni ambienti di lavoro, ed in quella occasione avevo avuto modo di conoscerlo e parlare con lui anche al di fuori della sua funzione, avendo voluto farsi illustrare da me il funzionamento del nostro computer.
La causa si concluse con l’approvazione del licenziamento “per eccessiva morbilità” del lavoratore, fu pubblicata nel Massimario di Giurisprudenza, ebbe molta eco in tutti gli ambienti legali e aziendali del territorio nazionale, essendo la prima del genere dopo lo Statuto dei Lavoratori.
Il Sig. Pretore, preoccupato per l’ordine pubblico, ci fece pervenire un informale ed amichevole invito per essere informato, da Tavano e da me, sulla situazione all’interno della fabbrica. L’incontro l’avemmo, in maniera riservatissima, di sera, nell’ufficio personale della Pretura, alla presenza del comune amico avvocato, e Pretore Onorario, che aveva fatto da emissario.
Intanto, per conto mio, avevo continuato a tenere i contatti telefonici con l’Ufficio di Milano, finché cominciai a telefonare, la sera sul tardi, a casa del Dott. Yadama, chiacchierando con lui con la scusa di voler raccontare cosa accadeva in fabbrica, ma con lo scopo di carpire notizie sulle intenzioni dei giapponesi.
Le telefonate partivano dalla saletta della centralina SIP nella palazzina uffici, anche se subito, pochi giorni dopo l’inizio dell’occupazione, tutte le linee telefoniche erano state disattivate. Fu disattivata anche la telescrivente ma, colui che vi aveva provveduto, non pensò di dover disattivare anche la relativa linea telefonica utilizzata per la telescrivente, che aveva ancora un apparecchio telefonico di servizio funzionante nella centralina SIP.
Già durante l’attività normale, la stanza era sempre chiusa a chiave e così restò durante l’occupazione. Per questo motivo, facevo le telefonate con l’assenso di una buona parte dei membri del cosiddetto “Comitato sindacale per l’occupazione di fabbrica”.
Infatti, quando incominciarono le lotte e le azioni di protesta, era chiaro a tutti che non si poteva lasciare la guida e l’iniziativa solo nelle mani dei membri del Consiglio in carica, anche perché, oltre ad un paio di bravi sindacalisti, c’era sempre quel capetto inaffidabile e qualche ignavo che, spesso, da quello si faceva convincere e, con la scusa della maggioranza democratica, faceva pendere dalla sua parte la bilancia, per cui si integrò il Consiglio di Fabbrica con altri membri, tutti che avevano già fatto parte di altri Consigli di Fabbrica, creando appunto questo “Comitato”.
Intanto, ciascuno per conto proprio, ognuno di noi si dava da fare con le proprie conoscenze. Il capo della produzione, chimico, cercava altri sbocchi, altre realtà che potessero esser interessate alla nostra fabbrica. Il gruppo dei chimici, anzi, cercò di salvare il “ceppo” dei batteri che dava origine alla fermentazione, ma fallirono lo scopo, forse perché non conoscevano le specifiche per mantenerlo in vita.
Io tenevo in ufficio le chiavi della cassaforte nella quale c’erano dei documenti originali relativi a licenze e concessioni che chiusi nel caveau, insieme ai documenti della cassetta di sicurezza nella quale erano conservati i libretti al portatore con i famosi “fondi neri”, che non si toccavano da parecchio tempo e che, comunque, erano diventati una somma cospicua ma non risolutiva per le finanze aziendali, al massimo avrebbero consentivo di versare i contributi e le ritenute di una mensilità di stipendio.
Non c’era pericolo, anche se le maestranze “occupavano” effettivamente la palazzina degli uffici amministrativi, bivaccando dappertutto, ma, ad ogni buon conto, portai le chiavi a casa mia.
Il collega Tavano ebbe, ad un certo punto, un “suggerimento” da parte dell’amico avvocato che aveva fatto da emissario con il Pretore. Considerato che la Direzione e la proprietà erano latitanti, i dipendenti potevano chiedere il sequestro conservativo dello stabilimento a salvaguardia delle retribuzioni non ancora pagate e dell’indennità di licenziamento maturato, magari con la procedura di urgenza ex art.700 del C.p.p., e “sicuramente” il Pretore avrebbe dato parere favorevole alla procedura d’urgenza ed al sequestro conservativo. L’unica condizione era che avessero aderito al ricorso un buon numero di dipendenti, anche se in minoranza.
Il ricorso fu presentato, firmato subito da quasi tutti gli impiegati e da un buon numero di operai, mentre si tentava di convincere altri operai a firmare.
A questo punto vennero fuori le brutture di tutto l’ambiente e venne a galla il fango che stava nel fondo. Uscì fuori quel partito che si era venduto al nuovo Direttore e cercava di imporre tutti i suggerimenti che questi faceva, ma che ebbe una reazione scomposta alla notizia del ricorso al Pretore.
Forse, immagino io, quel Direttore con la pistola sempre al fianco, disse che bisognava “evitare” che altri firmassero, magari lo disse arrabbiato e con il suo accento siciliano, essendo nativo di Milazzo ma che, provenendo da Terni, quando non era arrabbiato, parlava un umbro-romanesco. In ogni caso, per evitare che altri firmassero, si ricorse anche a mezzi non leciti, volendo usare un eufemismo.
Nel frattempo, poiché la vita, in ogni situazione, prosegue il suo corso, avvenne in casa mia un nuovo lieto evento e, quindi, fui esonerato dal Comitato a continuare l’occupazione di fabbrica, dovendo assistere mia moglie e gli altri miei due figli.
Al mio ritorno in fabbrica, dopo una diecina di giorni, i colleghi mi aggiornarono sugli ultimi avvenimenti e cioè che il Pretore aveva accolto il nostro ricorso e convocato le parti fra trenta giorni, sequestrando nel frattempo la fabbrica; che il giorno dell’udienza, un gruppo di “bravi” operai, nel senso manzoniano del termine, si posero a guardia dell’ingresso della Pretura con l’intento di scoraggiare coloro che, convinti all’ultimo minuto, stavano andando a firmare il ricorso direttamente nelle mani del Pretore, nonché gli stessi impiegati promotori.
Mi raccontarono anche che, durante la mia assenza, un gruppo di chimici italiani ed inglesi, messisi in contatto con il nostro capo della produzione, chiesero di visitare la fabbrica.
E vennero in incognito gli inviati della ICI inglese, un grande colosso chimico multinazionale. Purtroppo, iniziata da tempo, c’era, in tutta l’Italia ed in certi ambienti, una grande diffidenza e un vero rigetto verso le “multinazionali” che era diventato un termine dispregiativo ed offensivo, perché sinonimo di affamatori di popolo, di voraci imperialisti, di sfruttatori del povero operaio.
La visita fu, per questo, quanto mai rapida, tuttavia emissari del colosso chimico presero i primi contatti con i giapponesi, a Milano, e i miei colleghi conoscevano anche la data, molto prossima, del primo incontro programmato.
Ma i colleghi mi raccontarono anche che si era ormai spaccato il fronte degli occupanti la fabbrica: da una parte v’erano gli impiegati e uno sparuto gruppo di operai che si fidavano delle parole e dei pareri di costoro; dall’altra parte v’erano il gruppo dei fedelissimi di quel capetto psiuppino che faceva da terminale del direttore Cappuccio; al centro la maggioranza degli operai che attendeva solo una soluzione positiva della vicenda.
C’era anche un altro partito, ed era quello che aveva ripreso a lavorare con il vecchio suo mestiere o lo aveva sviluppato, allo scopo di portare soldi in casa, e questi, non facendosi vedere punto in fabbrica, erano bersaglio di epiteti e ingiurie da parte di tutti.
La cosa più grave comunque, fu apprendere che erano iniziate le telefonate minatorie al domicilio degli impiegati forestieri e le telefonate calunniose alle mogli di qualcuno, sempre impiegati.
Poiché tra i così detti “contrari” c’erano operai che mi avevano sempre rispettato, cercai l’occasione e mi andai a sedere in mezzo a loro, cercando di farli parlare. In un certo senso, interrogare e far parlare la gente è sempre stato il mio lavoro, e ci riesco sempre bene, loro lo sapevano e tentarono di eludere le mie pressanti domande, sfuggendo anche il mio sguardo, e uno tentò anche di dissuadermi parlando il linguaggio gergale dei camorristi che io feci finta di capire.
Alla fine, ebbi la certezza e la conferma, sebbene non espressa, che effettivamente il capetto era manovrato da qualcuno che gli raccomandava di stare calmi, che le cose si sarebbero aggiustate in favore degli operai, e così via.
Sapendo che quella non era gente che si muoveva per niente, chiesi loro cosa ci guadagnassero nella cosa, ma loro non mi rispondevano, allora chiesi cosa ci avesse guadagnato il capetto e qui le risposte, evasive, cambiarono, finché, seguendo lo sguardo di un paio di loro, scorsi lontano, in fondo alla fabbrica, un paio di operai che, vicino ad una manichetta dell’acqua, stavano lavando una macchina, l’auto aziendale, una Fiat 127, che serviva per andare in paese per la posta o in banca e capii che quella era il guiderdone per il capetto.
Mollai il gruppo con l’ultima frecciata:
- «Ragazzi! Mi avete deluso! Quello si è già fatto pagare, mentre voi vi accontentate delle chiacchiere!» -
Ci chiamò a Foggia l’Onorevole Vincenzo Russo che, in un brevissimo colloquio, tra la confusione dei suoi numerosissimi clienti e sostenitori, ci disse che aveva subito trovato sulla scrivania a Roma il nostro telex con l’invito ad interessarsi; ci rimproverò perché non avevamo contattato la sua Segreteria a Foggia; ci informò che aveva investito del nostro caso una grossa multinazionale inglese che era interessata, molto interessata, al nostro Stabilimento; ci assicurò che, in breve tempo la questione si sarebbe risolta positivamente; ci avvisò che il Sindaco Magno, strepitando e gridando, faceva solo chiasso e nient’altro.
Ripresi anche i contatti con gli amici funzionari di banca, apprendendo che i conti correnti in rosso ed i conti relativi alle anticipazioni all’esportazione, erano stati chiusi e saldati tramite The Bank of Tokyo di Milano. Era quindi arrivato il milione di dollari e il Rag. Fraschetti aveva provveduto direttamente da Milano a gestirlo.
Ma uno di questi funzionari bancari mi disse anche che era stato contattato dagli emissari della ICI inglese, alla ricerca di informazioni, o meglio di assicurazioni, sulla nostra passata vita produttiva e commerciale.
Questo funzionario, naturalmente in maniera molto riservata, promise di tenermi informato sulle trattative tra ICI ed i nostri giapponesi, promessa mantenuta, quando mi raccontò dell’andamento deludente e negativo dell’incontro.
Stanco di menar il can per l’aia, in una telefonata notturna con Yamada posi la domanda precisa sull’andamento delle trattative, ma quello mi rispose che non ne sapeva niente in quanto non era suo compito: -«It’s not my job!» -
Era una colossale bugia perché la sua presenza, al fianco dell’Amministratore Delegato, era normale e costante, altrimenti non si capiva cosa fosse tornato a fare. Mi arrabbiai e ne uscii:
- «Yamada-San! Non è suo compito solo perché non può vendere qualcosa che non ha! Adesso la fabbrica è sequestrata!» -
Questa frase fece arrabbiare Yamada che capì come io fossi informato della cosa e non gli avessi detto niente prima, come lui si aspettava, si rese conto insomma che, se io gli telefonavo, non era per informare lui, ma per essere informato io. A questo punto disse, in maniera piuttosto concitata, che la nostra scelta di chiedere il sequestro della fabbrica era stata una mossa sbagliata, e che eravamo stati consigliati male:
- «Chi ha consigliato voi di questo?» - chiese in italiano.
- «Non c’era bisogno di consiglieri!» - risposi io. - «E’ qualcosa che si fa sempre in questi casi. Ogni sindacalista lo sa! Anche il Dott. Cappuccio lo sa! E’ avvocato, deve saperlo! O no?» -
- «No! Lui non sapeva questo! Lui non ha previsto! Per questo ha pagato ed è stato “allontanato”» - pensai che avesse usato questo termine al posto di “cacciato via”.
Poi continuò: - «Dopo io ho studiato!» - era il suo solito modo per dire che aveva approfondito la cosa. - «Moltissimi casi simili e mai, mai è avvenuto questo ricorso al Giudice. Anyway, questa vostra scelta farà ritardare la soluzione del caso!» -
- «Quale soluzione? Di quale soluzione parla?» - chiesi subito, ma rimase in silenzio e la conversazione finì così.
Questa fu anche l’ultima delle mie telefonate solitarie fatte dal centralino e nelle ore della tarda serata, perché, durante la telefonata, notavo attraverso i vetri martellati, che, nel corridoio qualcuno andava avanti ed indietro. Quando terminai, il corridoio era pieno di fumo di sigarette, ma non c’era più nessuno.
Pensai che fosse qualcuno che avesse lo scopo di ascoltare la mia conversazione, ma di questo non me ne preoccupavo perché, per la maggior parte, avevo parlato in inglese. Solo dopo qualche tempo, un amico mi rivelò il nome della persona, confessandomi che gli aveva dato l’incarico di proteggere la mia incolumità: ma quella persona era anche uno dei guardaspalle del capetto.
Intanto, il nostro amico chimico, ex capo della produzione, manteneva i contatti con i tecnici della ICI inglese che, tuttavia, non ci fecero sapere, in un primo momento, il risultato dell’incontro avuto con i giapponesi, anche se avevamo saputo che non era stato positivo. Quando, finalmente, ristabilì i contatti gli dissero soltanto:
- «Non c’è stata alcuna trattativa! Non può esserci trattativa con qualcuno che non vuole vendere! Perché chi vuole vendere, di norma, mostra la propria mercanzia! O no?» -
Il pesce surgelato.
Si avvicinava il termine dei trenta giorni fissati dal Pretore per l’udienza. In fabbrica si continuavano a tenere lunghe e affollate assemblee nel locale della mensa, con la partecipazione dei vari sindacalisti provinciali e regionali e qualche uomo politico locale; c’era stato l’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Manfredonia.
Durante una di queste assemblee di fabbrica, arrivò improvvisamente la voce che i giapponesi stavano trattando con una società che voleva comprare lo stabilimento. La voce fu subito accolta con gioia ed enfasi da qualcuno, mentre quel tipo del Consiglio di Fabbrica, quel sindacalista psiuppino, era il più informato della cosa ed il depositario e terminale delle notizie che riguardavano tutti noi, ed era sempre circondato dai suoi bravi sostenitori.
Finalmente, sempre dal solito bene informato, si venne a sapere che lo stabilimento sarebbe stato acquistato da una Società romana per farne una fabbrica di surgelati, e si seppe anche il nome di questa società.
Il giorno dell’udienza la proprietà giapponese, tramite il proprio avvocato, un luminare milanese di alto grido sceso, bontà sua, fino a Manfredonia, rese ufficiale questa notizia, affermò che le trattative erano a buon punto, che a breve termine si sarebbe valutata l’offerta ed il piano industriale di investimento e produzione che, secondo le condizioni dettate dai giapponesi, doveva prevedere il pieno impiego di tutta la manodopera.
Il Pretore non poté fare a meno che prendere atto dell’offerta e, auspicando una sollecita conclusione della vertenza, rigettò il ricorso e annullò il sequestro conservativo. Il Sindaco Magno prese l’impegno che avrebbe seguito personalmente, al fianco dei sindacalisti, le trattative ed il piano industriale.
Infatti, dopo qualche giorno, si fissò l’incontro a Bari, presso la sede della Regione Puglia, e si invitarono assessori regionali, provinciali e comunali, sindaci e sindacalisti, mancavano solo le autorità religiose e militari e la banda municipale.
Non appena saputo il nome della Società, chiesi al mio amico funzionario di banca di fornirmi informazioni sulla stessa ed il Bilancio, se l’avesse depositato, come di norma si faceva e si fa. Non c’era ancora il fax, ed il Bilancio e tutte le informazioni mi furono spedite con plico postale a casa mia.
In attesa dell’incontro e del bilancio, parlando tra di noi impiegati, si considerava che, normalmente, qualsiasi industriale che sta per investire i suoi soldi in una nuova iniziativa, preferisce mostrarsi in casa propria, cioè presso l’associazione degli industriali, oppure in un salone d’albergo a pagamento, a proprie spese: questa esposizione in un luogo politico e istituzionale, ci suonava come una mossa esclusivamente politica, con altri fini anziché quello di investire.
Lo stesso giorno dell’incontro a Bari, arrivò a casa mia il plico con il Bilancio della Società “Generale Investimenti” romana.
Era stata fondata ad ottobre del 1976 con un capitale sociale di 200 milioni di lire e, come prima operazione, aveva effettuato un “investimento” di 90 milioni per l’acquisto di un “appartamento” a Roma, a Via dei Parioli, il cui valore, all’epoca e in quella strada, poteva riferirsi ad un abbaino o un sottoscala.
Al pomeriggio, ritornarono da Bari i nostri sindacalisti con il piano industriale di investimento e ristrutturazione dello stabilimento ai fini della trasformazione nella produzione di alimenti surgelati, con prevalenza del pesce e, tra questo, specificatamente del pesce azzurro.
Il “piano” era un dattiloscritto di circa duecento pagine, dove le prime trenta pagine raccontavano la vicenda della fabbrica; in circa cento pagine era spiegato come ristrutturare il locale “mensa” per farne aule destinate alla formazione di tutto il personale; circa cinquanta pagine spiegavano i programmi di studio per la riqualificazione (o dequalificazione?) degli operai.
Le ultime venti-venticinque pagine raccontavano come si surgela il pesce azzurro, come si sarebbe venduto tale “prodotto”, come si sarebbe proceduto alla “trasformazione” dei reparti produttivi, mentre i “servizi generali” esistenti, sarebbero stati utilizzati dalla nuova produzione. Nessun “business plan” che spiegasse costi, ricavi, investimenti e capacità produttiva.
All’epoca, e da parecchi mesi, ispirata da qualche “santone” che voleva risolvere “tutti” i problemi dell’economia italiana, quasi tutti i giorni si leggeva sulla stampa della bontà del pesce azzurro su tutto il resto del pescato, dei suoi contenuti proteici, del costo molto ridotto e del fatto che fosse una vera “ricchezza” dei nostri mari: tutte cose vere e condivisibili.
Ma, ad oggi, non ho notizia che, in qualche parte del mondo, vi sia, o vi sia mai stata, una fabbrica per surgelare il pesce azzurro, anche se puntualmente, e ricorrentemente, ritorna sulla stampa, specie in estate, l’idea di valorizzare il pesce azzurro.
La “soluzione”
Dopo l’incontro a Bari, alla Regione Puglia, tutti i sindacalisti ed il Sindaco di Manfredonia considerarono la nostra vicenda praticamente conclusa e con esito positivo.
Anche il corrispondente locale de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, che ancora non firmava col proprio nome, non essendo iscritto all’Ordine dei Giornalisti, che fino ad allora non si era mai dimostrato “schierato” a fianco dei lavoratori, strombazzava ogni giorno la felice risoluzione della nostra vicenda, citando sempre, con nome e cognome, il “nostro benefattore”, l’acquirente che aveva presentato al Sindaco il famigerato “Piano”.
Non così la pensavano tutti i dipendenti, men che meno noi impiegati che avevamo sviscerato il Bilancio della Società acquirente, che avevamo studiato il cosiddetto “Piano” industriale, non trovandoci niente di veramente industriale.
A questo punto le Assemblee di fabbrica, nel locale della mensa aziendale, divennero un vero e proprio happening-show, con il capetto che, ormai apertamente, invitava gli indecisi a schierarsi al suo fianco per avere un sicuro posto di lavoro nella “nuova” fabbrica di surgelati e, quel che più conta, trovando proseliti.
Purtroppo, alle nostre titubanze ed ai nostri dubbi, qualcuno della controparte, ispirato o suggerito dall’ineffabile neo-sindacalista, se ne uscì con una battuta:
- «Gli impiegati non accettano questa Società perché, a loro, sarà destinata la mansione di “tagliare la testa dei pesci da surgelare” e non la gradiscono!» -
Purtroppo, ripeto, questa battuta, e non riesco a spiegarmi ancora oggi il perché, fu in un certo senso accettata come “credibile” da parte di molti dei nostri operai.
Quando qualcuno degli impiegati predicava che non c’erano effettive garanzie sulla prosecuzione dell’attività dell’azienda, che non c’erano precise assicurazioni sul mantenimento del livello occupazionale, quando si diceva che il nostro stabilimento era tecnologicamente avanzato e che, per la surgelazione, nessun macchinario esistente sarebbe stato utilizzato, mentre, anche gli impianti dei “servizi”, erano sovradimensionati rispetto alle esigenze, ad un certo punto, c’era sempre qualcuno che se ne usciva con quella battuta, diventata un vero tormentone, e la conversazione finiva, tra sberleffi e ammiccamenti.
A nessuno veniva in mente che gli impiegati erano gente laureata e diplomata, tutti con una esperienza qualificante che nessuno mai avrebbe tentato di umiliare, neanche per soddisfare il livore e l’odio di qualche “mosca cocchiera”, ignorante e presuntuosa.
Approfittando sempre della mia “confidenza” con i miei amici operai, io cercavo di colloquiare con loro, mentre, il più delle volte, erano loro stessi che mi cercavano per discorrere, per essere rassicurati sulla soluzione che si prospettava e che io ritenevo assolutamente improponibile.
Un giorno, mi fu chiesto se fossi disponibile a parlare con i membri del Comitato per fornire alcune spiegazioni ed esprimere il mio punto di vista. Accettai e mi presentai al Comitato riunito al completo, con qualche membro in più, nel senso che era stato ammesso a parteciparvi qualcuno di quelli che “urlavano” di più e più forte nelle Assemblee.
Le prime domande mi furono poste dall’amico Collicelli, con il quale avevo un colloquio continuo e sempre aperto e franco, per cui iniziai ben disposto e tentai di spiegare tutto quello che pensavo della “nuova” fabbrica ma, soprattutto, soffermandomi a demolire il cosiddetto “Piano di investimento e industrializzazione” nonché il Bilancio della nuova Società.
Conoscevo perfettamente, e da lungo tempo, tutti i presenti, e mi ritenevo in grado di valutare esattamente le potenzialità di apprendimento ed espressione di ciascuno di loro, per cui, quando qualcuno mi rivolse delle domande con parole che non potevano far parte del proprio lessico, cominciai ad innervosirmi e sempre più, anziché rispondere con calma, attaccavo e sentenziavo, finché mi alzai e me ne andai, non prima di aver detto: - «Ero venuto per spiegare il mio pensiero, non per essere giudicato da voi! Qui dentro, non c’è nessuno all’altezza di poter giudicare se quel che dico è vero o falso. E poi, non me ne frega niente di convincere qualcuno! Vedo che non avete capito: la Fabbrica è morta e noi siamo tutti disoccupati! Perciò, “si salvi chi può”, ognuno si cerchi un posto di lavoro per conto proprio!» -
In pratica, feci un sol fascio di amici e nemici e di questo mi pentii subito, anche se, per il resto della vicenda, mantenni il mio atteggiamento di indipendenza. Solo dopo qualche tempo realizzai che era stato troppo facile, per i miei nemici, farmi tacere innervosendomi.
Tuttavia non potei fare a meno di continuare il mio colloquio con quelli che erano gli amici operai più sinceri. Loro mi assicuravano che, in ogni caso, avrebbero vegliato sulle reali intenzioni dell’acquirente, ponendo precise e rassicuranti condizioni all’ingresso in fabbrica del “nuovo” padrone. I colleghi impiegati, invece, parlavano delle aziende potenzialmente interessate a rilevare la fabbrica per la produzione di nuovi prodotti dietetici.
Poi, per motivi di necessità famigliare, dovetti abbandonare per un lungo periodo l’occupazione di fabbrica per assistere la mia famiglia e, addirittura, mi trasferii in un altro paese per essere vicino all’Ospedale in cui avevo ricoverata la nuova nata. La lontananza mi consentì di riflettere su tutta la vicenda e, nello stesso tempo, di rivedere il tutto con occhio esterno.
Ritornai in fabbrica dopo quasi un mese e, ritornando a parlare con i colleghi impiegati e con gli amici operai, mi accorsi che tutti, ma proprio tutti, ripetevano le stesse cose, gli stessi concetti che avevo ascoltato prima di andar via, ed a volte con le stesse parole e con le stesse frasi.
Ne rimasi scioccato e turbato, trovandoci ulteriori motivi di riflessione per cercare di capire le ragioni di questo che mi sembrò subito un vero stato di ”alienazione mentale”, preoccupante, se non avessi conosciuto quelle stesse persone prima della causa.
Ero tornato anche perché convocato per telegramma dalla Direzione, per prendere servizio dopo il Ferragosto e la cosa che mi colpì fu che, una volta terminata la occupazione di fabbrica, sotto gli ordini e le disposizioni del “capetto”, la palazzina uffici era stata sgomberata ed un gruppo di operai stava provvedendo alle “pulizie” nelle varie stanze.
Per un motivo di ritegno o di pudore non ne parlai a tutti del telegramma, ma solo ad un mio caro e valido collaboratore che, da parte sua, mi informò di essere stato convocato anche lui insieme a qualcun altro che mi indicò.
Ed infatti, il giorno stabilito, rientrai in fabbrica accolto dal Rag. Fraschetti che, da parte sua, aveva già fatto intervenire l’impresa per la pulizia e la disinfestazione dei locali e dei servizi igienici.
- «L’altro giorno ci ha pensato il vostro “collaboratore”, con tutto il suo entourage di “bravi” supporters!» - dissi a Fraschetti, con la mia solita diplomazia da elefante. Non volli farmi mancare la battuta, anche per saggiare il rapporto tra lui e quel capetto che, sapevo, non era molto ben visto e considerato dal bravo anziano Ragioniere. Lui mosse solo una spalla, senza parlare.
Fraschetti mi comunicò che aveva ormai la firma sociale per le operazioni bancarie, che nostro compito era quello di aggiornare le scritture contabili con le operazioni che lui aveva effettuato direttamente dall’ufficio di Milano di cui ci consegnò gli appunti. Aveva incassato il finanziamento dalla Deutsche Ajinomoto di Amburgo ed aveva provveduto a chiudere i conti di anticipazione ed i conti bancari in passivo; aveva pagato quei fornitori che avevano intrapreso azioni legali.
Io avrei dovuto pagare tutti gli altri fornitori in attesa, nonché gli stipendi ed i salari del mese di maggio rimasti in sospeso di tutto il personale, e poi, di seguito, quelli di giugno, luglio e agosto, ma questi ultimi solo ai pochi richiamati in servizio.
Il richiamo in fabbrica aveva interessato tutto l’Ufficio della contabilità e paghe e qualche impiegato tecnico per la messa in sicurezza degli impianti. Rimasero fuori alcuni impiegati amministrativi, e quasi tutti i tecnici: si creò un nuovo partito, odiato ed ingiuriato da questi colleghi rimasti fuori.
Quando qualcuno dei miei collaboratori, specie le ragazze, mi chiedeva le ragioni di questo odio e avversione nei nostri confronti, io raccontavo loro dello choc provato ascoltando, dopo circa un mese, le stesse parole da gente che amavo e stimavo.
Spiegavo il tutto con il fatto che, con l’inedia, con il pensiero fisso rivolto sempre e solo verso qualcosa che non si può controllare o modificare, si crea una specie di alienazione mentale o, comunque, uno stadio di disagio che non permette di ragionare sulle cose e vederle nel loro giusto angolo visuale.
- «Del resto,» - facevo notare: - «provate a mettervi nei panni di un capo famiglia che, tutti i giorni, ritorna a casa e sa che i suoi cari aspettano da lui una parola di speranza, una notizia che lui non può dare! Poi deve raccontare che alcuni sono stati richiamati in servizio! Che questi riceveranno lo stipendio e lui no! Vallo a spiegare alla moglie che deve fare la spesa, che quelli fanno un lavoro diverso dal suo!» -
Terminai tutti i compiti affidatimi, mentre, in contemporanea mi detti da fare per trovare altri sbocchi occupazionali, avendo occasione di vagliare molte offerte, in attesa che arrivassero a buon fine le promesse fattemi dagli amici del Gruppo EFIM.
In pratica, la gran parte del tempo, in quei ultimi giorni di “servizio” presso l’Ajinomoto, la trascorsi occupandomi di scrivere e rispondere agli annunci economici dei giornali per la ricerca di personale, in compagnia di qualche altro collega, forestiero, anche perché, dopo aver pagato i fornitori ed aver aggiornato la contabilità, non c’era molto altro da fare, se non gestire il personale in servizio, ma in maniera molto blanda.
Infatti, un sabato pomeriggio, dopo aver convocato tutto il personale in servizio, venne di corsa il Rag. Fraschetti a Manfredonia per prendere le consegne e salutarmi con una breve cerimonia di saluto. Quando comunicò ai presenti che, d’ora in poi, con le mie dimissioni, il responsabile di stabilimento diventava il mio sostituto, quella delle ragazze che aspirava al mio posto, se ne uscì, ad alta voce:
- «Ah! Perché, era lui fino ad ora il Responsabile?» -
Al buon Fraschetti consegnai anche le chiavi della cassaforte, il cui contenuto era esattamente quello che lui ci aveva lasciato qualche tempo prima, più tutti i libri e registri contabili vidimati, e questo avvenne il 7 novembre 1977, mentre si discuteva ancora, in tutte le sedi, di quello che doveva essere il futuro della fabbrica sul quale, però, non ho niente da dire perché avvenuto appunto dopo la mia uscita e, quindi, dovrei basarmi su notizie riferitemi da altri, molto spesso inesatte e contrastanti tra loro.
Con l’Avvocato acquirente della fabbrica non ho mai avuto a che fare, almeno fino a pochi anni fa, ma per altri interessi e per altri miei impegni di lavoro.
Le considerazioni
La “fuga” dei giapponesi è stata una sconfitta! Una sconfitta per le maestranze che, anziché restare unite, si sono comportati, né più né meno, che come i galli di Renzo, beccandosi tra loro. E tra i galli mi ci metto anch’io. E’ stata una sconfitta per il Sindacato, che ha perso una buona fonte di occupazione per le maestranze perché hanno lasciato a combattere, tutto solo, il Segretario Provinciale CISL, concentrandosi tutti per la conquista di proseliti all’interno dell’ANIC, anch’essa industria chimica, poi diventata ENICHEM.
E’ stata una sconfitta per il paese, anche se non si può scaricare la responsabilità ad alcuno: il Sindaco e tutti i politici, avevano poco da fare per far recedere dalla decisione i giapponesi. Solo un appunto si potrebbe fare al Sindaco, perché sia lui sia i suoi collaboratori, assunsero come referente unico il sindacalista della CGIL, il “compare” del Direttore, ma tutto ciò era nell’ordine delle cose e non poteva essere altrimenti.
E’ stata una sonora sconfitta per le Partecipazioni Statali che si sono completamente disinteressati della fabbrica ma, e non può essere una scusante, c’è da precisare che un po’ tutte le fabbrichette delle P.S., in quel periodo, facevano la stessa fine.
Durante il mio ultimo periodo di lavoro in fabbrica, venni per caso a sapere che, da parte di qualcuno, forse il Segretario CISL Pasquale Lauriola, era stata avanzata l’ipotesi di un “acquisto” della fabbrica da parte della ENICHEM, il ché, alla luce di quanto avvenuto in seguito, sarebbe stata la soluzione migliore per tutti, compreso la fabbrica ENI, visto la fine ingloriosa riservata poi alla stessa. Una possibilità di sviluppo e sopravvivenza poteva essere quella di sviluppare i brevetti e le scoperte giapponesi in area chimica, come è poi stato fatto in Francia.
Ma una trattativa del genere non poteva essere avanzata a Manfredonia e dai nostri sindacalisti, anche perché ogni valutazione in loco si basava sulla “dimensione” o, per meglio dire, sul diverso ingombro apparente delle due fabbriche.
Volendo confrontare invece le due realtà, bisogna considerare che la “piccola”, l’Ajinomoto, era una proprietà privata e quindi ridotta all’essenziale e nascondeva i suoi gioielli agli sguardi esterni, anche se, con la sua modularità, prevedeva a priori le possibilità di ingrandimento. Mentre l’ANIC, proseguendo nella politica iniziata da Enrico Mattei, doveva essenzialmente soddisfare una esigenza “politica” e quindi essere ampia, mastodontica e “visibile”, anche di notte. Il “privato” occupava il giusto numero di addetti, il “politico” largheggiava e scialava.
L’ANIC o ENICHEM, già all’atto della sua costruzione, era uno stabilimento senza futuro in quanto si sapeva che quelle produzioni era meglio ubicarle nei paesi del terzo mondo, cosa che, infatti, l’ENI incominciò a fare subito dopo averne ultimata la costruzione a Manfredonia. Ma, tutto questo, ormai, rimane un discorso meramente accademico.
A questo proposito, mi viene a mente l’incontro avuto con un grande e “vecchio” Agente marittimo di Bari. Per l’importazione di uno degli ultimi “lotti” di melasso di barbabietola francese, ci appoggiammo, per le pratiche doganali, ad uno dei più grandi e antichi Agenti Marittimi baresi presso il quale portai io stesso i documenti per la regolarizzazione, dopo averli fatti firmare a Barletta dal dott. Cipiani.
Mentre attendevo che si completassero gli adempimenti e la documentazione, i due titolari dell’Agenzia, padre e figlio, per intrattenermi, vollero presentarmi il proprio anziano genitore e nonno, ultranovantenne, già figlio del fondatore dell’Agenzia e della dinastia. Fui presentato come “il Direttore della Fabbrica giapponese di Manfredonia” e la mia provenienza entusiasmò il vegliardo, che volle informarmi come lui amasse particolarmente Manfredonia per averla visitata, per la prima volta, in tenera età insieme al genitore che, in seguito, non mancava di riportarlo ogni volta che ne aveva l’occasione per lavoro.
Poi mi disse: - «Mio padre mi diceva sempre che se Manfredonia avesse il Porto, quello di Bari sarebbe morto!» - In particolare quest’ultima frase me la disse prima in dialetto barese e poi in italiano, poi continuò: - «Vedi, mi disse mio padre, questo paese ha tutto quello che manca a Bari per viverci meglio, ma fu fondato dal Re Manfredi, che era uno che faceva solo cose in grande, ma che, essendo stato scomunicato dal Papa, non solo non ha potuto vedere le sue opere completate, ma ha avuto tutte le sue grandi iniziative finite male!» -
E ancora: - «Quando io gli chiesi perché a Manfredonia non c’era il Porto, lui mi rispose: Perché, per fortuna nostra, a Manfredonia ci sono molti manfredoniani! Io ero piccolo allora e non compresi la spiegazione. L’ho capita dopo, quando negli anni si parlava, si parlava e il porto, a Manfredonia, non si riusciva mai a farlo! Ora, mi dicono che si è fatto finalmente il porto e sono venute le prime fabbriche! Sono contento, sono proprio contento!» -
Quando uscimmo dall’Ufficio del vecchio, volli spiegare ai miei ospiti che, sicuramente, il vegliardo aveva capito che io provenissi dall’ENICHEM, non avendo ben inteso la parola “giapponese”, ma che, comunque:
- «E’ stato veramente, per me, un incontro interessante ed istruttivo, oltre che piacevole. Condivido e sono d’accordo su tutte le parole che ha detto, specie perché io sono un autentico e verace “Manfredoniano”!» - e questo non lo avevano capito neanche loro!
Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti