martedì 18 maggio 2010

Storia della Ajinomoto-Insud a Manfredonia - I retroscena

Cap. IX – I RETROSCENA



Quello che non si sapeva

Tutto quello che ho raccontato finora sono avvenimenti vissuti direttamente oppure, se indirettamente, da me poi verificati ed accertati di persona. Devo adesso raccontare, necessariamente, fatti e notizie appresi dopo qualche anno dalla fine degli avvenimenti concernenti lo stabilimento, anche per dimostrare che, quelle nostre deduzioni non erano presunzioni gratuite, ma reali possibili evoluzioni.

Il caso ha voluto che, dopo la Ajinomoto-INSUD, sia stato assunto presso una fabbrica di alimenti surgelati situata nella zona industriale di Foggia, esattamente a cinquanta chilometri da Manfredonia, dove ci trovai l’amico Dott. Tavano. In verità, fu lui stesso che aveva segnalato il mio nome alla Direzione, mentre, dal 9 novembre 1977, lavoravo presso altra azienda privata, lontana da Manfredonia ma sempre in territorio pugliese.

Alla mia assunzione a Foggia, all’inizio del 1978, questa fabbrica, facente parte del gruppo SOPAL e, quindi della EFIM, era in completa ristrutturazione e rilancio, dopo un periodo di grave crisi finanziaria e produttiva. Durante il periodo di fermata degli impianti, per non sparire dal mercato, si era dato l’incarico ad altri stabilimenti di produrre con il marchio BRINA, fornendo involucri e astucci, intervenendo però con nostro personale incaricato nel controllo di qualità.

In uno stabilimento di nostri sub-fornitori, ebbi modo di conoscere un giovane e brillante ingegnere che, saputo della mia origine di Manfredonia, pose delle domande che destarono molta curiosità da parte mia e mi raccontò la sua vicenda.

C’era, quindi, questo giovane e brillante ingegnere, esperto di impianti e di fabbriche di surgelati che, un giorno, ricevette da Bari la telefonata di un noto avvocato, da lui conosciuto come acquisitore di aziende da “sdrenare”, come disse lui, e poi rivendere dopo aver guadagnato su tutto quanto fosse possibile guadagnare.

Questo avvocato lo invitava a trascorrere un week-end di lavoro a Bari, naturalmente ben retribuito e supportato. Conoscendo l’avvocato, il giovane ingegnere prese tutte le sue cose e, in auto, il giovedì notte era a Bari presso l’albergo in cui era atteso.

Al mattino del venerdì, l’avvocato gli presentò le proprie richieste: - «Devi farmi un progetto di investimento per la trasformazione di questa fabbrica, di cui ti fornisco una planimetria generale e qualche fotografia, in una fabbrica di surgelati, con la previsione di mantenere tutti i 230 dipendenti attualmente in forza. Hai 72 ore di tempo per prepararlo e tutto l’appoggio che ti serve, una dattilografa, il fotocopiatore, il telefono e la telescrivente dell’albergo, e tutto quant’altro ti serve: l’importante è che lunedì mattina, a qualsiasi costo, io devo presentare il tuo lavoro alla Regione Puglia, ai sindacati ed al Sindaco di quel paese.» -

Il giovane ingegnere si mise subito all’opera, penso dopo aver discusso del proprio adeguato compenso che, tuttavia, non fa parte della favoletta, e chiese qualche ulteriore informazione, non tralasciando, per onestà: - «Devo avvertirti che nella stessa zona, ad una cinquantina di chilometri, c’è già una fabbrica di surgelati ortofrutticoli che, però, è attualmente in una grave crisi e in ristrutturazione.» -

- «E tu non parlare di ortofrutticoli!» - gli rispose l’Avvocato, e proseguì: - «Anzi, siccome il paese è sul mare ed il Sindaco avrà tra i suoi elettori molti pescatori, tu parla di surgelare anche il pesce, così risolviamo i problemi della fabbrica e quelli dei pescatori! E poi, io ti ho chiesto un progetto di massima, mica ti ho detto che voglio costruirla sta’ fabbrica!» -

Ed infatti, lo scopo del racconto del giovane ed esperto ingegnere era appunto quello di sapere da me se, la presunta fabbrica per la surgelazione del pesce azzurro, fosse stata poi costruita, magari a sua insaputa.





Quello che si è saputo dopo.

In tutto il periodo della produzione della fabbrica a Manfredonia, abbiamo avuto pochissimi clienti francesi. L’ostacolo, naturalmente, non era la lingua ma lo sciovinismo dei francesi che preferiscono sempre e solo i prodotti nazionali.

Ed infatti, in Francia, c’era un colosso chimico produttore di zucchero e di glutammato che poneva molte barriere alla penetrazione del glutammato made in Manfredonia. Improvvisamente, all’inizio del 1976, esportammo del glutammato in Francia, prima una fornitura da parte del nostro grossista olandese, poi delle vendite dirette a mezzo TIR olandesi.

Dopo qualche anno dalla chiusura della fabbrica, avevo avuto sporadici contatti telefonici con quel venditore che girava l’Europa a vendere il glutammato, dipendente dell’Ufficio milanese e amico di famiglia del Presidente Prof. Signora. Era un bergamasco, autentico “leghista padano” ante litteram, nel senso che, per lui, già all’epoca, il sud incominciava dopo Bologna e lui, a sud, non ci andava molto volentieri.

Dopo qualche anno infatti, per la sua attività commerciale, mi delegò per alcune sue incombenze nel sud Italia, cui feci seguire la mia regolare fattura. E la cosa si ripeté per almeno due o tre volte e con reciproca soddisfazione. In una di queste occasioni, capitò di ritornare al ricordo dei tempi passati con i giapponesi e, ingenuamente, gli chiesi se avesse avuto altri rapporti dopo la fine dell’avventura della fabbrica di Manfredonia.

E lui mi rispose:

- «Ehi, baùscia! Ma davvero non l’hai ancora capito? Io non ho mai smesso di vendere glutammato Aji-no-moto in tutta l’Europa, solo che, adesso, è made in France e, lavorando in proprio, lo vendo e lo compro, anche ma per conto mio!» -

Il mio amico aveva messo su una società propria, per la rappresentanza, l’acquisto e la vendita di molti prodotti e additivi alimentari, tra cui appunto, il glutammato prodotto in Francia da una società paritetica, cioè al 50%, dei giapponesi con il principale concorrente francese dell’epoca di Manfredonia, la ORSAN.

Ma producevano insieme anche gli aminoacidi che poi rivendevano, in tutta Europa, come materie prime per fabbriche chimiche di medicinali e cosmetici, per le industrie alimentari e di surgelati, e gli affari andavano a gonfie vele, per i giapponesi, per i francesi e per il mio amico rappresentante.

Accertato che io, veramente, non avevo ancora capito niente, mi raccontò come i primi contatti tra i giapponesi ed i nuovi soci francesi si fossero avuti praticamente a metà del 1976, condotti da quel venditore giapponese dipendente da Amburgo e, per molto tempo, stanziale a Milano, che era riuscito, dopo molte insistenze, ad interessare i francesi.

Che una volta iniziata la discussione tecnica, era arrivato dal Giappone quel Dott. Okada che aveva, in un certo senso, avviato lo stabilimento di Manfredonia e che illustrò ai francesi le potenzialità complessive delle collaborazioni che si volevano realizzare (ecco perché, dopo le prime volte, non lo vedemmo più a Manfredonia).

Che, per stabilire i termini contrattuali per la collaborazione con la società francese, con l’intervento del Dott. Yamada e dell’Amministratore Delegato e con la consulenza di un grosso Studio Legale milanese, era stato previsto, nei patti para-sociali, come “conditio sine qua non”, la chiusura dello stabilimento di Manfredonia, prima della ultimazione e dell’entrata in funzione del costruendo stabilimento francese.

In pratica, i francesi accettarono di togliere dal mercato il glutammato di marca ORSAN solo con l’impegno dei giapponesi di chiudere Manfredonia, ciò per permettere al glutammato Aji-no-moto, made in France, e quindi della nuova società paritetica, di trovare il proprio campo libero sul mercato.

Infatti, sulla base di ricerche di mercato fatte singolarmente ma, in sostanza, coincidenti, all’epoca il surplus produttivo di glutammato in Europa era esattamente di 10 mila tonnellate annue, appunto quanto prodotto a Manfredonia. E’ inutile precisare che, dopo qualche mese dalla fermata degli impianti di Manfredonia, il prezzo del glutammato cominciò ad aumentare in continuazione.

Ma lo stabilimento del glutammato era solo il primo o il principale di un intero sistema di altre fabbriche satellitari che, sempre in compartecipazione tra i francesi ed i giapponesi (grazie anche all’adeguamento delle norme francesi alle leggi comunitarie), lavorando ed impiegando gli aminoacidi, producevano in proprio tutta la gamma di derivati come integratori alimentari, prodotti dietetici e farmaceutici, tutti ad alto valore aggiunto, oltre a fornire gli aminoacidi come materia prima per altri fabbricanti di simili prodotti, con la collaborazione anche della società di rappresentanza del mio amico.

Mi raccontò anche che i giapponesi erano andati in fibrillazione per l’inatteso intervento del Pretore, con il sequestro dello Stabilimento, rischiando di far saltare tutti gli accordi con i francesi, già in crisi per il ritardato inizio dell’occupazione di fabbrica rispetto al piano previsto dal Dott.Cappuccio e predisposto con la consulenza di un grande Studio Legale, ed infatti aveva fatto perdere le staffe a Yamada che, nel corso dell’ultima telefonata, mi aveva annunciato il ritardo della “soluzione”.

I giapponesi avevano, in un primo momento, deciso di “vendere” alla Società romana, per una cifra simbolica, una parte della loro Società con la cessione delle azioni, quindi senza alcuna soluzione di continuità del rapporto di lavoro, venendo a cambiare solo gli Azionisti. Intanto si preoccuparono subito di provvedere allo smantellamento e bonifica dell’area industriale sottoscrivendo, per questa operazione, formale impegno contrattuale con una società siderurgica bresciana. Poi, in seguito, sarebbero “usciti” dalla Società senza clamore, “all’inglese”.

L’intervento del Pretore costrinse a rivedere tutto il piano strategico e i giapponesi, per evitare altri imprevisti, non fidandosi più tanto dei collaboratori italiani scelti da loro stessi, anche per mantener fede alle dichiarazioni fatte al Pretore, decisero di liquidare e sciogliere la propria Società, di “svendere” gli immobili alla società acquirente, cedendo insieme il personale dipendente.

Per modificare i progetti, dovettero ottenere la nuova approvazione di Tokyo e, quindi, ammettere che c’erano stati degli imprevisti, cosa molto disdicevole per la carriera degli incaricati. Ma dovettero occuparsi di dar corso all’operazione più importante per la “casa madre” di Tokyo, lo smantellamento degli impianti, per cui “i nostri” giapponesi la realizzarono subito e direttamente, a propria cura ed a costo “zero”, lasciando all’impresa la disponibilità del materiale smontato.

In ogni caso, una volta finita la collaborazione con le Partecipazioni Statali, i giapponesi, forse anche prima, presero contatti con la ORSAN francese e, quindi, nessuno sarebbe stato in grado di modificare il corso della vicenda, forse.

Il Presidente, il Prof. Signora, non era stato in grado di intervenire per cambiare qualcosa ed era rimasto molto dispiaciuto e avvilito per la soluzione adottata, ma, subito dopo, si era dovuto preoccupare della salute propria e di quella della moglie, mollando ogni incarico e ritirandosi in pensione.

Lui, il mio amico venditore, era figlio di un grosso imprenditore nel settore siderurgico, per questo conosceva il Prof. Signora e conosceva bene anche l’impresa siderurgica incaricata dello smantellamento.

In quel settore, all’epoca, c’era una grave crisi produttiva e tanti “bresciani”, produttori dei famosi “tondini” per il cemento armato, chiudevano l’attività. L’impresa incaricata, non era soltanto in crisi produttiva, ma non era in grado di liquidare la ditta non avendo di ché pagare le indennità di licenziamento e le retribuzioni arretrate al personale dipendente. Per causa “nostra” e per l’intervento del Pretore, l’impresa rischiò di fallire a causa del protrarsi dell’occupazione di fabbrica e, poi, del ritardo sulla “liberazione” della fabbrica dalle maestranze.

Con la commessa di smontare e bonificare l’area industriale dello stabilimento di Manfredonia, aveva fatto un grosso “affare”, specie con l’acciaio speciale recuperato dai fermentatori, tanto da aver potuto risolvere tutti i propri problemi di “liquidità” ed aveva poi potuto chiudere l’attività.

Tutto il personale della impresa siderurgica che aveva poi “smontato” realmente la fabbrica, aveva avuto una ottima accoglienza a Manfredonia e, in particolare, dai nostri ex operai, ciò coerentemente con la vocazione dei nostri concittadini a ben accogliere il “forestiero” in genere.

Ma ho anche saputo che, in contemporanea, per controllare e seguire i lavori di “smontaggio” degli impianti e macchinari, erano tornati in paese un paio di alti pezzi grossi giapponesi, ossequiati e bene accolti, in albergo, dagli stessi miei ex colleghi e dagli operai.

Questa la racconto solo perché, quando eravamo in occupazione di fabbrica, molti degli amici operai ed ex sindacalisti, avevano minacciato fuoco e fiamme contro chiunque si fosse avvicinato alla fabbrica, anche “solo con l’idea” di smontare un bullone, mentre avevano tanto inveito contro i giapponesi affinché non si facessero mai più vedere a Manfredonia.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti