Il Marketing
Con gli investimenti finanziati a tassi molto agevolati, con i contributi a fondo perduto, con i salari più bassi, usufruendo inoltre degli sgravi contributivi per il meridione, i nostri amici giapponesi poterono attuare una politica agguerrita per piazzare il nostro glutammato, mantenendo i prezzi bassi sia per trovare compratori, sia per mandare fuori mercato il prodotto concorrente.
Questa “politica” fu, in un certo senso, premiante per i primi anni, perché ottenne i risultati programmati. La Società riuscì a seguire la stessa politica anche quando i salari furono elevati con i passaggi di livello.
Ricordo che in certi periodi, col grande magazzino completamente vuoto, l’autotreno lasciava il rimorchio in magazzino, fissandolo all’ingresso del reparto confezionamento e, man mano che si riempiva il sacco e veniva impilato sulla pedana, il carrello inforcava la stessa pedana e la caricava sul rimorchio, questo perché la produzione non riusciva a soddisfare pienamente le vendite ed i magazzini erano perennemente vuoti
Infatti il mercato “tirava” sufficientemente, anche se non si riusciva ad alzare il prezzo del prodotto per renderlo maggiormente remunerativo.
Per i primi anni c’erano due uffici commerciali impegnati nella vendita, uno a Roma, guidato dal mio vecchio amico dott. Yamada, quello che, quando stavo a Roma, veniva a mangiare alla mensa insieme a noi, l’altro, più attivo, dove aveva il proprio ufficio anche l’Amministratore Delegato, era a Milano presso il quale lavoravano come dipendenti due venditori italiani, uno che curava i piccoli clienti, e l’altro, un laureato amico di famiglia del Presidente, che girava praticamente tutta l’Europa.
Ma l’ufficio commerciale più importante che vendeva la maggior parte del nostro prodotto era la Deutsche Ajinomoto di Amburgo, in Germania, anche se tutti i suoi ordini passavano sempre per l’ufficio di Milano.
Avevamo molti importanti clienti industriali in tutta l’Europa del nord e clienti che fungevano da veri e propri grossisti su tutte le “piazze” più prestigiose. Un cliente grossista olandese, molto importante, era quello che, tra l’altro, acquistava con consegna su di un treno merci a Trieste, treno destinato, con duecento tonnellate di glutammato, oltre la “cortina di ferro”.
Vi erano poi molti TIR tedeschi, olandesi e belgi che, facendo il carico “di ritorno” dal sud Italia, dalla Turchia o dalla Grecia, traghettavano a Brindisi e venivano a caricare direttamente in fabbrica. Pochi erano i clienti francesi.
L’ufficio di Roma tentò in tutti i modi di creare un mercato “al dettaglio” per la vendita di glutammato direttamente ai consumatori, naturalmente in vasetti da 12 o 24 grammi, da mettere sulla tavola insieme al sale e pepe, proponendolo a grossisti e supermercati, ma il tentativo non ebbe successo e, anche per questo, fu poi chiuso l’Ufficio di Roma e Yamada tornò in Giappone.
L’ufficio di Milano vendeva a tutte le più importanti industrie alimentari del Lombardo-Veneto e del nord in genere, piccole, medie e grandi, oltre che alla Star e alla Knorr.
Quando si ritenne fosse arrivato il momento, si iniziò ad ingrandire i reparti produttivi, raddoppiando il numero dei fermentatori, portati a quattro, con tutto quello che serviva a valle del primo reparto, compreso l’assunzione di altri operai, ottenendo, naturalmente, altri contributi a fondo perduto, altri finanziamenti a tasso agevolato e gli ulteriori sgravi contributivi.
Vista la difficoltà di approvvigionamento del melasso, si raddoppiò anche il serbatoio di stoccaggio del melasso in fabbrica, costruendo, affianco al primo, un secondo gigantesco serbatoio, alto oltre venti metri. In verità ho sempre pensato che il secondo serbatoio fosse stato costruito anche per nascondere i nuovi fermentatori agli occhi degli estranei passanti per la strada nazionale.
Per affrontare questa fase tecnica, furono messi sotto contratto, a prestazione, un paio di anziani Ingegneri professionisti, mentre fu assunto, per l’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio, proveniente dalla Terninoss di Terni e, prima ancora, dalle Acciaierie di Giovinazzo, esperto quindi di prodotti metallurgici e di lavorazione siderurgica.
Fu anche assunta una coppia di coniugi, sempre provenienti da Terni, dove la moglie era una brava interprete e affiancò il nuovo direttore giapponese, fornito della firma sociale, che poi fu quello che rimase fino alla fine della storia ma che, in breve, come tutti i giapponesi, imparò molto presto l’italiano.
Si dimostrò, invece, molto ostico nell’apprendere l’italiano il nuovo e terzo Amministratore Delegato, anche lui rimasto fino alla fine, nonostante le sue visite mensili, da Milano a Manfredonia, per “leggere”, non appena pronto, il Bilancio mensile e gli indicatori scaturiti.
Negli anni “migliori” si raggiunse un fatturato annuo di poco oltre i 10 miliardi di lire, di cui l’esportazione rappresentava quasi l’ottantacinque per cento. Il fatturato, e l’esportazione, ci classificava fra le aziende medio-grandi più importanti in Italia, anche se la dimensione esterna sembrava piccola.
Con il potenziamento dello stabilimento, la capacità produttiva ipotetica e programmata era di 900-1000 tonnellate al mese di prodotto finito, per un totale annuo di circa diecimila tonnellate. Ho detto ipotetica, perché quasi tutti i mesi si verificavano piccoli inconvenienti che non permettevano di raggiungere il massimo della produzione.
Nel corso di un’animata discussione sindacale con la Commissione Interna, alla presenza del Presidente Prof. Signora, a questi uscì, non sappiamo quanto spontanea, una frase che addebitava anche alle maestranze il mancato raggiungimento della massima capacità produttiva mensile. Qualcuno della Commissione accettò la sfida e lanciò l’idea della scommessa che entro sei mesi si sarebbe raggiunto la piena produttività per 900 tonnellate e il Presidente avrebbe pagato una cena per tutto il personale.
Nei mesi successivi gli operai, ed essenzialmente i Capi turno, furono i principali controllori affinché tutta la lavorazione procedesse nel migliore dei modi, mettendo in evidenza tutte le manchevolezze dell’organizzazione produttiva e, soprattutto, dei servizi di manutenzione.
Al quarto mese il massimo fu solo sfiorato, al quinto mese fu raggiunto e superato. E il Presidente partecipò alla cena con tutto il personale dipendente, operai, dirigenti ed impiegati, nonché quasi tutto il personale tecnico giapponese. La cena si svolse in due serate, distanti una quindicina di giorni, per non interrompere la produzione e per consentire a tutti di parteciparvi.
L’Amministrazione
Il mercato tirava, dunque, ma il prezzo non era remunerativo, almeno sufficiente a consentire di chiudere il Bilancio annuale in attivo. Posso forse sbagliarmi, ma credo che per tutto il periodo della vita della Società, solo uno dei primi anni si chiuse il Bilancio con un utile di un milione di lire, poi solo ed esclusivamente con piccole perdite di esercizio, non preoccupanti ma persistenti, tranne gli ultimi anni di crisi. Con il riporto delle perdite precedenti, non si versò mai alcuna tassa sul reddito all’Erario.
Lasciando mano libera alla INSUD sulla organizzazione della Contabilità Generale e fiscale, i giapponesi fecero le loro mirate richieste sulla organizzazione della Contabilità Industriale, quella, per intenderci, che mira al calcolo dei costi di produzione, alla determinazione del cosiddetto Margine Operativo e al controllo economico di gestione.
Anche in questo campo erano più avanti rispetto ai Ragionieri italiani, che chiamavamo all’epoca, quel tipo di rilevazione dei costi, “Sistema americano” oppure Conto Economico “a scalare” e che divenne di uso comune in Italia solo a partire dalla metà degli anni ’70.
Questo sistema prevedeva la redazione mensile di un vero e proprio Bilancio, appunto di stile “americano”, completo e dettagliato, con la rilevazione del margine operativo, analizzato e confrontato con il Budget preventivo annuale e del periodo, il ché presupponeva, a monte, che i dati raccolti, rilevati e assemblati, fossero completi ed esatti, oltre che omogenei per il raffronto col Budget.
Naturalmente, oltre al personale per la rilevazione e l’elaborazione del “reporting”, occorreva tutta una organizzazione per l’assemblaggio, la scritturazione (a macchina), le fotocopie e la fascicolazione dei prospetti, e questo, secondo i contabili italiani, era tutto uno spreco di risorse, anche perché, è evidente, se il reporting viene completato entro un certo termine, può permettere interventi rettificativi, altrimenti è inutile: noi, dal primo anno di inizio della produzione, il 1966, facevamo un bilancio ogni quindici del mese, con in evidenza gli eventuali scostamenti dal budget.
Il quindici di novembre si valutava e si rettificava, eventualmente, il budget annuale e si prevedeva il consuntivo dell’anno in corso: in questa sede si prevedeva il risultato d’esercizio, la perdita o l’utile e, nel caso, si poteva decidere se intervenire per chiuderlo poi a dicembre in perdita o con utili, scegliendo e valutando gli accorgimenti per raggiungere quanto deciso. Normalmente, si sa, le scelte e gli aggiustamenti si valutano in sede di chiusura del Bilancio civile, a marzo o aprile dell’anno successivo, scegliendo quelle regole elusive, più o meno legali, che, però, nella maggior parte dei casi, prima o poi vengono di nuovo al pettine negli anni successivi.
Nel nostro caso, invece, era una vera e propria scelta operativa e, quindi, inattaccabile sotto ogni punto di vista, bastava, ad esempio, far partire la merce per Trieste il 28 dicembre oppure il 3 gennaio dell'anno successivo.
Avevamo poi la Fattura annuale di spesa per le provvigioni di vendita alla Deutsche Ajinomoto di Amburgo. C’era un vero e proprio contratto di rappresentanza, per cui quasi tutte le vendite all’estero erano disposte da Amburgo che, molto spesso, ci segnalava anche le date d’arrivo del TIR.
Su queste vendite, da Amburgo partiva la fattura per l’addebito delle provvigioni di intermediazione, che venivano da noi pagate periodicamente, Ma non sempre le provvigioni erano calcolate su “tutta” la merce esportata e per lo stesso tasso percentuale: c’erano naturalmente delle variazioni ma i criteri di tutto ciò erano decisi tra loro, tra giapponesi: noi dovevamo soltanto pagare.
Spesso alcuni carichi di merce venivano fatturate direttamente alla casa di Amburgo, per cui si creava un vero e proprio rapporto di conto corrente con “Dare” e “Avere”. Ma il rapporto economico con i giapponesi non si esauriva con provvigioni e forniture.
Il personale giapponese che lavorava in Italia era retribuito dalla casa madre giapponese che, mensilmente, ci addebitava il costo relativo con una notula che richiedeva il pagamento, indicando solo l’ammontare totale e complessivo del conto da pagare. L’elenco nominativo di questo personale, e forse anche il costo individuale, era nelle mani del Direttore giapponese o dell’Amministratore Delegato, sempre giapponese, senza escludere che, a richiesta, potesse essere mostrato al socio italiano, la INSUD che, secondo me, per parecchio tempo, specie all’inizio, se ne disinteressò “elegantemente”.
Sempre i giapponesi decidevano il numero e le persone da impiegare in Italia, mentre, mensilmente si provvedeva a pagare la fattura di addebito. In tanti anni, il personale tecnico cambiò molto spesso, con veloci turnover, almeno a livello di aiutanti o vice-capi, un po’ meno per i chimici Capo Reparto e per gli Amministratori.
Non ci voleva molto per capire che la nostra fabbrica era, per i giapponesi, una vera e propria palestra per allenare i propri tecnici. La controprova a questa asserzione è che, in due o tre casi, i giovani tecnici, a distanza di qualche anno, tornavano a Manfredonia e, dagli inchini che ricevevano, si capiva che era cambiata la loro posizione gerarchica nell’azienda, in meglio.
Del resto, dobbiamo pensare che, se il Giappone era sconosciuto e strano per noi, altrettanto era il mondo occidentale per loro, con la differenza che “loro” si spostavano e cercavano di conoscerci.
Naturalmente c’era una ragione per tutto questo, ma a noi, all’epoca, era sconosciuta o, comunque, non importava più di tanto. La cosa più importante era che, quando le Perdite annuali si accumulavano e raggiungevano la misura di un terzo del Capitale Sociale della Società, gli Amministratori richiamavano i Soci ad effettuare versamenti in contanti per coprire le stesse perdite.
Il Gioiello
I Chimici italiani che avevano costruito lo stabilimento, una volta partiti, non furono subito sostituiti da altri ma dagli stessi tecnici giapponesi, solo dopo qualche tempo fu assunto un chimico laureato cui fu affidata, nominalmente, la funzione di Capo della Produzione, anche per affibbiare la responsabilità civile e penale ad un cittadino italiano, considerato che i tecnici giapponesi erano, nominalmente, solo dei “consulenti”.
Sui Reparti rimase qualcuno dei Periti Agrari che svolgeva la funzione di Vice ma che, in pratica, eseguiva le istruzioni dei tecnici giapponesi. Dove occorreva, divennero vice capi un paio di Periti chimici provenienti dal Laboratorio, sostituiti da altri Periti chimici. Con calma, col tempo, furono assunti giovani laureati in chimica alle prime armi.
In verità, come mi avevano spiegato i tecnici a Roma, la fabbrica era una vera novità per l’Europa, sia sotto il profilo del processo di produzione, sia per le soluzioni tecniche adottate, anche nei servizi tecnici industriali, come, per esempio, il sistema di lavorazione dei rifiuti e degli scarti di lavorazione, che non danneggiavano in alcun modo l’ambiente.
Gli scarti venivano prima letteralmente prosciugati, separando l’acqua dalle altre sostanze concrete, poi separatamente, l’acqua e le cosiddette farine, venivano rese completamente "inerti”, cioè non contenevano più alcuna delle sostanze organiche da cui provenivano, infatti si buttava via acqua demineralizzata ed una specie di terra inerte e non dannosa, filtrata per togliervi qualsiasi traccia biologica del “batterio”. Questa terra diventava abbastanza puzzolente dopo qualche tempo, dopo aver accolto, e fatto morire, altre sostanze organiche provenienti dall’ambiente circostante, come insetti o semi e foglie trasportati dal vento.
Lo scopo primario di questa che era una vera e propria “disinfestazione” dei rifiuti di lavorazione, era sempre quella maniacale volontà di proteggere i segreti del loro brevetto di lavorazione, quei batteri vivi, all’origine di tutta la lavorazione.
Un qualsiasi “trattamento” dei rifiuti nelle fabbriche chimiche italiane ed europee, all’epoca, non solo non era quasi mai effettuato, ma neppure previsto: al massimo si programmava o si fingeva di renderli “non pericolosi” per le persone.
In ogni caso, quindi, i giovani tecnici, chimici e non, avevano molto da imparare e da apprendere, anche sulla organizzazione e la gestione delle risorse umane. Solo che, una volta assunti, dopo aver conosciuto il proprio diretto superiore italiano, si accorgevano di avere altri superiori, e di nazionalità giapponese, non disposti ad insegnare loro alcunché.
La duplicazione dei capi creava qualche confusione nella mente dei vice e, mentre qualcuno non aveva remore a lavorare col capo giapponese, altri provvedevano a carpire quante più nozioni, anche dagli operai, prima di trovare altri sbocchi occupazionali, magari più appetibili anche per motivi logistici.
Infatti, molti tecnici furono convinti ad andare via dalle loro mogli che non ce la facevano a vivere in un “deserto”, per la mancanza di diversivi e divertimenti, specie d’inverno, ma soprattutto per la lontananza dalle proprie sedi di provenienza. Chi rimase fino alla fine, o proveniva da paesi vicini o aveva sposato in loco (effetto della famosa rucola di Siponto).
La motivazione più ricorrente dell’abbandono fu proprio quest’ultima, le difficoltà logistiche, ovvero la volontà della consorte ma, in amministrazione, non ci fu un vero e proprio esodo di massa, data la struttura agile ma, soprattutto, il fatto che, per la maggior parte, il personale amministrativo era di provenienza locale.
In ossequio ad un vago e non scritto principio di gestione manageriale, qualcuno, al principio, riteneva che, nei posti chiave, dovesse esserci solo ed esclusivamente personale di provenienza esterna a danno dell’indigeno. In un paio di casi, l’esterno si rivelò palesemente con una esperienza minore della nostra, oppure con nozioni e conoscenze insufficienti alla bisogna.
Con l’avvento del Dott. Italia, tutta l’organizzazione amministrativa era stata risistemata e il personale locale inquadrato nelle posizioni giuste, assumendo le responsabilità dei propri compiti, anche se non le retribuzioni. Con la malattia e l’assenza dall’Ufficio del Dott. Italia, tutta la struttura amministrativa fu, in un certo senso, collaudata e il risultato fu ottimo.
Questa fu la ragione per cui i giapponesi, in seguito, non consentirono molti cambiamenti di posizioni ma solo qualche piccolo avanzamento e, quindi, chi subentrò al Dr. Italia, trovò l’amministrazione già in ordine ed efficiente, introducendo solo qualche eventuale ritocco in miglioramento, diciamo così, non invasivo, creandosi anche in questo campo “un piccolo gioiello”.
Questa che potrebbe sembrare una mia vanteria è invece una realtà verificata e provata. Lo riconobbe la visita fiscale dell’Ufficio I.V.A. di Foggia, in una delle sue prime “uscite” dopo la Riforma Tributaria del 1974, chiudendo il proprio Verbale di verifica solo con sperticati elogi, riconoscendo la perfetta tenuta dei Registri e delle scritture, nonché il perfetto sistema di archiviazione dei documenti contabili.
A questo proposito vale ricordare come, prima ancora dell’entrata in vigore della Riforma Tributaria, i nostri amministrativi studiarono e approfondirono le leggi di Riforma in un corso organizzato a Milano, presso la Montecatini-Edison, come si chiamava allora, e tenuto dagli estensori e autori delle stesse leggi. Così come, ad ogni mia richiesta motivata, mi consentivano di partecipare a corsi e seminari per migliorare le conoscenze del mio lavoro, man mano che cambiavano le leggi ed i supporti meccanici a nostra disposizione.
Ricordo che all’inizio, quando ero l’unico addetto dell’Ufficio paghe e stipendi, usavo un sistema di sviluppo delle paghe molto manuale con l’utilizzo di una normale calcolatrice Olivetti, opportunamente modificata nel carrello.
Con il Dott. Italia, arrivò uno dei primi “elaboratori” meccanici, grosso e complicato, marca Burroughs, utilizzato anche per la Contabilità generale, che, però, si bloccava molto facilmente, naturalmente proprio quando lavorava elaborando le paghe.
Con Fraschetti, prendemmo uno dei primissimi elaboratori elettronici, un vero Computer Philips che si programmava ogni volta con le schede perforate, con gli archivi su schede a pista magnetica, ed anche con questo ci facevamo la contabilità e le paghe. Cipriani costrinse l’azienda che ci forniva il software ad istruire almeno due di noi a programmare l’elaboratore in maniera autonoma.
Noi che vivevamo dentro e operavamo in quella realtà, specie al principio, non ci rendevamo del tutto conto di questa “eccellenza” anche se, sempre più spesso, inviati e raccomandati dagli Ispettori EFIM, avevamo la “visita” di responsabili amministrativi provenienti da altre aziende del gruppo EFIM per studiare la nostra organizzazione e chiederci informazioni e consigli per risolvere i loro vari problemi amministrativi e logistici.
Proprio in virtù dei tanti riconoscimenti ufficiali, per un paio d’anni, noi quadri dell’Amministrazione, riuscimmo a farci concedere una specie di gratifica di Bilancio, un premio in danaro contante e non soggetto a tasse e contributi, prelevato da quei “fondi neri” dei vecchi interessi attivi che, depositati in libretti a risparmio, producevano e accumulavano ormai solo altri interessi attivi.
C’è da dire, a questo punto, che sia la INSUD che l’EFIM, a livello centrale, compilavano un bilancio annuale consolidato, nel senso che comprendeva tutte le aziende partecipate e, per fare ciò, avevano creato un Servizio Ispettivo proprio, che controllava la contabilità ed i bilanci, anche per consentire ai Sindaci, o Revisori dei Conti, di redigere in tutta sicurezza la relazione che accompagnava i nostri Bilanci civilistici.
Le visite degli ispettori avvenivano almeno quattro volte all’anno, specie i primi anni, poi almeno una volta, ma i contatti telefonici erano costanti, anche perché, mensilmente, si trasmettevano i Bilanci ed i prospetti statistici predisposti dallo stesso Servizio.
Quasi subito, gli Ispettori divennero i nostri migliori amici e promotori presso le altre aziende del Gruppo e, in qualche caso, furono anche coloro che invitarono i nostri colleghi ad accettare altre collocazioni, con trasferimenti che, naturalmente, rappresentavano promozioni e riconoscimenti.
Al termine della mia esperienza lavorativa nella Ajinomoto-INSUD, trovai impiego in altra azienda del gruppo EFIM e, in questa occasione, ebbi modo di confrontare l’organizzazione amministrativa di un’altra azienda e, volendo migliorarla, non avevo da fare altro che richiamare ed applicare le regole della mia precedente esperienza.
Mi spiegai anche le ragioni dello splendido rapporto di collaborazione con gli Ispettori EFIM: la nostra, era l’unica azienda che aveva sempre presentato i prospetti statistici al servizio Ispettivo nei termini previsti e compilati a dovere.
Forse, fu proprio questa realtà che convinse il Dott. Cipriani ad accettare di venire a fare il Direttore a Manfredonia, diventando tuttavia anche Amministratore della Società.
Non era più giovanissimo e rampante, non aveva niente da dimostrare al Gruppo sulla propria professionalità: il suo compito, ci riferì, era di capire quale fosse l’avvenire della partecipazione INSUD nella Società e cosa si potesse “cavare”, o guadagnare, dalla stessa.
Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti