martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Scritta dal Rag. Michele Brunetti

LE RAGIONI DI UNA “FUGA”

ovvero

Storia della AJINOMOTO-INSUD dagli inizi alla fine

Raccontata da MICHELE BRUNETTI


In sterquilinio pullus gallinaceus
Dum quaerit escam, margaritam repperit.
"Iaces indigno quanta res" inquit "loco" .
(Fedro)

PREFAZIONE - LE RAGIONI DI UN RACCONTO
Cap. I - I PRODROMI
Cap. II – GLI INIZI
Cap. III – L’AVVIO
Cap. IV – L’ESTERNO
Cap. V – IN PRODUZIONE
Cap. VI – ARIE DI CRISI
Cap. VII – L’INIZIO DELLA FINE
Cap. VIII – LA FINE
Cap. IX – I RETROSCENA


Le ragioni di un racconto.


Molte volte, in questi anni, avevo notizia di incontri e di dibattiti pubblici in cui, tra l’altro, si parlava delle vicende del primo insediamento industriale a Manfredonia, la Ajinomoto-INSUD, e tutte le volte mi preoccupavo di chiedere all’amico Mimì Tavano, l’unico col quale ho condiviso tutte le mie informazioni al riguardo, se avessero chiesto notizie a lui, visto che non lo avevano fatto a me e, alla sua risposta negativa, concludevamo, insieme: - «Si diranno le solite inesattezze!» -

Con Tavano, infatti, abbiamo condiviso molti degli avvenimenti narrati, scambiandoci sempre pareri, consigli e informazioni, e rileggendo queste note e ricordi, mi sono accorto di aver usato, molto spesso, il plurale “noi” che non vuol assolutamente essere un pluralis majestatis, ma solo l’indicazione di condivisione, con lui ed altri amici e colleghi, di quei fatti e di quelle interpretazioni di fatti cui assistevamo.

Spesso, e ripetutamente, mi hanno chiesto di conoscere i veri motivi della chiusura della fabbrica Ajinomoto di Manfredonia, per semplice curiosità o per avere la conferma della propria convinzione, e allora sentivo:

1. i giapponesi se ne sono andati scandalizzati dalla poca voglia di lavorare delle maestranze;

2. i giapponesi hanno scoperto che gli operai, invece di lavorare, giocavano a carte o vedevano filmini pornografici;

3. i giapponesi hanno scoperto che i dipendenti “rubavano” (che cosa, nessuno lo diceva);

4. tutti insieme questi motivi e altre simili facezie.

Sfatare tutte queste convinzioni era una impresa che avrebbe richiesto lo spreco inutile di molte energie, perciò, se l’uditorio meritava, rispondevo solo:

- «Sono tutte idee sbagliate! Non avete detto una sola ragione valida ed effettiva.» -

A coloro che, invece vogliano veramente sapere quali sono stati i veri motivi della fine di quell’esperienza industriale, chiedo prima di tutto la disponibilità a dedicarmi una parte del loro tempo, poi cerco di raccontare il tutto, non senza ribadire che io posso raccontare solo quelli che conosco, se vi sono altri motivi, di cui non ho contezza, non posso parlarne.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - I prodromi

Gli Auguri
In piena atmosfera festaiola, prima di lasciare l’ufficio e tornare alle nostre case, andammo a porgere i nostri auguri per il nuovo anno, il 1977, al Presidente della Società, il Professor Mario Signora. Avevamo visto scendere il personale giapponese, per questo pensammo di poterlo trovare solo e restare a parlare un po’ più a lungo e serenamente. Invece lo trovammo in compagnia del nuovo direttore di stabilimento, il Dott. Cappuccio, seduto di fronte a lui, ma il Presidente ci fece segno di entrare lo stesso e si alzò in piedi, venendoci incontro con la mano tesa.
In altri momenti, saremmo stati lusingati di questa sua gentilezza e cortesia, invece, non so perché, ne rimasi quasi scombussolato e confuso. Per fortuna, il mio collega Tavano era più lucido di me e, dopo gli auguri ed i convenevoli, gli chiese se avrebbe voluto, l’indomani mattina, che qualcun altro, oltre all’autista, andasse in macchina con lui.
- «No, no! Non c’è bisogno! Sono solo due ore di macchina! E poi..» - e si voltò verso il dott. Cappuccio che, nel frattempo, si era alzato e stava uscendo: - «Per distrarmi mi rileggerò queste carte che, oddìo, ancora non mi suonano tanto bene….» -

Tavano allungava il suo discorso, dicendo che gli avrebbe fatto immenso piacere accompagnarlo e cogliere l’occasione per porgere gli auguri di buon anno anche al fratello del Presidente, l’Arcivescovo di Pompei, luogo di destinazione appunto del viaggio dell’indomani mattina. Intanto il nuovo direttore di fabbrica, Cappuccio, salutava uscendo, lasciandoci soli col Presidente che, nel frattempo, gli rivolgeva frasi di circostanza, farfugliando però anche qualcosa di incomprensibile in milanese e terminando, così mi parve, con una espressione d’accento napoletano.

Sarà stato per la mia antipatia verso il Dott. Cappuccio, ma mi convinsi che quelle imprecazioni del Presidente erano verso di lui, così come, alzandosi e venendoci incontro, avesse voluto licenziare il suo dirimpettaio che, infatti, era uscito:

- «Qui è tutto tranquillo, vero?» - chiese il Presidente.

Pensai che la domanda fosse rivolta al Capo dell’Ufficio del Personale, il Dott. Tavano appunto, che si affrettò a rispondere affermativamente e in maniera rassicurante. Poiché tuttavia, formulando la domanda, il Presidente guardò alternativamente anche me, chiesi timidamente: - «In che senso, mi scusi?» - rammentandomi che la stessa domanda mi aveva rivolto, un paio di settimane prima, il Dott. Cipriani, già Amministratore della Società fino a pochi mesi prima, mentre io gli formulavo gli auguri per l’imminente Natale.

E il Presidente: - «Insomma, i nostri amici sindacalisti, sempre pronti a saltare su ad ogni stormir di foglia, in una situazione simile, se ne stanno calmi e tranquilli? Forse non avete..…, non hanno capito quel che sta succedendo!» - E ci congedò, affermando che n’avremmo discusso la prossima volta.

Tornando a casa in macchina, insieme, io e Tavano, ci chiedevamo il significato di quanto avevamo udito e che cosa volesse dirci con quelle parole, cosa intendesse con “quel che sta succedendo”, concludendo che, qualunque cosa fosse, non si trattasse in ogni caso di argomenti rassicuranti per il nostro futuro.

Nella mia posizione di Responsabile amministrativo, con Tavano Capo del personale, insieme al Chimico, Capo della Produzione, forestiero e in quei giorni assente per ferie, eravamo, anzi lo eravamo stati fino ad un paio di mesi prima, cioè prima del ritorno del nuovo direttore di stabilimento Cappuccio, gli italiani con la carica più alta nell’organigramma aziendale e, noi due, gli unici indigeni locali.





La società.

La Società per Azioni, con sede in Manfredonia, era stata fondata alla fine dell’anno 1963 ed era denominata ancora Ajinomoto-INSUD, anche se, ormai alla fine del 1976, l’INSUD non ne faceva più parte, avendo ceduto la proprietà del suo 50%, in parte alla stessa Ajinomoto giapponese ed in parte alla Deutsche Ajinomoto con sede in Amburgo.

All’epoca della fondazione, negli anni sessanta, v’erano pochi contatti del mondo occidentale con i giapponesi che, si riteneva, fossero solo bravi a “copiare” e “rifare” tutti i prodotti occidentali e, con questi, stessero invadendo il mercato nord americano. In Europa, le cose giapponesi più note erano le piccole radioline a transistors gracidanti che si cominciavano a portare allo stadio, e le motociclette Honda.

L’Ajinomoto giapponese era un grande colosso chimico industriale e finanziario, una vera multinazionale con stabilimenti in tutto l’estremo Oriente che, prima della guerra mondiale, aveva avuto anche uno stabilimento in California (USA), che, però, fu prima requisito dal Governo USA e poi chiuso quando, con personale americano, non furono più in grado di produrre alcunché.

Aveva in ogni modo alle spalle una storia industriale di oltre cento anni e il significato del suo nome, Aji-no-moto, composto appunto da tre lemmi, era “essenza del sapore” oppure, se letto nell’altro verso, all’occidentale, era “sapore d’essenza”.

I laureati in chimica più aggiornati m’informarono che, di 36 aminoacidi conosciuti all’epoca e isolati in laboratorio, su ben 24 il brevetto industriale apparteneva all’Ajinomoto. Sempre gli stessi tecnici, mi spiegarono che gli aminoacidi erano la base di tutti i medicinali moderni, che le industrie farmaceutiche stavano studiando tutte le applicazioni di quelli più conosciuti, e le scoperte erano continue e strabilianti.

Ma per gli aminoacidi si apriva anche un grande mercato per l’alimentazione umana e, soprattutto, per quella dietetica che stava incominciando ad affermarsi, anche se, all’epoca, era per gli “snob” e, per quanto riguardava i dolcificanti, per i diabetici.

Quando i giapponesi decisero di espandersi in Occidente fondarono la Deutsche Ajinomoto ad Amburgo, con lo scopo di studiare il mercato europeo e, contemporaneamente, per offrire i loro prodotti.

Le più grandi industrie chimiche e farmaceutiche tedesche non si fidavano dei giapponesi anche perché questi, quando si presentavano per offrire joint-venture o chiedere partnerships, per istinto di conservazione si presentavano a mani vuote, escluso le normali brochures illustrative e commerciali. La Francia, agli investitori stranieri, consentiva il 49% della proprietà. La Gran Bretagna aveva un colosso chimico che, da parte sua, cercava di penetrare sul mercato giapponese e già si era scontrato evidentemente con i nostri amici giapponesi.

L’unico colosso chimico italiano era l’ANIC ma, all’epoca, mi dispiace dirlo, era appena morto l’Ing. Enrico Mattei e non c’erano dirigenti avveduti ed esperti, e forse, come sempre mi capitava in seguito, veramente pensarono, per assonanza col nome, che l’Ajinomoto producesse motociclette tipo le Honda. E, infatti, spedirono i giapponesi all’IRI che, naturalmente, assicurò che non aveva interesse. Qualcuno del Ministero delle Partecipazione Statali, per fortuna, non volle perdere l’occasione e mandarono i giapponesi al nuovo ente di recente fondazione, l’EFIM.

Presidente dell’EFIM era l’Avv. Pietro Sette, barese e fedelissimo di Moro, che ricevette appunto i giapponesi, affiancato da un altro barese, l’ingegner Musaio-Somma, Presidente della INSUD e d’altre numerose società del Gruppo. Avranno avuto fiuto, saranno stati abbagliati dalla visita in Giappone presso la sede della Ajinomoto, qualcosa insomma li avrà convinti rispetto agli altri “boiardi” delle P.S., perché fu immediatamente convenuto di costruire la nuova fabbrica per la produzione del glutammato monosodico in Puglia e, più precisamente, nel Collegio elettorale di Moro, con la partecipazione paritetica della INSUD.

Veramente si pensava di metterla nell’area industriale barese, dove, secondo i programmi dell’EFIM, si stavano insediando nuove industrie chimiche e, soprattutto, si stava costruendo il Centro Ricerche Breda per la ricerca pura e applicata nell’area chimica e farmaceutica, ma i giapponesi, con la loro simpatica e irremovibile cortesia, scelsero, sempre in ogni modo nel Collegio di Moro, la terra vergine di Manfredonia, naturalmente per una, per loro, valida ragione: volevano tenerla lontana da occhi indiscreti o da curiosi più o meno disinteressati.

Rimase qualcosa, comunque, della terra di Bari, perché tutti i giapponesi conoscevano la parola “sciamanìnn(e)!” che nel dialetto barese significa solo “andiamocene”, ma viene anche usata per intendere “andiamo avanti! Cominciamo!” e, a quanto pare, fu l’ultima parola pronunciata dall’Ing. Musaio-Somma alla fine della trattativa e, come tale, degna di passare alla storia.

Loro l’avevano intesa con questo significato e come un vocabolo della lingua italiana, anche se sbagliavano l’accento e dicevano “sciamàni”, ma se ne servivano, al termine di un incontro, come biglietto da visita con gli italiani per rendersi simpatici, solo che la potevo intendere subito io, pugliese, ma non i nostri chimici settentrionali, che ci scherzavano sopra, avendola ascoltata addirittura in Giappone e capìta solo dopo molte difficoltà grazie alla presenza, tra loro, di uno con genitori e origini baresi.





I Preliminari
I patti para-sociali per la vita della nuova Società prevedevano che la parte tecnica e produttiva fosse esclusivo campo dei giapponesi che ne avevano la conoscenza e, soprattutto, ne detenevano il brevetto industriale che gestivano e proteggevano, coprendolo molto gelosamente.

I nostri laureati in chimica, tutta gente di qualità, molto preparati ed esperti, mi raccontarono che, in Giappone, ebbero modo di costatare che la protezione del segreto industriale e del brevetto assumeva aspetti addirittura maniacali e paranoici, specie se visti con la nostra mentalità occidentale.

Il prodotto scelto per mettere un piede nell’occidente era appunto il glutammato monosodico ottenuto in maniera organica dalla fermentazione della melassa di barbabietola, e tale glutammato era presente, e comunemente usato, sulle mense e nelle cucine orientali da oltre cento anni.

Tutti gli alimenti e le sostanze alimentari in genere contengono l’acido glutammico sotto la forma delle glutammine, che sono quelle sostanze “tipiche” di ciascun alimento che ne determinano il sapore ed il contenuto vitaminico. Il glutammato monosodico è un sale sodico dell’acido glutammico che, aggiunto ai cibi, si scioglie immediatamente, “liberando” l’acido glutammico perché “attratto”, appunto, da quelle glutammine tipiche e proprie dello stesso cibo, con le quali si apparenta aumentandone il sapore ed il valore nutritivo; resta “libero” il sodio ma, siccome in tutti i cibi è presente o ci aggiungiamo il cloruro di sodio, ovvero il sale da cucina, trova con questo il suo “parente” naturale.

Al termine di ogni spiegazione, da qualunque soggetto venisse, naturalmente esperto del settore, tutti concludevano.

- «In ogni caso fa bene al cervello. No! Non è che fa diventare più intelligente o più stupido! E’ che rinforza la corteccia cerebrale. Ciò significa che previene o rende più difficile la degenerazione dei tessuti nella corteccia cerebrale, per qualsiasi causa o accidente!» - Periodicamente, su qualche rivista, apparivano degli articoli che predicavano sulla nocività del glutammato, definito “additivo” alimentare, “scoperto” analizzando gli alimenti nel quale era stato aggiunto.

I chimici mi spiegavano che era pressoché impossibile scoprire il glutammato se aggiunto in un cibo nelle giuste dosi, per la semplice ragione che il composto, non essendo un “additivo” ma semplicemente un “esaltante” del sapore, svaniva presto e, con i cibi caldi, in un attimo, e non lasciava tracce se non in un incremento delle glutammine e, quindi, delle sostanze nutritive proprie del cibo: in pratica, era come dire che “questo cibo è più nutriente e saporito del normale, quindi vi deve essere stato aggiunto il glutammato”.

L’additivo alimentare che veniva invece spesso usato dall’industria alimentare era il “ciclammato di sodio”, una sostanza chimica sintetica, fabbricata in laboratorio quindi, di cui, all’epoca, non era stata ancora valutata la nocività, ma era tutta un’altra cosa, completamente diversa, ed in seguito fu severamente vietato.

Il glutammato si ricava con un procedimento naturale quale la “fermentazione”, lo stesso millenario procedimento con il quale si trasforma l’uva in vino, provocata appunto da batteri noti contenuti nella buccia o nei graspi. Il segreto industriale dei giapponesi era proprio questo “batterio” usato per la fermentazione della melassa e segreta era la sua composizione e la sua natura.

Detto in parole povere, questo batterio, posto nella melassa zuccherosa, con la temperatura giusta e studiata e con l’aggiunta dosata di aria compressa, l’assorbiva e si nutriva di essa, riproducendosi fino a “consumare” tutta la sostanza nutritiva, trasformandola in tutt’altra sostanza, finché, giunto il composto ad una voluta saturazione, si faceva fermare la fermentazione e, tramite vari passaggi e con sostanze chimiche adatte, si depurava il prodotto ottenuto e si cristallizzava come un sale che veniva poi insaccato e confezionato.

Fui il testimone inconsapevole dell’arrivo in Italia, a Roma, del primo ceppo dei batteri, portato come “bagaglio appresso” in una borsa termica da viaggio da uno degli amministratori giapponesi in visita al nuovo stabilimento in corso di ultimazione. L’arrivo a Roma di questo amministratore della casa madre, creò nei giapponesi una grande eccitazione, fin dai giorni precedenti al suo arrivo, tanto da richiedere anche la presenza dei chimici già trasferiti a Manfredonia.

Ed effettivamente, l’importazione di batteri vivi doveva essere severamente vietata o, quanto meno, prima di ammetterne l’entrata in Italia, doveva essere analizzata e valutata l’eventuale pericolosità: proprio ciò che i giapponesi volevano assolutamente evitare. In verità i retroscena di questo ingresso le intuii, più che ascoltati, dalle sonore e sollevate risate dei giapponesi quando i pochi presenti al racconto dell’amministratore, per ragioni di posizione gerarchica, la riferivano agli altri. In breve, aveva “fatto fesso” i doganieri italiani dichiarando che si trattava di cibo dietetico al quale, data la sua avanzata età, non avrebbe potuto assolutamente rinunciare durante il suo breve soggiorno in Italia.

In fabbrica, invece, il batterio era custodito in un’apposita sala sterile costruita nel Laboratorio dello stabilimento e, in questa sala sterile, nessuno era autorizzato ad entrarvi se non un paio di chimici giapponesi. La sala sterile aveva le quattro pareti di vetro. Non appena ci entrava il chimico, il primo suo gesto era abbassare le veneziane per non mostrare all’esterno cosa stesse facendo.



Ritornando al racconto dei patti para-sociali, dopo l’esclusiva della parte tecnico-produttiva della fabbrica che, sotto certi aspetti, era anche comprensibile, l’altra esclusività di competenza dei giapponesi era la parte commerciale, la vendita. Anche questa, in un certo senso, poteva ritenersi comprensibile sapendo che i giapponesi conoscevano tutto del mercato del glutammato in Europa.

Da Amburgo, tramite un vero e proprio servizio di spionaggio industriale a livello europeo, sapevano le quantità prodotte dagli altri produttori, le quantità vendute ai maggiori clienti, e persino le quantità che si sarebbero potuto produrre con la campagna annuale della barbabietola.

Infatti, i principali produttori europei erano gli stessi degli zuccherifici che, però, ottenevano il glutammato dagli avanzi della lavorazione dello zucchero, ma era un glutammato di scarsa qualità e di basso rendimento, puro al 50% mentre, quello del nostro Stabilimento, era puro al 99+% e ad alto rendimento, il che significava un impiego di dosi minori e con più risultato.

Ma prima del nostro, quello impuro era l’unico conosciuto e usato dalle grandi industrie alimentari per la produzione, essenzialmente, del dado per brodo o per i pochi, anzi pochissimi, “piatti pronti” pre-cucinati offerti all’epoca.

Con l’impiego del glutammato di Manfredonia, le più grandi industrie produttrici di dadi per brodo cambiarono la loro pubblicità, ora il piccolo e maleodorante dado da brodo era usato e consigliato per “insaporire” l’arrosto e gli altri piatti cucinati dalla brava cuoca: non è il dado che “insaporisce” i cibi ma il glutammato contenuto nel dado, ed, infatti, sulla confezione si incominciò a scrivere “”a base di glutammato monosodico””.

Qualche fabbrica del nord Italia, con una politica di vendita coraggiosa ed aggressiva, cominciò ad aumentare la gamma delle proprie produzioni, specie se destinate ai servizi di ristorazione e “catering”, introducendo i primi piatti precotti e confezionati, insaporiti ed esaltati nel sapore proprio dal glutammato.

In verità, il problema principale nella fabbricazione dei piatti pronti precotti era l’uso di appropriati additivi chimici destinati a conservare e stabilizzare il composto, additivi che, tuttavia, riducevano o modificavano il sapore del cibo: l’aggiunta del glutammato monosodico permetteva appunto ad esaltare il sapore del prodotto, nonostante la presenza degli additivi chimici.

I primi grandi clienti del nostro stabilimento furono la Star e la Knorr, che si convinsero però solo dopo lunghe e insistenti trattative e prove. Ma la perdita di questi due grandi clienti, ci creò dei nemici tra gli altri produttori che poi, come ha dimostrato in seguito la Magistratura, anche se per altre questioni, esercitavano un vero e proprio “cartello”, a livello anche europeo, controllando tutto il mercato dello zucchero, dalla barbabietola al prodotto finito, ed erano, in Italia, le famose “tre M”, vale a dire il gruppo Monti, quello Montesi e quello Maraldi che, insieme, rappresentavano circa l’85 per cento del mercato saccarifero italiano.

Ma del mercato dello zucchero e della melassa di barbabietola avremo modo di riparlarne più avanti. Ritornando ai patti para-sociali, l’unico aspetto di esclusività italiana, e quindi della INSUD, era la gestione contabile-amministrativa, questo perché i nostri amministratori si illudevano di poter controllare tutta la vita aziendale attraverso il controllo economico di gestione. Ma anche di questo parleremo dopo.





Il Presidente Prof. Signora.

Dopo Musaio-Somma, venne, come Presidente, il Prof. Mario Signora, che, mi pare di ricordare, fosse libero docente di chimica industriale, comunque era stato un combattente della Resistenza e, come tale, amico personale dell’Ing. Mattei dell’ENI e da lui messo alla Presidenza di varie società del gruppo. In seguito, con il passaggio della Terni Chimica all’EFIM, entrò a far parte anche di questo ultimo gruppo, oltre ad essere Presidente e Consigliere di Amministrazione in altre Società varie sparse tra la Campania e il nord Italia.

Dotato di grande carisma e di innata simpatia, oltre che di competenza industriale, entrò subito nelle simpatie dei dipendenti della Società e dei sindacalisti, non disdegnando il contatto diretto con gli stessi sindacalisti e con le maestranze, ma sempre con il dovuto rispetto dei reciproci ruoli, ciò in virtù della sua signorilità, di nome e di fatto.

Si definiva un paladino e tifoso degli italiani del sud, lui lombardo verace, dicendo spesso che noi sudisti eravamo più in gamba e svegli dei nordisti, ci mancavano solo le opportunità e le occasioni. Sotto questo aspetto, non potevamo non essere d’accordo con lui, noi che avevamo scalciato e sgomitato per assurgere ai più alti gradini nell’organigramma aziendale, sempre pronti ad ascoltarlo e riverirlo, senza comunque servilismi o lecchinismi che lui odiava.

Se dunque, in quel fine anno 1976, il Presidente si lamentava che non avevamo capito niente della situazione societaria, se si meravigliava di come i nostri sindacalisti non si fossero fatti avanti per protestare, o comunque, far sentire la loro presenza, voleva dire che, secondo la sua visione della cosa, si avvicinavano avvenimenti sfavorevoli e che, in ogni caso, erano previsti tempi bui per la nostra società e per i suoi dipendenti.

L’avvenimento più recente verificatosi nella vita della Società era stato l’uscita dalla compagine societaria della INSUD e, quindi di conseguenza, l’uscita della Società dall’ambito delle Partecipazioni Statali per diventare a tutti gli effetti una società privata a completo capitale estero. In verità la Commissione Interna dei sindacalisti era stata avvertita di questo movimento ma era stata anche rassicurata che, per i dipendenti, niente sarebbe cambiato.

Dopo l’uscita della INSUD, a ottobre del 1976, tornarono a Manfredonia due ex dipendenti licenziati anni prima, per la precisione un ex Direttore Amministrativo, il Rag. Fraschetti, e l’ex Responsabile dell’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio.

Il Rag. Fraschetti fu presentato come il Consulente Amministrativo della Società con sede di lavoro presso il nostro Ufficio Vendite di Milano, questo, evidentemente, per non creare o meglio per non far riemergere le frizioni con me che ero il Responsabile Amministrativo in fabbrica e gli altri impiegati amministrativi, mentre il Dottor Cappuccio fu presentato come il nuovo Direttore italiano dello stabilimento, che affiancava il precedente Direttore giapponese che, però, conservava la delega unica della firma societaria e la rappresentanza legale.

In conclusione, quel Capodanno del 1976-1977 non fu il più sereno per me e per il collega Tavano.





La INSUD

L’EFIM era il terzo Ente statale destinato, come diceva la sigla, al finanziamento delle industrie manifatturiere. In verità, mentre all’IRI predominavano i DC, all’ENI il PSI e il PRI, l’EFIM doveva essere il feudo dei socialdemocratici, per ricomporre il quadripartito al potere.

Si dedicò all’inizio soprattutto a “salvare” per volontà politica quelle industrie ormai “decotte”, sparse “a pioggia” un po’ in tutta Italia, che non erano gradite né all’ENI né all’IRI. Ed infatti, il suo primo “regalo” fu l’acquisizione della Società per l’estrazione e lo sfruttamento dell’alluminio sardo, una impresa da liquidare, con un numero importante di dipendenti e trascorsi storici molto significativi: ciò determinò una buona dotazione finanziaria iniziale per il nuovo Ente.

A nord, la principale e più importante partecipata EFIM era la Breda che fu spezzettata; le attività più economicamente valide furono inglobate nell’IRI (come la Breda armi e la Oto Melara), anche perché complementari alle altre attività del gruppo, tutte le altre (ad es. la Breda Fucine ferroviaria) furono rilevate dalla Finanziaria Ernesto Breda che le gestiva e le controllava, insieme con altre industrie alimentari, meccaniche, tessili e varie ed era, a sua volta, di proprietà dell’EFIM.

Al centro Italia, nel “portafogli” EFIM, all’epoca c’era la Terni Industrie Chimiche, già abbandonata dall’ENI, ma bussava prepotentemente la Terni Siderurgica, in grave crisi industriale e finanziaria, la cui destinazione naturale sarebbe stato il gruppo IRI che aveva altre siderurgiche nel portafoglio, ma che, evidentemente, aveva le sue ragioni per rifiutarla.

Al sud esisteva già la INSUD, una finanziaria con la partecipazione dell’ISVEIMER, l’istituto della “famosa” Cassa per il Mezzogiorno. L’EFIM entrò come azionista minoritario della INSUD ma, a poco a poco, a furia di coprirne le perdite, ne divenne il principale azionista e gestore.

Questa INSUD, oltre a finanziare nuove iniziative industriali, aveva anche “nel portafoglio” la proprietà di una pletora di piccole e medie industrie ubicate nei territori del Mezzogiorno, tutte ampiamente e largamente finanziate tramite la “Cassa” e l’ISVEIMER, ma che poi, per non vederle fallite, venivano acquisite e ristrutturate, anche finanziariamente, e quindi offerte sul mercato ad altri investitori più o meno locali, quando v’erano.

L’Amministrazione della nostra Società era di competenza della INSUD e della EFIM che si riservava la scelta e la nomina del Direttore Amministrativo e, inoltre, aveva propri funzionari nel Collegio Sindacale. Penso che feci invece una buona impressione ai Sindaci della Società quando vennero per una delle solite rituali visite, e vollero controllare la Cassa ed i valori, come previsto e prescritto dal Codice Civile italiano.

Pur essendo giovane, non ero completamente alle prime armi, avendo avuto anche nella mia precedente esperienza di lavoro le visite di Sindaci, anche se erano di piccole Cooperative locali, tuttavia ero perfettamente a conoscenza delle funzioni del Collegio Sindacale. Ero tuttavia irriverente, come tutti i giovani, e mi fece molto ridere l’eccitazione del mio Capo contabile prima della visita, ed il suo nervosismo quando il Presidente dei Sindaci volle rimanere solo con me per controllare i valori di Cassa.

La visita andò bene e ricevetti moderati elogi dal Presidente dei Sindaci, il dott. Antonio Zurzolo. Solo dopo capii e compresi il nervosismo del Capo contabile, quando seppi che il dott. Zurzolo era il Direttore Generale dell’EFIM.

Il primo Direttore Amministrativo, quello che mi assunse, si dimostrò utile per i rapporti con il Comune di Manfredonia e tutti gli altri enti necessari per le numerose autorizzazioni per la costruzione, ma con poca esperienza operativa in fabbrica.

Infatti fu poi subito richiamato presso la sede dell’EFIM per continuare l’opera per altre aziende e fu sostituito da un Direttore operativo, esperto di contabilità e di amministrazione di fabbrica ma, soprattutto, bravo nella gestione delle risorse umane. Nel suo primo anno di lavoro a Manfredonia, questo giovane e simpatico direttore insegnò, a tutti noi amministrativi, il modo di lavorare in squadra, l’individuazione degli scopi aziendali, i moderni sistemi di rilevazione delle spese e di contenimento dei costi.

Si viveva un momento critico nella gestione dei rapporti sindacali tra 1967 e 1969: lui ci insegnò che, nei rapporti con i dipendenti, bisognava prima di tutto essere onesti e severi, ma non arroganti. Riuscì a convincere i giapponesi a riconoscere ai dipendenti e agli operai le categorie ed i livelli retributivi previsti dal contratto di lavoro.

Purtroppo questo Direttore, il Dott. Roberto Italia, romano, dopo un paio d’anni, prese l’epatite virale e rimase fuori della fabbrica per oltre sei mesi, senza tuttavia che il lavoro in ufficio ne risentisse, proprio perché ormai la “squadra” di lavoro era pronta e formata. In ogni caso, dopo la guarigione, rimase pochi mesi e fu subito richiamato presso altre aziende più grandi, lasciando un grande rammarico per la sua bravura e per la sua innata simpatia.

Fu sostituito dal Rag. Fraschetti, un altro esperto amministrativo, quasi sessantenne, che rimase per un più lungo periodo ma che, dopo il licenziamento, ritornò come “consulente” in quel 1976 “fatidico”. Fra il ’73 ed il ’74, il Rag. Fraschetti fu sostituito dal Dott. Cipriani che, per la sua esperienza, entrò a far parte anche del Consiglio di Amministrazione in rappresentanza, appunto, dell’azionista INSUD, ma quest’ultimo merita un capitolo a parte.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Gli inizi

L’Amministratore Delegato
Ad agosto 1965, quando io entrai in azienda, primo dipendente nativo di Manfredonia, la costruzione delle opere edili era a buon punto e si incominciavano ad ordinare le prime macchine ed i primi impianti. Il caso volle che entrai in azienda con una vistosa fasciatura alla mano destra, per essere scivolato nel corridoio di casa paterna, battendo la mano contro il vetro di un quadretto che mi procurò diversi punti di sutura.

La mattina del lunedì 2 agosto fui accolto dal mio capo contabile e dal mio direttore amministrativo che, però, partì il giorno stesso per Manfredonia per perfezionare in Capitaneria di Porto la pratica per la concessione demaniale del deposito costiero sul porto.

Il giorno dopo, il capo contabile mi consegnò la cassa, comunicandomi che l’indomani partiva per le ferie. Il mercoledì ero l’unico impiegato amministrativo presente e ricevetti, come cassiere, la richiesta di un anticipo per spese di viaggio da parte del capo dei chimici. Come da istruzioni ricevute, compilai un assegno bancario di un milione di lire, sulla Banca Nazionale del Lavoro e lo portai alla firma dell’Amministratore Delegato, il Dr. Fukazawa.

Mi avevano detto che questo Amministratore proveniva dalla carriera diplomatica e, ultimamente, era stato addetto commerciale all’ambasciata giapponese a Parigi. Era un signore dai modi gentilissimi, come e più degli altri giapponesi, e che da oltre vent’anni viveva in Europa. Fu sorpreso e meravigliato dalla mia richiesta e, prima di firmare, mi chiese notizie sulla mia ferita e poi mi chiese, sempre in inglese, di chiamare il direttore amministrativo:

- «E’ a Manfredonia, dottor Fukazawa,» - gli risposi.

- «Ah si! Ricordo! Mi faccia venire allora il capo contabile.» -

- «Non c’è signore, è andato in ferie.» -

Rimase sorpreso e mi guardò in silenzio. Poi guardò le carte che gli avevo portato alla firma, che, oltre all’assegno, comprendevano dei mandati di pagamento da me scritti a mano, con la mano fasciata, per pagamenti da me disposti e che lui doveva autorizzare. E chiese:

- «Chi va allora in banca a cambiare l’assegno?» -

- «Ci andrò io!» - risposi sicuro: - «Ieri sono stato presentato al Cassiere della Banca!» -

Ma, evidentemente, non era quella la sua preoccupazione. Andai in banca, ma prima entrai nel bar a prendere un caffè, poi prelevai il denaro e tornai in ufficio. Rientrando, non vidi al suo posto all’ingresso il fattorino, di poco più vecchio di me, che mi era stato raccomandato di tener sotto controllo per la sua facilità di imboscarsi e dedicarsi ai propri affari.

Misi tutto a posto e, per fare un gesto di cortesia, mi recai di persona a portare il denaro al Dr. Giavelli, il capo dei chimici, che apprezzò molto il mio gesto e restammo per un po’ a parlare, naturalmente, della mia ferita e di Manfredonia.

Nel corridoio, vidi al suo posto il fattorino, piuttosto accalorato e sudato, che mi guardava ad occhi sgranati dalla sorpresa. Più avanti, nel mio ufficio, trovai in piedi al centro della stanza il Dr. Fukazawa che mi aspettava e mi chiese:

- «E’ andato tutto bene in banca?» -

- «Yes Sir, of course! (Sì signore, naturalmente!)» -

Solo dopo qualche minuto, riflettendoci sopra, mi sembrò che ci fosse qualcosa di strano.

L’ufficio di Roma era al centro, a Via Bissolati, la strada dove si trovavano gli uffici di rappresentanza di quasi tutte le linee aeree internazionali e sicuramente di tutte le più importanti. Il nostro ufficio era al primo isolato verso Via Nazionale, mentre all’altro estremo, verso Via Veneto, al terzo ed ultimo isolato, quasi di fronte all’Ambasciata USA, c’era l’edificio della Banca Nazionale del Lavoro. Proprio di fronte ad un ingresso secondario della BNL, a Via San Basilio, alle spalle dell’ingresso principale di Via Veneto, c’era il bar dove avevo preso il caffè.

C’era un grande bar proprio sotto il nostro ufficio a Via Bissolati, era un American Bar, nel senso che vi si poteva mangiare anche una bistecca o un piatto di pasta, e qui al mattino, prima delle otto e trenta, facevo la colazione con cappuccino e cornetto, ma il caffè di mezza mattina preferivo prenderlo all’altro bar, perché, come mi aveva fatto subito notare un collega più anziano, in quell’American Bar, dopo le nove del mattino, sulle tazze ci potevi trovare tracce di rossetto di tutte le nazioni e continenti del mondo, ed era vero.

Quando, nell’intervallo per il pranzo, chiesi al fattorino perché fosse uscito dopo di me, quello mi riferì invece che, subito dopo di me, era uscito il Dr. Fukazawa, non prima di aver chiesto di me in maniera concitata, tanto che lo stesso fattorino, preoccupato, pensò che io avessi dimenticato qualcosa che lo stesso Amministratore mi stata riportando, rincorrendomi.

In pratica, appresi che Fukazawa mi aveva seguito a distanza, mentre io ero entrato in banca dalla porta posteriore, ne ero uscito subito dopo dal portone laterale di Via Bissolati per tornarmene in ufficio, lasciando Fukazawa a Via San Basilio a spiare e attendermi. Quando non mi vide più in banca andò forse a chiedere notizie al Cassiere, uscendo subito dopo.

- «Quando l’ho visto uscire,» - continuò il fattorino, - «mi sono messo a correre e l’ho preceduto di poco. E lui mi fa: il ragioniere? E io, nel suo ufficio! Poi, invece, t’ho visto arrivare dall’altra parte, dall’altro corridoio!» -

Tentai di trovare una spiegazione a tutto quanto avevo ascoltato: raccontai che forse aveva dei dubbi sulla mia capacità di poter ritirare il danaro dalla banca, come, del resto, si era espresso al momento della firma dell’assegno, forse perché era accaduto a lui di incontrare delle difficoltà in banca.

Invece avevo la netta sensazione che avesse pensato che potessi scappare con la cassa: proprio io che, nel mio lavoro precedente, avevo maneggiato spesso anche molto più di un milione di lire. Alla verifica dei miei primi stipendi ricevuti a Roma, dove ci rimettevo del mio ogni mese, poteva anche giustificarsi la diffidenza dell’Amministratore. In ogni caso, c’era sicuramente una certa diffidenza nei confronti degli italiani, ma anche questi, gli italiani, non erano esenti da colpe e prevenzioni verso i giapponesi.





















Lo Staff tecnico

Il Calendario Cinese: ne sapevo l’esistenza ma non avevo avuto mai occasione di farne la conoscenza. Ne sentii parlare per la prima volta la sera del 5 gennaio dell’anno 1966, scoprendo che aveva un ciclo di dodici anni, nel senso che, per dodici anni, ogni anno era rappresentato da un animale, al tredicesimo anno si riprendeva la rappresentazione daccapo, come al primo.

Quella sera del 5 gennaio 1966, vigilia di un giorno festivo, ero in una saletta riservata del Ristorante Sistina, in Via Sistina a Roma, di fronte al mitico Teatro e tempio dello spettacolo leggero e del musical italiano, palestra della premiata ditta Garinei & Giovannini e di tutti gli altri più famosi attori ed autori dello spettacolo più o meno leggero italiano.

Al tavolo del Ristorante una ventina di commensali, italiani e giapponesi misti, ed io ne ero praticamente uno degli ultimi, essendo stati assegnati i posti rispettando scrupolosamente le scala gerarchica dell’organigramma aziendale, per cui, il mio dirimpettaio era il disegnatore giovane mentre, alla mia sinistra, c’era il mio unico collega pari grado, assunto da meno d’un mese e, di fronte a lui, c’era l’usciere.

A capo tavola, quindi dall’altra parte rispetto al mio posto, sedeva l’anfitrione, l’Amministratore Delegato della nostra Società, il dott. Fukazawa di nazionalità giapponese e di religione buddista.

E fu appunto l’Amministratore Delegato che, prima di iniziare la cena, volle motivare quella serata ricordandoci che, in quel nuovo anno appena iniziato, il nostro Stabilimento di Manfredonia sarebbe stato ultimato entrando in produzione, voleva augurare quindi buon lavoro a noi dipendenti e, soprattutto, una lunga e ricca vita alla nostra Società, sottolineando a questo punto che tutti gli auspici erano favorevoli in quanto, fra pochi giorni, sarebbe iniziato il nuovo anno cinese rappresentato dal “cavallo”, animale nobile che galoppa e corre e che, quindi, avrebbe fatto galoppare anche il nostro Stabilimento, la nostra Società con tutti i suoi dipendenti.

La costruzione dello stabilimento era organizzata e diretta dal Giappone. Tutti i disegni tecnici arrivavano dal Giappone infatti, anche se non pervenivano direttamente alla sede dell’Ufficio, ma al domicilio dei tecnici giapponesi, come effetti personali spediti da privati a privati. Questo sistema, che era solo ipotizzato dai tecnici italiani, io ebbi modo di accertare con sicurezza quando poi fui messo a dividere la mia stanza con i tecnici giapponesi, ciò finché non fu assunto l’altro Ragioniere e, con il Capo contabile, potemmo creare insieme un “reparto”.

Ma fintanto rimanevo il più giovane e l’ultimo arrivato, ero il primo a traslocare ad ogni nuovo arrivo, finché mi sistemarono nella grande stanza dei giapponesi, ed ebbi modo di studiare loro ed il loro modo di pensare, e questo ancor più quando arrivò a Roma il Dr. Yamada, l’unico “consulente” amministrativo.

Era un laureato in giurisprudenza, anche lui poco più vecchio di me, e voleva assolutamente imparare l’italiano, per cui facemmo un patto, lui con me parlava italiano ed io dovevo correggerlo in caso di errori, ed io con lui parlavo in inglese, con lo stesso obbligo per lui. Per aumentare le occasioni di “studio”, evidentemente, prese a venire con noi, nell’intervallo meridiano, a mangiare nella vicina mensa del Ministero dell’Agricoltura, almeno fino a quando non arrivò a Roma la sua famiglia. Anche costui ritornò poi in Italia in quel fatidico anno 1976.

In effetti, il numero degli impiegati variava continuamente per le nuove assunzioni e per i trasferimenti a Manfredonia dopo il periodo, più o meno breve, di istruzione a Roma.

Per ogni team di italiani, c’era la corrispondente squadra di giapponesi. In ordine gerarchico, dopo Fukazawa, c’era l’ingegnere Saito, responsabile giapponese della costruzione, e il chimico capo della produzione industriale, dr. Komori. I due responsabili avevano alle proprie dipendenze gruppi di tecnici e chimici giapponesi che svolgevano il lavoro materiale, di numero molto variabile.

A fronte di questi, c’era il gruppo dei chimici italiani, capitanati dal Dr. Giavelli, proveniente dalla Squibb svizzera, ma da una fabbrica in Francia, dove aveva conosciuto la moglie che aveva sposato di corsa, pochi giorni prima di andare in Giappone.

A capo del laboratorio chimico ci sarebbe stato il Dr. Cantarella, torinese dalla Schiaparelli, poi c’era il Dr. Giappicucci, romano che aveva girato il mondo, e il Dr. Fontana, bolognese. Tutti questi chimici erano molto bravi e molto esperti, specie i primi tre. L’ultimo dei chimici era il Dr. Giorgio Gilli, nato nel Trentino ma figlio di coniugi baresi, giovane ed appena laureato.

L’altro staff tecnico, quello che si occupava della costruzione, era capitanato dall’Ing. Ciceri, milanese, bravo ed esperto, sempre distratto o assorto nei suoi pensieri, altissimo e dalla camminata sbilenca.

Lo staff dell’ing. Ciceri, tutta gente molto esperta, era in gran parte già al lavoro presso il cantiere di Manfredonia, come il geom. Caponio, barese, che praticamente costruì tutte le parti in muratura. C’era un bravo perito meccanico milanese e uno strumentista pneumatico marchigiano, si era alla ricerca di uno strumentista elettronico.

Restavano invece fissi a Roma i due disegnatori tecnici, un giovane ed uno molto anziano. Infatti i disegni giapponesi venivano ridisegnati per i tecnici italiani, rivisti dai tecnici giapponesi, approvati dall’Ing. Saito e, quindi, firmati dall’Ing. Ciceri. Gli impianti chimici subivano la stessa procedura. Le caratteristiche tecniche arrivavano dal Giappone, tradotte in inglese dai tecnici giapponesi, ritradotte in italiano dai chimici e dai tecnici italiani.

Si stendeva quindi l’ordine di fornitura in italiano che, però, prima di essere trasmesso, veniva tradotto in inglese dagli italiani, poi in giapponese dai tecnici nipponici, approvato dall’Ing. Saito e firmato dal Dr. Giavelli o dall’Ing. Ciceri, oltre che dall’Amministratore Fukazawa con valore di impegno finanziario. Si saltò un passaggio quando il Dr. Komori, il chimico, andò a Manfredonia a seguire direttamente i lavori.

Tuttavia, prima di andar via, Komori ebbe un lungo colloquio con me, solo perché ero l’unico indigeno locale di Manfredonia. Si informò sulle abitudini locali, sui nomi dei medici, sui pediatri più bravi, sui ristoranti, sui meccanici riparatori d’auto, sulle farmacie e sui negozi più importanti, prendendo debita nota di tutto. Questo perché, verso la fine di agosto, portò a Manfredonia moglie e figlie.

Tutti gli ordini ed i contratti di fornitura dei materiali e dei lavori, venivano compilati dall’Ufficio Acquisti, dall’Ing. Porcelli, un anziano ed esperto pensionato, con lunga militanza nella Breda, affiancato da un avvocato barese.

Tutti i chimici italiani, che erano stati circa un mese in Giappone, per uno stage sugli impianti presso la casa madre, trattavano i corrispondenti chimici giapponesi con rispetto e simpatia, anche se, tra loro, ne sparlavano dicendone peste e corna. Gli altri tecnici italiani trattavano i giapponesi con curiosità e qualcuno con sufficienza.

Essendo la società nell’orbita delle Partecipazioni Statali, era stato concordato, evidentemente, che le forniture ed i lavori sarebbero stati affidati, nei limiti del possibile, alle altre aziende parastatali, con preferenza per le baresi e le meridionali. Ciò anche in considerazione che il Contributo a fondo perduto erogato dalla Cassa per il Mezzogiorno per i nuovi investimenti nel Sud, era in misura maggiore per gli acquisti da aziende del Mezzogiorno e, similmente, il finanziamento a tasso agevolato.

Tutte le opere edili e murarie erano affidate alla Società “Giovannini & Micheli”, introdotta presso tutte le aziende parastatali, gli impianti elettrici alla “Energie”, con sede a Bari, una società che aveva assorbito varie altre piccole imprese meridionali.

Due ingegneri di questa Società, la Energie appunto, vennero richiamati a discutere dei loro disegni esecutivi con l’Ing. Saito e l’Ing. Ciceri, in mia presenza, visto che dividevo la stanza con Saito e due altri tecnici giapponesi.

In pratica, Saito aveva trovato molte cose sbagliate nei disegni e negli schemi elettrici preparati. Lui ne aveva discusso, come al solito animatamente, con Ciceri che li aveva riferiti alla Energie e questi avevano contestato i rilievi perché ingiustificati.

Quando vennero i due giovani ingegneri, si sedettero davanti a Saito con molto sussiego e sufficienza. Dopo i primi preamboli, Saito prese il disegno e cominciò a svolgerlo sulla propria scrivania e, con un pennarello rosso, cominciò a segnare con grossi tratti, i punti errati, come un maestro che corregge il compito degli allievi.

Gli ingegneri della Energie prima reagirono timidamente, poi incominciarono a protestare, dicendo di aver seguito le direttive e le prescrizioni ricevute dal nostro ordine di fornitura, ma, quando Ciceri li invitò a rileggere l’ordine, confessarono di non averlo portato con sé, dimostrando la scarsa preparazione o la poca importanza data all’incontro. Ciceri prese la sua copia che io mi preoccupai di fotocopiare per i due tecnici, mentre Saito mise fuori la propria copia in giapponese.

Alla fine, pur non comprendendo quanto dicevano, essendo termini strettamente tecnici, con Ciceri che parlava in inglese con Saito ed in italiano coi due ospiti, dedussi che avevano davvero sbagliato, dimostrando di aver svolto con molta approssimazione il proprio lavoro, sottovalutando i committenti e, soprattutto, non avevano capito il significato di molte soluzioni tecniche adottate o solo richieste dai giapponesi, soluzioni che in Italia, all’epoca, erano sconosciute o non applicate, ritenendole inutili o inutilmente dispendiose. In pratica, davanti ad una soluzione tecnica per loro sconosciuta o semplicemente nuova, l’avevano ignorata adottando la propria o quella a loro nota, dando per scontato che i giapponesi si fossero sbagliati.

Qualche mese dopo, a Manfredonia, ero diventato amico del capo cantiere barese della Energie, colui che dirigeva i lavori, e non potei fare a meno di raccontargli la scena cui avevo assistito.

Da lui ebbi la conferma che i due ingegneri della Energie non avevano capito niente, che la Società aveva firmato il contratto di fornitura sulla base dei disegni predisposti dai due ma che, quando furono rifatti e corretti secondo la esatta interpretazione delle prescrizioni, risultò che il prezzo pattuito era stato esageratamente basso e poco remunerativo, e i due furono licenziati.

Stesso atteggiamento di sufficienza vidi nei tecnici di una grande e storica società siderurgica genovese, l’Ansaldo, alla quale erano stati ordinati i due fermentatori in acciaio inossidabile, cioè i giganteschi serbatoi nei quali avveniva la fermentazione della melassa, la prima e la più delicata fase della lavorazione. In questo caso erano meno giovani e si discuteva in via preventiva e senza disegni.

Qui, subito all’inizio, avvenne che uno degli ingegneri fece osservare che forse c’era stato un errore, in quanto era stato previsto un certo tipo di acciaio inox speciale anche per bulloni e dadi, mentre era risaputo che, in effetti, nessuno aveva mai usato bulloni di tale materiale. Alle insistenze di Saito, uno degli ingegneri si rivolse in milanese a Ciceri:

- «Via! Non perdiamo tempo! Lo convinca lei che tali tipi di bulloni non esistono in Europa, figuriamoci se li hanno loro!» -

- «Signori miei!» - rispose Ciceri: - «Se li hanno previsti, significa che “loro” li hanno e li usano anche!» -

Saito era un vero Samurai e aveva oltre quarantacinque anni. Il Samurai, mi spiegarono, era il capo ereditario di una grande e nobile famiglia e, quindi, oltre alle materie tecniche della sua facoltà, aveva avuto una educazione tipo principe regnante, cioè istruzione umanistica orientale, arti marziali giapponesi, uso delle antiche armi e studi tecnici presso le migliori Università, con Stage e Master presso le più importanti Università della California, USA.

Era alto e massiccio, con grande testone, tanto che, vedendolo da lontano, si sarebbe pensato fosse un “piccoletto” come i suoi connazionali; il suo modo di camminare mi ricordava quello tipico visto nel film, con cintura bassa sotto la pancia e passo leggero, quasi in punta di piedi. Parlava in ufficio un inglese ruvido ed elementare, con la sua voce gutturale, e capiva abbastanza bene l’italiano, anche se non lo dava a vedere e non lo parlava mai.

Questo per spiegare che aveva capito la conversazione dell’ingegnere italiano e, infatti, partì un ordine secco, in giapponese, verso il suo collaboratore, che uscì immediatamente e tornò dopo un quarto d’ora con un telex ed uno dei loro soliti foglietti in carta di riso sui quali scrivevano a mano, era l’elenco di tutte le fabbriche che producevano i bulloni in quel tipo speciale di acciaio: in Europa c’erano due svedesi, due tedesche e una italiana, in Giappone ben sei e una a Singapore.

I rapporti di lavoro tra Ciceri e Saito erano quanto mai tempestosi e animati, ed io ne ero, mio malgrado, il testimone. Avevo assistito a tante discussioni e battibecchi, ma avevo capito che, in fondo, si stimavano vicendevolmente. Naturalmente i diverbi nascevano sulle diverse vedute circa le soluzioni tecniche da adottare e sui prezzi da riconoscere ai fornitori, e avvenivano sempre in inglese, lingua che entrambi, evidentemente, dominavano perfettamente.

Se l’argomento era di natura chimica, allora al fianco di Ciceri interveniva il Dr. Giavelli e, con lui, Saito era sempre meno irruente e la conversazione aveva un tono più calmo e sommesso.

Una di queste discussioni a tre fu particolarmente lunga e complessa, trascinandosi per diversi giorni. Quando i due italiani parlavano tra loro, capitava spesso che conversassero in francese, forse perché sapevano che Saito non lo capiva, ma, una volta, anziché parlare di termini tecnici, Giavelli fece un commento piuttosto salace su Saito.

Io avevo la testa sul mio lavoro ma capii il commento ed ebbi un involontario scatto e sorriso poi, allarmato, alzai il capo e guardai prima Saito e poi Giavelli: Saito stava guardandomi con occhi furbi, Giavelli guardò prima lui poi me, allarmato. Da quel giorno i nostri due tecnici non usarono più il francese, ma parlarono in tedesco, una lingua di cui a stento conoscevo il significato di una diecina di vocaboli, oppure una lingua per me veramente ostica e del tutto incomprensibile: il bergamasco.





Il processo produttivo

Nella produzione di glutammato, i giapponesi avevano, come già detto, una esperienza più che secolare e, come sistema, avevano l’abitudine di registrare e conservare nella storia tutti gli incidenti e gli inconvenienti che si fossero verificati e incontrati nel corso del processo produttivo, di ogni tipo e genere.

I loro tecnici, prima di essere assunti, facevano uno stage aziendale e dovevano imparare a memoria tutti gli inconvenienti con tutti i relativi rimedi e le soluzioni adottate e praticate, e quanti più episodi dimostravano di conoscere, più probabilità avevano di essere assunti e impiegati sui reparti produttivi.

Negli uffici romani, come normale orario di lavoro, avevamo un intervallo per il pranzo per più di due ore, appena sufficiente per coloro che andavano a mangiare a casa propria, ma troppo lungo per me che mangiavo alla mensa del Ministero dell’Agricoltura, a cinquanta metri dall’ufficio, e che, in poco più di mezz’ora, avevo ben che finito tutto.

C’era sempre qualche collega dello staff tecnico che mi faceva compagnia alla mensa, mentre il più anziano dei disegnatori rimaneva in ufficio con il panino, e accadeva quindi, molto spesso, che si rientrasse in ufficio molto prima dell’orario previsto, rimanendo a chiacchierare nella grande stanza dei disegnatori, tra l’altro l’unica con finestre sulla Via Bissolati.

Fu proprio in questi colloqui con l’anziano disegnatore e con gli altri colleghi tecnici che appresi tutti gli aspetti più interessanti e particolari dello stabilimento e della produzione. Anzi, per non smentirsi, un pomeriggio il dr. Fukazawa, prima dell’orario di lavoro, sorprese me ed il disegnatore a colloquio davanti al disegno tecnico proprio del processo, e rivolse, sorridendo, un garbato e gentile richiamo all’anziano disegnatore ed a me di ignorare e dimenticare tutto quel che c’eravamo detti, essendo riservato.

Tra l’altro mi saltò subito agli occhi la stranezza del nome dato ai vari reparti di produzione: si partiva da “H2”, per andare poi a “H4”, “H5” e “H6”, saltando il numero uno e il numero tre. Appresi che l’H1 sarebbe stato il reparto per ottenere la melassa di barbabietola ma, la cosa più interessante, il reparto H3 poteva essere il reparto più importante dello stabilimento in quanto, con l’utilizzo di una parte della sostanza fermentata, vi si poteva produrre molti tipi di aminoacidi e in quantità industriali.

I reparti H2 e H5 formavano un unico blocco, avendo vari piani di lavoro in comune tra loro, anche se ben separati. Nello stesso blocco, al piano terra, c’era il reparto H6, dove si insaccava e confezionava il prodotto che, attraversando una cancellata, veniva stivato nel magazzino. Il reparto H4, grande forse più degli altri tre messi insieme, faceva blocco a sé e separato.

Mi spiegarono, in pratica, che la fabbrica era costruita a struttura modulare, nel senso che aveva spazio sufficiente per costruire il famoso reparto “H3” mancante e prevedeva dall’origine la possibilità di raddoppiare gli impianti esistenti, anche per le cosiddette utilities, cioè aria compressa, caldaie a vapore ed energia elettrica.

L’unica struttura che, anche ad un occhio inesperto, dimostrava di “largheggiare” come spazi e dimensione, era il laboratorio chimico, già pronto quindi a qualsiasi progetto di espansione. Infatti, tutto il processo di produzione industriale veniva ripetuto, in scala ridotta, nelle sale del Laboratorio chimico da dove poi si avviava, in effetti, l’intero processo produttivo.

Dopo qualche anno dall’inizio della produzione, parlando con un perito chimico italiano che lavorava in Laboratorio, mi riferì che aveva avviato, in via sperimentale, d’accordo con i chimici giapponesi, una specie di reparto H3, per poter quantificare, in scala ridotta, il prodotto che si sarebbe potuto ottenere nella eventuale lavorazione industriale.

Mi mostrò un recipiente in vetro, contenente, per un paio di litri, una polvere finissima e bianchissima, dicendomi che lo aveva ottenuto dal materiale fermentato che, normalmente, si buttava in fogna, che quella polvere era un aminoacido molto richiesto dalle industrie farmaceutiche che lo pagavano al prezzo di 40 mila lire (anni settanta) al grammo, mentre lui ne aveva prodotto in pochi giorni, nei ritagli di tempo, oltre due chili.

Il Dr. Cantarella era un chimico di vasta e documentata esperienza, ed era destinato a diventare il Capo del Laboratorio. Quando da Roma fu trasferito a Manfredonia, venne subito a cercarmi per chiedere informazioni. Ci accordammo per andare in auto insieme a Manfredonia un sabato, lui per trasferirsi con la moglie in albergo, io per portare a casa i panni sporchi da lavare, risparmiando le spese del treno.

Ebbi modo di conoscere lui e sua moglie, avendo la conferma che era un vero signore torinese dai modi fini e cortesi, poco esperto di viaggi in auto, tanto che, diceva, “avrebbe sbagliato strada anche nel “Sahara”. Non so cosa avvenne nei suoi pochi mesi di lavoro a Manfredonia, so soltanto che ancor prima dell’avvio dello stabilimento per la produzione industriale, il Dott. Cantarella se ne tornò, insalutato ospite, alla sua Torino ed alla sua Schiaparelli, raccogliendo allori e successi, come ebbi modo di apprendere, in seguito, dalla stampa.

Quasi tutti i giapponesi, in questa fase e prima di trasferirsi a Manfredonia, venivano da me per informarsi sulla vita paesana a Manfredonia, facendomi le solite domande sugli alberghi e sui ristoranti, o sui dottori o sui meccanici per auto. Ci fu uno solo, il Dr. Okada, un chimico piccoletto e sempre sorridente, che venne con una agenda multilingue, comprata in cartoleria, e mi chiese notizie e spiegazioni su tutte le festività italiane, ovvero le numerose giornate in cui, all’epoca, normalmente non si lavorava.

Ad ogni mia spiegazione, lui annotava con una matita a mina Pilot, naturalmente in giapponese, ciò che gli dicevo sulla pagina dell’agenda del giorno in questione. Poi rileggeva quanto scritto e ripeteva: - «A-scen-sio-ne, ne-skà? Ah so de-skà!» - e restava per un lungo minuto in silenzio.

Avevo iniziato a spiegare dettagliatamente le ragioni della festività, poi, specialmente per le religiose, mi trovai in difficoltà, perché, per esempio, tra Pasqua, Ascensione e Corpus Domini, il festeggiato era sempre lo stesso e lui mi chiese: - «Ancora per Gesù?» - e sorrideva scuotendo la testa.

Stesso commento per le festività della Madonna, finché arrivammo all’8 dicembre, che io non nominai ma che lui lesse distintamente e poi mi formulò la temuta domanda:

- «Che significa Imma-co-la-ta Con-ce-zione?» -

Ci pensai bene prima di rispondere e, infine, con un po’ d’inglese e un po’ di italiano, cercai di spiegargli il Dogma della Vergine e Madre.

Ci pensò sopra per parecchi minuti, guardando alternativamente me e l’agenda, poi guardandomi diritto negli occhi: - «Do you know it’s impossible? Ne-skà? (Lei sa che è impossibile? Nevvero?)» -


Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'avvio

I Lavoratori

Nella prima metà del mese di maggio del 1966, terminò il mio soggiorno a Roma e fui trasferito a Manfredonia, preparando il trasloco di tutto il resto degli impiegati che avvenne poi ai primi di giugno. In fabbrica c’era il Direttore, l’ing. Raffetto, milanese, che aveva già incominciato i colloqui per la scelta e l’assunzione degli operai.

Subito dopo la mia assunzione, a Roma, avevo ricevuto tra le mani, con l’incarico di classificare e ordinare, la montagna delle domande di assunzione dei miei compaesani che aspiravano ad un posto di lavoro in quella che era la prima industria installatasi a Manfredonia, e molti erano amici miei o solo conoscenti.

Con l’anno nuovo e avvicinandosi l’avvio della produzione, molti di quelli che prima aspiravano ad essere assunti come impiegati, rifecero la domanda per entrare come operai, e molti nascondevano il possesso di un diploma di scuola superiore.

Il dott. Cantarella, capo del Laboratorio chimico, mi aveva detto che, secondo lui, il miglior operaio addetto al Laboratorio sarebbe stato un “quasi” diplomato, considerato che non si sarebbero trovati degli esperti “analisti chimici” in zona ma si sarebbero dovuti istruire con corsi di formazione interni. Infatti, i primi assunti del Laboratorio furono giovani diplomati che, ai fini dell’assunzione, avevano nascosto il possesso del diploma.

A metà giugno fu assunto il grosso della manodopera ed ognuno aveva la propria destinazione, assegnatagli dal Direttore, coadiuvato dai vari capi reparto, i chimici italiani. Devo confessare che la scelta del Direttore fu quanto mai oculata e motivata, anche se spesso dovette ascoltare le “segnalazioni” delle varie autorità.

La maggior parte degli operai era, naturalmente, originaria di Manfredonia o quivi residente, ma v’erano anche provenienti da Monte Sant’Angelo, Mattinata, San Giovanni Rotondo e da Foggia, anzi molti dei tecnici della manutenzione erano foggiani.

All’inizio volli tentare di dare dei “consigli” al Direttore, ma lui mi fermò subito, invitandomi a restare al mio posto. Solo dopo aver rispettato la consegna, fu lui stesso che, in alcuni casi, mi chiese dei pareri su alcune persone, ma ponendomi delle domande ben precise alle quali dovevo rispondere con sicurezza, e senza commenti non richiesti.

Le domande di lavoro furono molte più di mille, ne furono assunti circa duecento che, immediatamente, acquisirono ottocento nemici, frustrati e inappagati, che stavano alla finestra pronti a denigrare gli assunti, la fabbrica, il lavoro e chissà che altro, in ciò motivati e incoraggiati anche da coloro che, ed erano molti, continuarono a svolgere il proprio vecchio lavoro, in nero.

Tutti gli operai furono assunti e inquadrati nel quinto livello, il più basso del Contratto di Lavoro, percependo un salario di poco più di quaranta mila lire al mese, ma quasi tutti restarono, con la speranza che, prima o poi, il livello sarebbe migliorato.

Furono assunti, per i reparti di produzione, operai edili, ex artigiani, ex operai dell’industria rientrati dal nord Italia o dalla Germania. Uno dei primi assunti era un sarto da uomo, ben conosciuto in paese che, evidentemente, aveva chiuso bottega e si era iscritto disoccupato all’Ufficio di Collocamento: questo determinò la chiusura di tante altre sartorie in paese.

Lasciarono subito il posto, licenziandosi, quelli che non potevano accettare un così misero salario, o perché impegnati con debiti o mutui ipotecari per l’acquisto dell’abitazione, e ripresero la via dell’emigrazione in Germania, oppure perché avevano altri sbocchi più remunerativi, ancorché precari, ed era il caso degli ausiliari della pesca marittima che guadagnavano occasionalmente molto di più ed in nero; un paio ritornarono ad imbarcarsi sulle navi mercantili, ed erano i diplomati dell’Istituto Nautico che, secondo me, tra gli Istituti Tecnici, per le materie studiate, è quello che forma i tecnici di più alto profilo.

Per le officine e i servizi tecnici di fabbrica, furono assunti meccanici ed ex artigiani, ma la ricerca fu ardua per l’assunzione dei tecnici patentati per la conduzione delle caldaie a vapore, non perché non si trovassero, ma perché non accettavano il salario loro offerto, per cui si andò alla vera trattativa, offrendo categoria superiore e superminimi. Stessa cosa per qualcuno dei meccanici o degli elettricisti più esperti.

Il primo e più anziano dei fuochisti patentati era anche colui che riuscì ad avere il salario più alto e la terza categoria, e tutti n’erano a conoscenza. Sarà stato per questo motivo che una notte, agli inizi dell’attività, fu chiesto il suo intervento per un’emergenza: nel pompare la soda caustica dal serbatoio al reparto, ci si accorse che la tubatura aveva una perdita e riversava in parte a terra.

Non era stato ancora creato il responsabile di turno ma, in ogni caso, non era suo compito intervenire, al massimo avrebbe dovuto svegliare il proprio superiore che, a sua volta, avrebbe dovuto svegliare il responsabile della manutenzione, che avrebbe dovuto svegliare una squadra d’operai per l’emergenza: tranne questi ultimi, gli altri erano tutti forestieri. Ma lui voleva dimostrare che la manodopera locale era all’altezza di qualunque situazione.

Era un fuochista che, fino allora, aveva molto navigato su navi mercantili in tutto il mondo. Mise insieme una squadra d’emergenza e, indossata la cerata dei pompieri, si pose sotto il grosso getto di una manichetta d’acqua che gli pioveva sul capo, sul cappello a falde larghe da pompiere, e con occhiali e saldatore, mise una “pezza” provvisoria alla tubazione senza interrompere il flusso della soda caustica nel tubo d’adduzione.

Al mattino, tutti i capi, italiani e giapponesi, appresero della cosa, e grande fu la meraviglia generale. Il Direttore, invece, lo mandò a chiamare sul tardi, si fece raccontare il tutto e poi: - «Per il buon esito dell’intervento, per non aver dovuto fermare la produzione, lei si aspetta un elogio. Poiché tuttavia non era suo compito ed ha rischiato la propria incolumità, sono costretto a comminarle un rimprovero ed un’ammonizione a non ripetere più un fatto simile.» -

- «Direttore!» - rispose il fuochista: - «Non potevo tirarmi indietro! Dovevo pur dimostrare di che pasta siamo fatti noi sipontini!» -

- «Infatti, prima le ha parlato il Direttore Responsabile! Come uomo e come tecnico, le devo dire solo: BRAVO!» -

Il fuochista si chiamava Candido Collicelli ed era una persona retta e generosa, oltre ad essere affettuoso padre di molti figli.

Ma v’erano anche aspetti negativi. Una mattina fui chiamato dal Direttore per mostrargli alcuni documenti, ma prima mi chiese di attendere che terminasse di firmare alcune carte, invitandomi a sedere. Ad un certo punto scoppiò a ridere fragorosamente, al suo solito, commentando: - «…orca! Li hanno fatto fuori in tre mesi!» - Chiesi di cosa si trattasse e lui mi spiegò: - «Mi chiedono di acquistare una nuova serie di chiavi fisse per l’officina. Sa che significa? Che in tre mesi dall’inizio dell’attività, sono sparite tutte le chiavi, se le son prese e portate a casa!» -

Naturalmente mi sentii molto umiliato e rammaricato della cosa, anche se, come tutti gli altri dirigenti e superiori, spesso dimenticavano che io fossi un indigeno. Ma poi, evidentemente, leggendo in faccia il mio sentire, continuò chiarendo:

- «Guardi che è una cosa normale, che avviene in tutte le fabbriche! D’altronde, noi possiamo mettere un controllore: ma quanto ci costa? Lei sa meglio di me quanto costa un dipendente, senz’altro più del milione di lire, quanto costano quattro serie di chiavi in un anno! Senza dire che poi ci vorrà un controllore del controllore, e via di seguito. Del resto, prima o poi, il fenomeno diminuisce e si esaurirà, anche se mai del tutto: completeranno la serie di chiavi a casa propria o in officina, no? Mica possono mangiarle?!» -

I giapponesi.

Non si trasferì a Manfredonia il Dr. Fukazawa, che rimase presso l’Ufficio di Roma con Yamada almeno per un altro anno, prima di essere sostituito da un nuovo Amministratore Delegato, sempre giapponese.

Si avviò la produzione, con gli immancabili intoppi e gli inevitabili errori. Ogni reparto di produzione aveva il suo Capo Reparto, uno dei bravi chimici italiani, affiancato dal “consulente” giapponese, uno o più di uno, già esperto della lavorazione. C’erano poi i Vice, almeno due per reparto, assunti tra i diplomati in Agraria, pratici di Chimica organica.

Purtroppo nessuno dei Periti Agrari era di Manfredonia ma provenivano dai paesi del circondario, e si trovarono a stretto contatto con alcuni altri diplomati operai. La manodopera fu divisa in gruppi e, per ogni reparto, c’erano i turni di lavoro che coprivano tutte le 24 ore della giornata, compreso la domenica.

I chimici italiani svolgevano il proprio lavoro durante le ore diurne e, dopo dieci ore, tornavano alle proprie case. I chimici giapponesi che li affiancavano erano presenti anche sedici o diciotto ore al giorno, soli o con altri colleghi. La colonia dei tecnici giapponesi in questo periodo era arrivata a circa una ventina di tecnici, compreso i capi chimici, e questi ultimi impartivano ordini, al principio, solo ai propri assistenti, ma spesso con modi violenti e poco usuali per la realtà italiana.

A questo punto, forse, è bene chiarire com’era intesa l’organizzazione aziendale giapponese. Il giapponese, per natura e per educazione, aveva il massimo rispetto per le gerarchie e per i superiori, ma era, più che un rispetto, quasi una venerazione, prova ne sia la serie di inchini che, per consuetudine, variavano a seconda il diverso grado gerarchico tra le persone che s’incontravano: più profondo e insistito se il superiore fosse uno o più gradini più in alto dell’altro.

Il lavoratore giapponese, una volta assunto da un datore di lavoro, era sicuro che ci avrebbe lavorato insieme per tutta la vita, sempre che si fosse comportato in maniera da soddisfare le richieste e le esigenze del lavoro. Il datore di lavoro, per togliere dalla mente del lavoratore ogni eventuale “distrazione” che potesse influire sul rendimento, si preoccupava direttamente della salute del dipendente e della sua famiglia, dell’educazione e dello studio, anche dello stesso dipendente se questi mostrava di esserne particolarmente inclinato, nonché della sua vecchiaia.

Un triste destino attendeva il dipendente cacciato via con demerito: difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto ad assumerlo e si sarebbe dovuto accontentare di mansioni umili e disprezzate da tutti, oppure diventare un mendicante o, peggio, un delinquente.

Se s’ingrandiva l’azienda, il lavoratore era felice perché, oltre a consolidarsi il proprio lavoro, poteva sperare che, un domani, se avesse meritato, poteva entrare nella stessa azienda suo figlio, ciò perché, in ogni caso, la società giapponese era soprattutto “meritocratica” ma anche “paternalistica”.

E proprio come un “pater familias”, severo e inflessibile, si comportava il “capo”, a qualsiasi livello, premiando i bravi e punendo i cattivi. Di sindacato, neanche l’ombra.

Tra i nostri chimici che erano stati nella “casa madre” giapponese, aveva fatto molto scalpore vedere che, prima di incominciare la propria giornata lavorativa, l’operaio giapponese, insieme a tutti i propri colleghi, ubbidiva agli ordini di un altoparlante e, vicino al proprio posto di lavoro, effettuava alcuni brevi esercizi ginnici e poi, sempre tutti insieme, si cantava l’inno dell’azienda in cui si ringraziava “il bravo padrone” o il suo bravo manager per la gratificazione del lavoro.

Tra i nostri operai, invece, fece molto scalpore il trattamento subito da uno dei vice chimici più bravi e simpatici, alto e atletico, quando fu rimproverato dal suo capo reparto, il Dott. Okada, piccoletto e minuto, che a voce alta e con il dito indice puntato all’altezza del diaframma del malcapitato, lo spinse a piccoli passi e piccoli colpettini fino ad un angolo del reparto dove lui continuava a subire, sull’attenti, i rimproveri ed i colpetti, inchinandosi e ringraziando.

La maggior parte dei tecnici giapponesi, i vice chimici, erano giovani con diploma di laurea e scapoli e, come da programma, sarebbero rimasti a Manfredonia un paio d’anni per poi tornare a casa. Vivevano in gruppi e venivano a lavorare in fabbrica, a volte, anche con una sola macchina per gruppo, per cui, quando uno di loro, per esigenze di servizio, era costretto a trattenersi in fabbrica, tutti gli altri rimanevano e cercavano di aiutarlo a sbrigarsi.

Per quanto riguarda l’inserimento dei giapponesi nella comunità paesana, non ci furono problemi di questo tipo, per il semplice motivo che i giapponesi facevano vita comunitaria tra loro e, rispetto all’ambiente circostante, non avevano altri contatti se non con negozianti o ristoratori.

In verità, ci fu un inizio d’inserimento finché restò a Manfredonia il Dott. Komori, con le sue due figlie adolescenti e la moglie che, in Giappone, era insegnante nelle scuole superiori. Madre e figlie, parteciparono alla sfilata del Carnevale 1966, indossando le loro ricchissime e coloratissime vesti giapponesi, ed ebbero molto successo, ma fu l’unica occasione.

In verità, con la facilità dei bambini nel superare tutte le barriere, le ragazzine giapponesi di Komori avevano contatti con alcune coetanee del grande stabile in cui abitavano, ed ebbi modo di scoprirlo quando, dopo insistenti sollecitazioni, andai a visitare la casa e la famiglia di Komori con la mia fidanzata.

Devo tuttavia confessare che la cosa che m’impressionò maggiormente, a parte l’accoglienza e la cortesia, fu quella di vedere bellamente affilate in mostra, su un lungo mobile basso, tante statuine affiancate, dalla più bassa alla più alta al centro, per poi continuare, dall’altro lato, sempre verso la più bassa: al centro c’era la statua scura di Sant’Antonio da Padova, affiancata dalla riproduzione in gesso del David di Michelangelo e dalla statua d’alabastro dell’Arcangelo Michele di Monte Sant’Angelo, poi i pupazzi del Presepe, con i pastori ed un San Giuseppe e varie altre figure, il tutto in una curiosa commistione di sacro e profano.





Gli italiani.

I diretti corrispondenti dei tecnici giapponesi erano i vice capo italiani, i periti agrari che fungevano anche da capo turno, tutti forestieri e tutti condividevano il generale pregiudizio dei nostri “vicini” conterranei e corregionali: cioè che “il manfredoniano”, in genere, ha poca voglia di lavorare.

In verità, questo pregiudizio è il risultato dell’assunto, questo sì esatto, che al “manfredoniano” piace soprattutto divertirsi, ma non è detto che, sul lavoro, siano tutti “sfaticati”. In pratica, sbagliato l’approccio, continuò in maniera sbagliata la gestione del gruppo di lavoro: qualcuno dei vice capo italiani credeva che il proprio compito fosse solo quello di denunciare il più sfaticato.

I capi reparto italiani organizzarono i gruppi di lavoro degli operai e ne stabilirono la turnazione. Erano tutti già esperti ed avevano già coperto, presso altre realtà industriali, i ruoli loro assegnati; tutti, tranne il più giovane, il Dott. Gilli, appena laureatosi con lode, che era il capo del primo reparto “H2”, quello che dava inizio alla produzione con la fermentazione.

Infatti il tipo di lavorazione era “a ciclo continuo” e “di processo”, come in quasi tutte le industrie chimiche, nel senso che la lavorazione iniziava nel primo reparto e passava quindi al successivo, fino al reparto finale di confezionamento.

La materia prima era immessa in uno dei fermentatori, un serbatoio gigantesco in acciaio inossidabile, e qui era inoculata la “coltura” dei “batteri”, con aria compressa e con qualche sostanza organica che aiutava il batterio a nutrirsi, il tutto sotto stretto controllo e con continui prelievi per analizzarne l’andamento.

La durata della fermentazione era più o meno prevedibile, ma dipendeva da molteplici fattori come la temperatura esterna, la consistenza zuccherina della materia prima e forse da qualcos’altro che non ho mai saputo.

Naturalmente i giapponesi erano esperti in quel tipo di fermentazione, mentre gli italiani erano alle prime armi, così che una volta, agli inizi, accadde che al momento di fermare la fermentazione perché completata, e passare la sostanza al reparto successivo, fossero presenti solo i tecnici giapponesi e non gli italiani che, al loro sopraggiungere al mattino, trovarono tutto già fatto, s’immagini con quanta soddisfazione, e questo creò i primi screzi conclamati fra italiani e giapponesi.

La giustificazione fu che, giunti a quel punto del processo, non c’era la possibilità di aspettare e ritardare le manovre di lavorazione, pena il danneggiamento della sostanza, con il conseguente riversamento in fogna del tutto e notevole perdita finanziaria, oltre alla mancata produzione.

Ma gli italiani rimproveravano ai giapponesi la mancata collaborazione nella programmazione: sapendo più o meno l’ora, si sarebbero fatti trovare, anche in ore notturne. Inoltre tutti capimmo il perché avessero scelto il Dott. Gilli come capo reparto dell’H2, era il più giovane, il meno esperto ed il più mite e educato, non “sgamato” come gli altri che protestarono e puntarono i piedi per farsi rispettare maggiormente.

Con gli screzi tra chimici italiani e giapponesi, si crearono tra gli operai i “partiti” dei favorevoli agli uni, pochi, ed agli italiani, la maggioranza, si figuri con quale risultato per la produzione. Il direttore, l’Ing. Raffetto, cercava di fare da paciere tra le due fazioni spiegando com’entrambi fossero utili ed indispensabili alla fabbrica.

Purtroppo, proprio in questi frangenti avvenne “l’incidente”. Pare che uno dei Periti agrari, un vice capo reparto, usando modi poco urbani, ma solo a voce, sollecitasse uno degli operai ad eseguire un certo compito e questi, anziché provvedervi immediatamente, si attardasse a chiedere un certo formale rispetto, il tutto sotto gli occhi di un “consulente” giapponese che, conoscendo il compito richiesto, esasperato, intervenne agitato afferrando e tirando per un braccio il riluttante operaio, facendolo cadere, o battere, contro qualcosa di metallico, procurandogli una leggera ferita e contusione.

Scoppiò un caso diplomatico internazionale, con implicazioni sindacali e patriottici, naturalmente alimentato e fomentato dai chimici italiani. La Commissione Interna, come all’epoca si chiamava la rappresentanza sindacale interna, chiese al Direttore le spiegazioni e l’allontanamento del “colpevole”, giacché non “sapeva” come si gestisce il personale in Italia.

Si cominciarono a svelare molti altri scontri o diatribe, più o meno ravvicinati, avvenuti prima dell’incidente; si misero nel mirino anche quei Periti agrari che si comportavano da “aguzzini” o spie; si venne a sapere che spesso a sera, dopo cena, molti dei giovani tecnici giapponesi ritornavano in fabbrica quasi ubriachi. Si vennero a sapere anche le motivazioni dell’abbandono del Dott. Cantarella che, da vero signore, quando capì che sarebbe stato un Capo Laboratorio solo a metà, senza polemiche, preferì tornare alla sua Schiaparelli.

La Direzione italiana, nelle persone dell’Ing. Raffetto, dell’Ing. Ciceri e del Direttore Amministrativo, intervenne per pacificare gli animi e riuscirono a far capire agli amici giapponesi che, in Italia, il “superiore” non può usare le mani (e per fortuna che non c’era ancora lo Statuto dei Lavoratori).

Fu concordato però che lo staff giapponese sarebbe stato ridimensionato come numero e che sarebbero stati scelti solo tecnici regolarmente sposati; intanto, dopo qualche giorno di “sospensione”, il chimico colpevole della rivoluzione ritornò in fabbrica, prestando però la sua opera in Laboratorio, prima di tornare in Giappone.

I chimici italiani si ritirarono sull’Aventino, tutti compatti e solidali, con a capo, naturalmente, il Dott. Giavelli. Pensiamo ci sia stata qualche trattativa, ma il risultato, in ogni modo, fu che in poco tempo si licenziarono Giavelli e Giappicucci, subito seguiti dall’Ing. Ciceri e questo, in ogni caso, fu una notevole perdita per la fabbrica, considerato la competenza delle persone.

Rimase il Dott. Fontana, non per accettazione della propria posizione dimezzata, ma per autentici e gravi motivi di famiglia che gli impedivano di trasferirsi. Rimase il Dott. Gilli che sembrò in un certo senso accettare la propria posizione dimezzata di capo del reparto H2, dove imperversava il piccoletto suo omologo giapponese, il Dr. Okada, destinato in breve tempo a raccogliere il frutto della sua vittoria diventando il capo dello staff tecnico giapponese, sostituendo prima il Dott. Komori, il capo della produzione, e poi l’Ing. Saito, capo dell’intero staff giapponese, tornati in Giappone. Anche il Dr. Okada ritornò in Italia nel 1976.

Dopo qualche mese, Gilli si licenziò per andare in Brasile, raggiungendo laggiù il Dott. Giavelli. Per il proprio addio, volle lasciare un “regalo” al Dott. Okada, ma fu una caduta di stile per quel simpatico e prestante giovanotto.

Il Dott. Fontana fu “distaccato” presso l’Istituto di Ricerche Breda di Bari. Qui continuò, ed approfondì, una sua personale ricerca sui sistemi di depurazione delle acque reflue, sfruttando anche quanto acquisito nel nostro stabilimento e, dopo qualche mese, tornò nella sua Bologna e mise su, prima uno Studio di consulenza industriale, proprio sui sistemi di smaltimento e depurazione delle acque, poi brevettando un vero impianto tecnico.

Gli effetti “dell’incidente”, con tutto quel che seguì, si sentirono e perdurarono nel tempo e, secondo me, cambiò poi radicalmente tutto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti degli italiani. Se qualcuno dei nostri “ospiti” poteva aver avuto l’idea di integrarsi maggiormente nell’ambiente cittadino o in quello di lavoro, dopo “l’incidente” dovette cambiare idea e preferì restare al suo posto.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'esterno

Il Paese.

Manfredonia, dunque, fu preferita dai giapponesi proprio perché un deserto vergine, industrialmente parlando, fuori da ogni altro distretto. Il Dr. Fukazawa mi raccontò che il posto gli era piaciuto dal primo momento, gli era piaciuto il paese e gli abitanti, e gli era piaciuta l’Amministrazione Comunale.

Era allora Sindaco il Dott. Nicola Ferrara, democristiano, che nulla aveva fatto per farli arrivare, ma fece molto per farli restare. Per funzionare, una qualsiasi industria ha bisogno, oltre che del suolo, dell’energia elettrica e d’acqua, molta acqua, ma soprattutto, all’epoca, di molte, moltissime licenze ed autorizzazioni, rilasciate da tantissime Autorità, ed ognuna “istruiva” un pratica “a hoc” che aveva bisogno di stimolo e controspinte per avanzare.

Per fortuna, di tutte queste incombenze se n’occupò il collega Dott. Nevio Russo, bravissimo e competente, di Foggia e fratello dell’On. Vincenzo Russo. Con la sua competenza e bravura, subito dopo aver completato tutte le pratiche per il nostro Stabilimento di Manfredonia, fu chiamato dall’IRI per realizzare lo Stabilimento Alfasud a Pomigliano d’Arco.

Nevio Russo si trasferì all’IRI per conto proprio, ma, dopo pochi anni, ci fu un vero e proprio esodo di massa dall’EFIM all’IRI, a seguito della nomina dell’Avv. Sette a Presidente appunto dell’IRI, che volle con sé anche il dott. Zurzolo, il quale, prima come Direttore, divenne poi Presidente dell’IRI a sua volta.

Nelle sue incombenze Russo era affiancato ed aiutato dal nostro Direttore Amministrativo, il Dott. Calabrò, proveniente dalla Manetti & Roberts di Firenze, ex Ufficiale di Marina che aveva effettuato il proprio servizio militare proprio presso il gran palazzo della Marina a Roma, sul Lungotevere.

Ed infatti, destò molta meraviglia, tra gli impiegati e gli Ufficiali della Capitaneria di Porto di Manfredonia, l’immediatezza con cui da Roma, dal Ministero, arrivò l’autorizzazione all’installazione del deposito costiero sul Porto, tanto che, per tutto il periodo in cui rimase in servizio lo stesso funzionario, tutti gli anni, quando andavo a rinnovare la concessione demaniale, mi accoglieva sempre con molta cordialità e ossequio.

Per parte sua, il Sindaco Ferrara impostò molto bene la pratica dell’insediamento della prima industria di Manfredonia, ottenendo subito le delibere e le approvazioni del Consiglio Comunale e tutta la nostra Società, Amministratori e Direttori, erano entusiasti dell’operato del nostro Sindaco che aveva reso, con la sua opera, molto breve il periodo morto tra la progettazione e l’inizio dei lavori.

La sua alzata di genio, infine, fu quella di far anticipare dalla Società Ajinomoto-INSUD le spese per la linea di alta tensione ENEL, a carico del Comune, impegnando con contratto lo stesso Comune di Manfredonia alla restituzione della spesa, non appena ricevuto il finanziamento statale.

Per quanto riguarda l’acqua per uso industriale, fu attinta dalle vasche di colmata del Consorzio di Bonifica, ex Lago Salso, e da una sorgente di Siponto.

Ricordo che, stando a Roma, ebbi modo di studiare una grande carta geografica della piana del Tavoliere e del Gargano, con l’indicazione di tutte le fonti e le acque di superficie e sotterranee, perfino con l’indicazione delle zone più o meno sismiche e le curve dell’altitudine sul livello del mare, v’erano poi evidenziate tutte le correnti marine del Golfo di Manfredonia e le profondità del mare.

Il disegnatore anziano che la custodiva, invalido di guerra, ma ex paracadutista della Folgore ed ex agente segreto militare durante la guerra, mi fece notare che si trattava di una carta militare, non facilmente reperibile, e che non bisognava mostrarla troppo in giro.

Quando arrivarono i mobili ed i documenti contabili da Roma a Manfredonia, notai subito il rotolo della carta geografica tra il fascio di disegni arrotolati trasportati da uno dei facchini, e la tirai subito via, nascondendola in un posto sicuro.

Dopo qualche tempo, fui chiamato dal Direttore nel suo ufficio, dove si intratteneva con un gruppo di visitatori estranei, e mi chiese se sapessi dove fosse andata a finire quella carta geografica che stava a Roma, ed io gliela tirai giù dal suo armadio e la mostrammo ai visitatori.

Per curiosità restai presente alla riunione e appresi che erano dei tecnici della B.P.& D. di Vicenza, che dovevano progettare un grande stabilimento petrolchimico nella zona e, vista la presenza d’acqua nelle vasche di colmata sulla litoranea per Zapponeta, dedussero che il posto migliore sarebbe stato appunto nella zona delle vasche (già Lago Salso), ma questa è un’altra storia.

La presenza a Manfredonia di una vera industria, la prima, e per i primi anni l’unica, non fu percepita nella sua essenza dagli abitanti indigeni, pur essendo veramente un vero gioiello della tecnica; i muratori che ci lavoravano, mi ricordo, non capivano la necessità di creare una “gabbia” in cemento armato “legato” tra le sue colonne delle fondamenta, anche nella parte interrata, sotto il piano di calpestio, tecnica imposta ora per legge per il rispetto delle norme antisismiche, ma questo accadeva già nel 1965.

In fondo, la realtà industriale, faceva parte di una cultura completamente avulsa dal territorio. Prendiamo ad esempio le banche locali, i rapporti con le quali vissi direttamente e personalmente.

C’erano allora in paese una banca a livello nazionale, il Banco di Napoli, istituto di diritto pubblico pachidermico e clientelare, che, in sede locale, rivolgeva le sue attenzioni al credito agricolo e fondiario, oltre che al servizio di Tesoreria con gli enti locali; l’altra era una banca locale abbastanza importante, la Cassa di Risparmio di Puglia, che si rivolgeva al commercio, all’artigianato e, quindi, allo sconto ed incasso di cambiali e tratte.

La nostra Società, almeno agli inizi, aveva pochi soldi da depositare nei conti bancari, ma chiedeva servizi e, quindi, dava lavoro di ogni tipo agli sportelli, naturalmente ben remunerati.

Il nostro prodotto era venduto nell’Italia del Nord e, per la maggior parte, all’estero, e nessuna delle due banche, almeno nelle figure dei funzionari responsabili, mostrava di essere interessata in queste operazioni.

A quei tempi, versare in conto per l’incasso un assegno bancario fuori piazza, era un’operazione che qualsiasi banca perfezionava in oltre un mese, se andava bene, e qualsiasi funzionario, per accogliere il servizio, doveva fornirsi di “carte” e garanzie sulla solvibilità del traente, questo anche se i nostri clienti erano la Star e la Knorr, con un assegno il cui importo, all’epoca, rappresentava una cifra pari al costo di due appartamenti.

Le nostre ricevute bancarie all’incasso, all’epoca poco conosciute in zona, erano onorate più e meglio di una cambiale da una qualsiasi delle ditte del nord nostra cliente e debitrice, ma per i funzionari del paese erano più o meno “carta straccia”, figurarsi se le accettavano per lo sconto.

Emettere un Modello A/Export per la vendita di merce ad un cliente estero, era un’operazione nuova e sconosciuta per parecchi funzionari di banca, per cui, per essere perfezionata, nella migliore delle ipotesi, richiedeva almeno dieci giorni.

Ogni operazione di vendita all’estero poteva essere finanziata con una “anticipazione all’esportazione”, a tasso molto agevolato, per la quale non c’era bisogno di “istruire” una pratica di scoperto di conto, secondo il sistema classico del fido, ma che, essendo un’operazione detta di “credito documentario”, era come una medaglia di merito che la banca si accreditava nei confronti della Banca d’Italia e dell’ICE: ma solo nominarla metteva in ambasce il funzionario di Manfredonia. Tant’è che fummo, prima costretti, e poi subito blanditi dalle principali banche di Foggia e di Bari.

La concorrenza tra le banche veniva fatta con l’offerta di tassi, attivi per i clienti, invitanti ed in nero, cioè in contanti e fuori dal conto: c’era un tasso ufficiale, conteggiato negli estratti conto bancari, ed un “di più” a parte, versato in contanti annualmente.

Era una pratica diffusa e generale, applicata, naturalmente, nei confronti dei “migliori” clienti, almeno fino all’introduzione della riforma tributaria dal 1974: prima, gli interessi sarebbero stati assoggettati al pagamento dell’Imposta Complementare (l’IRPEF di allora), ma non c’era un controllo incrociato tra quanto dichiarato dalle banche e quanto denunciato dal ricevente, per cui era una scelta affidata al “buon cuore” del contribuente.

La nostra Società, come tutte, ma proprio tutte le altre società italiane dell’epoca, utilizzò gli interessi attivi per crearsi i cosiddetti “fondi neri”, utili per “mazzette” e bustarelle.

Insomma, almeno agli inizi, noi eravamo “ottimi” clienti per le banche baresi e foggiane, discreti clienti per Manfredonia. E noi giovani impiegati imparammo tanto dal Dott. Roberto Italia, nel breve periodo che rimase presso di noi, prima e dopo l’epatite virale. Lui “negoziava” con le banche, nel senso che “dettava”, le regole applicabili ai nostri conti correnti, per cui l’assegno della Star ci veniva accreditato con valuta di tre giorni lavorativi; il modello A/Export, già firmato dalla Banca, era nel nostro cassetto e veniva da noi compilato non appena completato il carico del TIR tedesco o olandese con il nostro prodotto e, in certi giorni, di TIR stranieri potevano esserci anche più di uno.

Non c’era niente di illegale, anzi era una pratica comunemente applicata in tutta l’Europa, per non far attendere il camionista, per non far andare avanti ed indietro il funzionario di banca o il Direttore: la firma della Banca serviva a garantire che l’esportazione fosse effettiva e reale, non fasulla, e che il prezzo pattuito fosse giusto e remunerativo, e quest’ultimo controllo era chiaramente al di fuori della portata di un funzionario di banca.

Solo dopo qualche anno, quando la Banca d’Italia incominciò a diffondere il proprio tabulato sui movimenti bancari per Provincia o per zona, vedemmo arrivare i funzionari delle due banche locali, accompagnati dai direttori responsabili a livello foggiano, a “mendicare” maggior lavoro presso i loro sportelli, ma era già cambiata l’epoca.

Molte incomprensioni le avemmo anche con gli autotrasportatori locali. La maggior parte del nostro prodotto, come detto prima, veniva venduta all’estero, nel nord Europa e viaggiava con i TIR stranieri che, venuti in Italia a scaricare, oppure che tornavano scarichi dalla Grecia o dalla Turchia, e se ne andavano al nord con il nostro prodotto, con spese a carico del destinatario, stesso percorso per i camion Star e Knorr.

Ma capitava abbastanza spesso di aver bisogno di noleggiare diversi autotreni per il nord Italia, ad esempio per Trieste, dove si completava il carico di un treno che, partendo da Trieste, proseguiva il suo viaggio verso l’est europeo.

Non ci poteva quindi essere nessun contratto di “esclusiva” con i trasportatori locali, ma i contatti erano abbastanza frequenti, anche perché molte autocisterne locali, provenienti dagli stabilimenti del centro nord, venivano utilizzate dai nostri fornitori per venire a scaricare presso il nostro stabilimento. I rapporti, comunque, iniziarono con reciproca soddisfazione.

Quando il lavoro incominciò a diventare più interessante, i nostri autotrasportatori, consorziati tra loro, cominciarono ad aumentare le loro pretese, mentre il nostro ufficio acquisti cominciò a chiedere sconti.

Forse ci fu una certa supponenza da parte dei trasportatori locali che tentarono di “forzare” le decisioni dei nostri responsabili, resta il fatto che i rapporti cessarono quasi del tutto, ricorrendo a quelle agenzie di intermediazione che assicuravano il “carico di rientro”, a prezzi molto modici, ai “padroncini” che dal nord, venivano a scaricare al sud.

Uno dei miei collaboratori, addetto all’ufficio spedizioni, che aveva quindi continui contatti con gli autotrasportatori, ma che comunque era l’ultimo anello della catena decisionale, una mattina trovò le quattro gomme della sua auto tagliate con il coltello.

Simile approccio supponente si ebbe con i piccoli fornitori locali, artigiani e commercianti: sembrava quasi che tutti fossero convinti che “dovevamo” pagare una specie di differenza in più per “il privilegio” di essere “ospitati” a Manfredonia.

Il nostro Ufficio Acquisti aveva i listini prezzi di tutto il materiale che ci serviva, quando per piccole quantità ci si rivolgeva ai fornitori locali, si veniva a scoprire che questi applicavano ricarichi eccessivi ed ingiustificati.

Gli artigiani presentavano preventivi capotici e forfettari. Quando l’Ufficio Acquisti li chiamava e discuteva stendendo gli stessi preventivi in maniera analitica e precisa, si scontravano poi sul margine di guadagno da applicare.

Come esponente della “fauna” locale, cercavo di far capire ai miei compaesani che eravamo in un’economia di mercato, che v’erano commercianti e artigiani in zone limitrofe che si accontentavano di guadagnare meno, ma non tutti lo capivano.





I “concorrenti”

La materia prima per il glutammato era la melassa di barbabietola, cioè la prima lavorazione dello zuccherificio, ed era quindi prodotta dai tre grandi gruppi industriali, nostri grandi nemici che, non solo ce la rifiutavano, ma ostacolavano tutti i nostri contatti con gli altri produttori europei, perché, come ebbi modo di verificare, lo spionaggio industriale non era prerogativa solo dei nostri amici giapponesi, ma di tutti i grandi gruppi industriali.

Il Mercato Comune Europeo “premiava” gli esportatori di materie prime e, quindi, anche delle sostanze zuccherine, per cui, per riscuotere quali produttori ed esportatori tali “premi”, i nostri concorrenti preferivano “esportare” il melasso di barbabietola, anziché venderlo in Italia.

C’era in Europa una specie di Associazione internazionale che riuniva tutti i produttori di zucchero e materiale accessorio, allo scopo dichiarato di favorire l’incontro tra la “domanda e l’offerta”, in verità era un vero e proprio “cartello” che decideva il prezzo delle materie prime del settore e controllava che gli associati applicassero il prezzo concordato.

Annualmente, al momento opportuno per la “campagna” di vendita, i produttori si riunivano in una sede europea predefinita, come Montecarlo nel Principato di Monaco, oppure Rotterdam, o ancora Zurigo, e qui si svolgevano “gli incontri” tra (i pochi) venditori e (i pochi) compratori con il sistema delle “aste aperte”, vale a dire che, tra divieti ed esclusioni, il venditore poteva scegliere il compratore a proprio gradimento, magari rifiutando il cliente con la cravatta a righe o gli occhi a mandorla, subito imitato dagli altri colleghi produttori.

I giapponesi, dopo la prima volta in cui furono emarginati, rimanendo a mani vuote, trovarono subito il sistema per aggirare l’ostacolo dei divieti. L’acquisto del melasso per la nostra fabbrica veniva allora effettuato tramite un affarista greco, un finanziere che, nel suo paese, a Igoumenitsa, era titolare di una concessione per la produzione di zucchero ma che, secondo me, non aveva neanche un macinino per poterlo produrre.

Lui acquistava a nome proprio, ma non soltanto per conto di nostri giapponesi, anche per altri. Doveva essere una persona nota nell’ambiente, tant’è che i nostri amici giapponesi, sempre molto prudenti prima di fidarsi, gli concessero ampio credito e gli mettevano a disposizione anticipatamente le somme in dollari per partecipare alle aste.

Anche lui si fidava dei giapponesi, sebbene poi, puntualmente, nell’imminenza della gara, ci telefonava per chiedere conferma dell’avvenuta apertura di credito, dell’importo, della banca emittente e quella ricevente.

Lui si aggiudicava i lotti di materia prima e, solo dopo l’acquisto, apprendeva il paese d’origine di quanto acquistato. Per cui si verificava, e si verificò, il caso che dal porto di Ravenna partì una nave greca carica di melasso. Durante la navigazione in Adriatico i documenti viaggiarono verso Marsiglia dove, in Dogana, la merce venne “nazionalizzata” come francese e decurtata dal complessivo quantitativo previsto nella originaria licenza di importazione.

All’arrivo nel porto greco di Igoumenitsa, la nave trovò la documentazione in regola per “nazionalizzare” in Grecia la stessa merce di provenienza francese, che però, subito dopo, proseguì, senza scaricare, per il porto di Manfredonia dove venne definitivamente “nazionalizzata” e scaricata nel nostro deposito costiero.

Il Mercato Europeo “premiava” quindi il produttore italiano, l’esportatore francese e quello greco, tutti per la stessa merce mai uscita dall’Adriatico.

Una volta si verificò che, mentre la “nostra” nave stava scaricando il melasso nei serbatoi sul porto di Manfredonia, al largo, in rada, si trovasse un’altra nave che attendeva il proprio turno per “caricare” il melasso di barbabietola prodotto da uno dei tanti zuccherifici della provincia di Foggia e destinato chissà dove.

Naturalmente i nostri concorrenti, dopo i primi casi, cercarono di creare altri ostacoli, ma non potevano lottare contro l’ineffabile affarista greco che, altre volte, si era prestato anche al loro servizio. All’occorrenza, in certi casi, il nostro amico greco si serviva di “agenti terzi” di facciata, per compensare i quali ci chiedeva, in aggiunta all’apercredito, una congrua “mazzetta” di dollari in contanti: e qui tornavano molto utili i nostri “fondi neri”.

Potrebbe a questo punto sorgere spontanea la domanda: - «Ma perché non acquistare direttamente il melasso presso i produttori foggiani?» - la domanda è facile, la risposta meno, a parte una caratteristica tecnica del melasso foggiano che richiedeva una ulteriore lavorazione che non sono in grado di spiegare.

I proprietari degli zuccherifici foggiani erano sempre gli stessi a livello nazionale e, al principio, ci fornirono anche piccoli quantitativi di melasso, ma il “nostro” glutammato tagliava le gambe al mercato del “loro” prodotto e, finché il mercato tirava e c’era lavoro per tutti, tolleravano la nostra presenza, ma una volta andato a regime lo stabilimento, la produzione totale annua creava un surplus di offerta a livello europeo e si creò una vera e propria guerra di resistenza.

Eppure il core business degli zuccherifici non era il glutammato, però teniamo presente che, per lo zucchero, avevano una lavorazione fortemente stagionale, mentre il glutammato poteva tenere impegnate le maestranze a tempo indeterminato anche nei periodi morti; che la materia prima non dovevano acquistarla ma l’avevano in casa; che insomma il ricavo del glutammato era tutto e solo “frutto”.

Poi, io che sono abituato a pensare male, ritengo che, mentre per lo zucchero, tutta la filiera produttiva era controllata dall’Intendenza di Finanza per assoggettarlo ai dazi e gabelle previste, per il glutammato la Finanza verificava solo la materia di partenza impiegata per la produzione, mentre, il prodotto finito non era sostanza zuccherina, quindi non era soggetto a dazi, e si poteva vendere anche senza fattura e senza IVA.

Non vorrei sembrare un credulone, ma mi convinsi che, dopo quell’unico caso di due navi presenti in contemporanea nel porto di Manfredonia per il melasso, proprio perché a quel punto si poteva giustificare l’interessamento della Magistratura, dopo qualche tempo acconsentirono a venderci il melasso degli zuccherifici foggiani e molisani.





La Burocrazia

Come Società a partecipazione statale, la nostra era quanto mai rispettosa delle leggi e regolamenti, anche perché non c’era nessun “padrone” che sollecitasse diversamente, e gli stessi giapponesi, per loro mentalità, erano quanto mai rispettosi delle norme fiscali e tributarie.

Nei nostri contatti con tutti gli impiegati pubblici, era quasi diventata una canzone dover ricordare che non avevamo interesse a trasgredire, lottando per superare la convinzione del Funzionario Pubblico per il quale “tutti sono evasori, fino a prova contraria”. Per fortuna, c’erano molti funzionari intelligenti che capivano la nostra filosofia di approccio alle leggi e la condividevano, per cui, da controllori, erano quanto mai collaborativi.

Fin dalla costruzione dello stabilimento, per esempio, per la presenza in fabbrica di un deposito di “destrosio”, materia zuccherina, eravamo assoggettati, per il prelievo e il carico, della presenza di un Funzionario dell’Intendenza di Finanza di Foggia, che, con l’assistenza di un graduato della Guardia di Finanza, per legge, dovevano sovrintendere a tutti i movimenti della stessa sostanza e controllare che ne avvenisse la registrazione, a mano, su di un grosso registro.

In breve, quando capì che nessuno aveva in mente di carpire il destrosio per fare le torte o altro, rinunciò all’assistenza del finanziere e divenne lui stesso l’impiegato addetto alla registrazione ed il primo a raccomandare la nostra “onestà” ai propri colleghi.

Infatti, per la dichiarazione in dogana dei TIR destinati all’estero, sarebbe stato necessario che gli stessi TIR, dopo il carico, venissero accompagnati in Dogana, al centro del paese, qui controllati e “piombati”, ricevessero le “carte” per la frontiera e poi tornassero nella nostra fabbrica per ritirare gli altri documenti bancari e contabili per il destinatario.

Con la raccomandazione del nostro Funzionario, i documenti venivano inviati in dogana, vistati e firmati, e tornavano, insieme ad un Agente Finanziere, nella nostra fabbrica dove lo stesso finanziere controllava e piombava il carico e poi veniva riaccompagnato in Dogana, mentre il TIR ripartiva direttamente per la sua destinazione.

Questo era possibile perché i funzionari della dogana si erano convinti che potevano fidarsi sulla esattezza delle nostre carte, cioè che la quantità descritta era esatta, che il prezzo era quello vero e che non veniva caricato nessun altro prodotto oltre a quello scritto e che, quindi, ad un eventuale controllo alla frontiera sarebbe filato tutto liscio e regolare.

Secondo i principi generali, risaputi ma non espressi, per la convivenza e la collaborazione con gli Uffici statali e gli organi di controllo, essendo la nostra una Società con una contabilità trasparente, anche la cosiddetta “corruzione” era trasparente: il “panettone” natalizio ci era regolarmente fatturato con l’indicazione di nome, cognome e indirizzo del destinatario, per cui molti Funzionari ci “pregarono” di essere esentati dal regalo.

Alla Dogana, invece, non essendo il nostro un prodotto di largo e comune consumo, era destinato un “pacco” contenente carta per scrivere, cancelleria e materiale vario per ufficio, che sopperiva alle manchevolezze della fornitura statale. Ai Carabinieri fu donata l’insegna luminosa e messo a disposizione il nostro fotocopiatore.





Le Relazioni Industriali

Mi piace ricordare che, per la maggior parte, gli operai dello Stabilimento furono assunti in pieno periodo di campagna elettorale per le elezioni amministrative locali, che confermarono Sindaco il democristiano Nicola Ferrara, con un vasto consenso per tutto il Partito.

Dopo qualche mese, ci furono in fabbrica le elezioni per la nomina della Commissione Interna ed ottenne quasi un plebiscito la C.G.I.L. Non sono settario, è che anche io, personalmente ed apertamente, m’impegnai per la campagna elettorale a favore della D.C. avvalendomi della collaborazione di freschi dipendenti della fabbrica, gli stessi che, una volta assunti, non solo entrarono nella CGIL, e fin qui non ci vedo niente di male, ma fondarono poi a Manfredonia la prima Sezione del PSIup, l’estrema sinistra anche rispetto al P.C.I., con sulla parete di fondo una grande fotografia del “Che” Guevara, con sigaro, basco e stella rossa.

Non essendoci, naturalmente, passate esperienze industriali nella zona, tutto il ruolo del Sindacato in fabbrica dovette essere inventato, e non ci furono troppi problemi se non fosse poi sopraggiunto il famoso ’68, “rivoluzionario” per tutta l’Europa, l’autunno “caldo” del 1969 per noi in Italia.

Ricordiamoci che, all’inizio, la quasi totalità degli operai erano inquadrati nell’ultimo livello sindacale e retributivo. Avviatasi la produzione, non si poteva tenere il personale a quel livello, niente più lo giustificava.

Cominciarono le rivendicazioni, le dispute e gli scioperi, con i giapponesi, ma anche la parte dirigenziale italiana, restii a mollare e riconoscere avanzamenti di categoria e di livello a quelli che “prelevati dai campi o dalla strada, li abbiamo fatti diventare operai dell’industria”. Non mi piacque questa frase, ma divenne il motivo dominante delle trattative sindacali, dirette, al principio, dal Direttore Raffetto, ma la frase non era la sua.

Quando, più o meno, lo stabilimento entrò nel pieno della sua fase produttiva, gli scioperi provocavano danni alla economia di fabbrica e, per fortuna, cambiò anche lo staff dirigenziale. Raffetto venne affiancato e poi, spesso, addirittura sostituito dal Direttore Amministrativo, quel Dott. Italia che ci insegnò tanto, anche nel modo di trattare e “rispettare” il lavoro degli altri e degli operai.

Con estenuanti trattative, ogni tanto, venivano concessi gli avanzamenti di categoria per dei gruppi di operai. Per la loro mentalità, i giapponesi erano programmatori e calcolatori: parlando di avanzamenti, volevano prima conoscere quanto costava alla Società e quanto sarebbe stata la spesa complessiva per le concessioni da fare. E questo io lo so bene perché, all’epoca, ero appunto l’addetto al calcolo delle paghe e dei costi del personale.

In ogni caso, passò la stagione delle rivendicazioni, passò il 1968 e il 1969, rimasero gli scioperi a carattere nazionale e quelli per il rinnovo del contratto di lavoro. Restò comunque l’idea, nella cittadinanza, che nella nostra fabbrica non si facesse altro che scioperare, così come si radicò il convincimento che i nostri operai non lavorassero mai, o lavorassero poco, che in fabbrica, anche durante l’orario di lavoro, si proiettassero sui reparti films pornografici. Erano tutte favole o, come diremmo oggi, leggende metropolitane, che non è escluso fossero state lanciate dagli stessi dipendenti per scherzo o per dispetto.

Il processo produttivo era a ciclo continuo per 48 settimane all’anno e per ventiquattro ore giornaliere. Tutti gli addetti ai reparti produttivi erano divisi in quattro gruppi di cui uno, ogni giorno, era in riposo mentre gli altri tre coprivano e completavano la giornata lavorativa con turni che andavano dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle sei del mattino dopo.

Tra i due turni diurni avevano una solo giornata di riposo, tra gli altri, erano due i giorni di riposo. Ogni turno lavorava per cinque giorni consecutivi. In pratica, smontando alle sei del lunedì mattina, rientrava in fabbrica alle ore 14 del mercoledì successivo; smontando alle 22 del giovedì, rientrava alle 6 del sabato; quando terminava i cinque giorni lavorativi alle 14 del venerdì, rientrava alle ore 22 del lunedì.

Con il tempo, i gruppi si consolidarono rimanendo sempre gli stessi, anche se divisi tra reparti di produzione e servizi generali e questa fu una precisa scelta dei tecnici giapponesi, mentre i chimici italiani, pare secondo il comune pensiero, ritenevano che i gruppi dovessero essere mischiati spesso, per evitare che si creassero tra i componenti contrasti e attriti o, peggio, si creassero consorterie tramanti a danno dell'impianto.

Con la fabbrica distante dal paese cinque chilometri, anche se era stato messo a disposizione il mezzo pubblico, si crearono piccoli gruppi che, a turno o condividendo la spesa, preferivano arrivare in fabbrica in auto. Tra i gruppi si crearono nuove amicizie o si consolidarono le vecchie. Si crearono gruppi che, nei turni di riposo, si sfidavano in partite di calcio, organizzavano gite collettive, riunioni conviviali e simili.

Naturalmente, quando questi gruppi erano in turno di riposo, specie al mattino, rimanevano in comitiva o si incontravano in locali pubblici. Chi li vedeva insieme, si faceva l’idea che “questi non lavorano mai!” ma non li vedevano quando erano sui reparti in servizio, di giorno, di notte, di domenica, nei giorni festivi, a Natale, a Capodanno e in tutte le altre feste.

La programmazione rigida dei turni faceva in modo che, lo stesso lavoratore, potesse calcolare e prevedere con anticipo il turno che gli sarebbe capitato a Natale, fra sei mesi, all’anniversario di nozze, al compleanno del figlio o della moglie e potersi organizzare di conseguenza.

L’organizzazione e la rigidità nei turni e nei gruppi, alla luce della riscoperta socializzazione, potrebbe sembrare un piccolo successo sotto il profilo civile e educativo, invece era un grande successo per il bene della produttività in fabbrica, voluto e attuato dal personale giapponese. Infatti, col tempo, nacque tra i gruppi una specie di competitività, una gara per la produttività, anche se questa non si poteva calcolare in termini di quantità prodotta, ma solo ed esclusivamente in termini di assenza o diminuzione di momenti critici nel ciclo produttivo.

Se uno del gruppo si assentava, veniva sostituito dall’omologo del gruppo in turno di riposo; se l’assenza si prolungava per diversi giorni, venivano richiamati tutti coloro in grado di sostituirlo, sempre durante il proprio turno di riposo.

Si creava comunque uno scompenso sia nel gruppo ricevente che nei vari gruppi che “prestavano” il sostituto, perché i due giorni di riposo non erano “un lusso”, ma veramente necessari per recuperare tra un turno e l’altro. Se l’assenza era veramente giustificata e occasionale, tutti si prestavano, volenti o nolenti, a sostenere lo straordinario perché, prima o poi, poteva capitare anche al sostituto di dover essere sostituito.

Provate un po’ a pensare se l’assenza fosse stata pretestuosa: tra le tante persone “scomodate”, c’era sempre qualcuno che, quanto meno, mugugnava o se ne lamentava, e, molto spesso, il sostituto chiamato in servizio non si faceva trovare in casa, non si presentava o, a sua volta, si metteva in malattia: era per noi la denuncia che la malattia del primo era falsa o pretestuosa.

Bastava attendere la seconda o la terza assenza, e arrivava la richiesta ufficiale di “spostare” dal gruppo l’assente abituale, fatta dal Capo Turno a nome di tutti i compagni, appoggiati dal rappresentante sindacale interno. Il recidivo veniva rimosso dal turno e diventava “giornaliero” tra i “servizi generici”, con orario dalle otto alle diciassette, perdendo in busta paga, le relative indennità per turno, lavoro notturno, festivo ecc.

La “mela marcia” veniva rimossa dalle buone: un vero successo!

Questo sistema, però, costringeva a recarsi in fabbrica anche con la febbre? Perché no! Con il gruppo unito, se la persona era notoriamente uno che non dava problemi al gruppo, se un giorno non si sentiva bene, specie di notte quando erano assenti i Capi reparto e restavano solo i Capi Turno, poteva chiedere di essere lasciato libero da impegni pressanti e, almeno per un paio d’ore, se ne restava su di una panca a riposare, mentre gli altri compagni coprivano la sua posizione.

Del resto il ciclo produttivo aveva una durata più o meno fissa per ciascun reparto di produzione ed era fatto in modo che, nella maggior parte della propria giornata lavorativa, veniva richiesta un’attenzione vigile alla strumentazione e pochi interventi diretti.

Di casi del genere, cioè di spostamenti dai reparti chiesti dal gruppo, ce ne furono parecchi, penso comunque meno di una diecina, ma nel gruppo dei “servizi generici” vennero inquadrati anche coloro che, provenienti da altri servizi, non avevano molta voglia di lavorare e che, comunque, assenti o presenti a mezzo servizio, non potevano dar fastidio agli altri e alla lavorazione ma, bene o male, svolgevano un servizio che altrimenti sarebbe stato appaltato a terzi, e licenziarli non era consigliabile, perché il Sindacato li avrebbe difesi, perché sarebbe iniziata una lunga vertenza di lavoro e, già all’epoca, i Giudici del Lavoro davano sempre ragione al “povero” lavoratore.

Quando qualcuno esterno mi diceva che i dipendenti della nostra Società erano “tutti” fannulloni e scansafatiche, io li invitavo a farmi il nome o, se per omertà tacevano, li citavo io, uno ad uno, facendo appunto l’elenco degli addetti ai servizi generici: - «Ho dimenticato qualcuno? Ne ho contato una diecina! Ma ne lavorano più di duecentotrenta. Sono sempre e solo gli stessi! Come si può dire che sono “tutti” fannulloni?» -

Con il tempo, gli operai diventarono più bravi dei chimici a prevedere la durata del ciclo produttivo da loro stessi seguito e controllato, per cui erano in grado di prevedere i cosiddetti “tempi morti” nei quali potevano anche “distrarsi”, magari facendo una partita a carte, o mangiare “la parmigiana” portata in fabbrica dal collega, la torta del compleanno del figlio, e così via: l’importante era che non si creassero scompensi nel ciclo produttivo!

La Direzione, i Capi Reparto, noi dell’Ufficio del personale, sapevamo sempre tutto e tutti tolleravano questo tipo di andazzo, proprio perché, comunque, non si creava alcun inconveniente nella produzione.

Dirò di più, nella maggior parte dei casi, noi dell’Ufficio del personale, venivamo informati preventivamente delle “festicciole” programmate, ciò perché, all’ingresso ed all’uscita della fabbrica, c’era il “sorteggiatore”, il campanello che squillava a sorte per la perquisizione dell’operaio prescelto, e noi si avvertiva il guardiano di turno di tutto quello che il tale operaio avrebbe portato in fabbrica, ma non era autorizzazione, solo un “invito” a chiudere un occhio.

Come, per esempio, si faceva in occasione dei campionati mondiali e gli europei di calcio trasmessi dalla televisione: consentire l’ingresso in fabbrica dell’apparecchio televisivo, evitava il dover fronteggiare le numerose assenze, e spesso ero lo stesso Capo reparto, italiano o giapponese, che assisteva agli incontri insieme ai suoi operai.

Questo potrebbe sembrare “accondiscendenza passiva” o, peggio complicità o paternalismo. No: questo ci consentiva di conoscere tutto quello che avveniva in fabbrica, ma soprattutto ci permetteva di “concedere” favori apparentemente gratuiti, ma all’occorrenza, nei momenti critici, sapevamo a chi rivolgerci per chiedere notizie, per dare “consigli” e suggerimenti.

Con il tempo, quando le posizioni chiave della Società furono accentrate nelle mani dei “quadri” locali, eravamo in grado di “affiancare” la Commissione Interna, senza strafare o dare ordini, semplicemente con il colloquio con i “capi”, lasciando “cadere” là i nostri pareri, consigli o suggerimenti.

Qualche volta, uno di questi rappresentanti si metteva in posizione polemica nei confronti della Direzione e non “recepiva” i nostri consigli.

Se lo scontro si faceva particolarmente burrascoso, se i rapporti si fossero ormai compromessi irrimediabilmente, ricorrevamo alla squalifica completa della sua carriera di sindacalista: bastava dargli un avanzamento di livello, oppure assumere uno dei suoi fratelli o famigliari stretti, che perdeva ogni credibilità agli occhi dei suoi compagni e mordente nei confronti della Direzione.

Naturalmente c’era anche qualcuno che, pur andando diritto per la sua strada senza “ascoltare” i nostri consigli, per intelligenza, onestà e rettitudine, era rispettato da tutti, anche dalla Direzione, e uno di questi, Pasquale Lauriola, diventò anche Segretario Provinciale della Federchimici CISL.

Capitava pure, ogni tanto, che qualcuno dei sindacalisti più intelligenti venisse messo in discussione dalla “base” o da qualcuno che voleva sostituirlo, allora eravamo noi stessi a “consigliargli” di farsi momentaneamente da parte per far posto al nuovo avanzante, il quale, naturalmente, non avrebbe mai ricevuto i nostri consigli o i nostri suggerimenti.

Purtroppo, proprio in un frangente simile, mentre in Commissione Interna era stato inserito un capo, anche politico, emergente ma di scarso peso specifico ed inaffidabile, prima di poterlo mettere in discussione, capitarono le ultime fasi decisive della vita della nostra fabbrica. E questo è l’unico mio rimpianto.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti