martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Aria di crisi

Le Gabbie salariali

Dopo il primo mese col record e la scommessa vinta dagli operai, si mantenne l’alta produttività dello stabilimento, sempre vicino al livello massimo.

Nel frattempo, terminata la stagione degli scioperi per il rinnovo del contratto di lavoro, iniziò la vertenza nazionale per l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, ovvero la “parificazione” dei salari tra il nord ed il sud. Ogni Contratto Nazionale di Lavoro prevedeva le Tabelle salariali divise per categoria e, all’interno di ciascuna categoria, un importo separato per il nord Italia e, inferiore, per il Sud.

Poi c’era l’indennità di contingenza che era la parte “mobile” del salario dei lavoratori dipendenti che doveva “adeguare”, trimestralmente, il potere d’acquisto del salario all’andamento del costo della vita. Era diversa per ciascuna zona d’Italia, c’era il Tipo “A” e poi il Tipo “B”, più bassa, naturalmente, per il Sud. Era poi anche rapportata alle categorie salariali, differenziata per dimensione dell’azienda, per età e sesso del lavoratore.

Nel 1968 iniziò la battaglia sindacale per l’abolizione delle “gabbie salariali” con molti scioperi e dimostrazioni di forza da parte dei sindacati, finché, a rompere il cosiddetto “fronte padronale”, ci pensò l’INTERSIND, il sindacato delle imprese a partecipazione statale che, però, riconobbe solo la parificazione delle Tabelle salariali dei Contratti di Lavoro.

Intanto continuava la battaglia per la contingenza che, dalla fine del 1969, fu alla fine concessa, anche se in scaglioni successivi e si giunse alla parificazione della contingenza tra le varie zone d’Italia, cioè il valore della contingenza, differenziata solo per categoria ma uguale dal nord al sud: era l’abbattimento, appunto, delle “gabbie salariali”.

Ci fu chi preconizzava un aumento del tasso di inflazione, chi predisse una incontrollata crescita del costo del lavoro, chi pronosticò, a causa di ciò, l’abbandono della appena accennata fase degli investimenti industriali nel mezzogiorno: a tutti questi, il Segretario nazionale della C.G.I.L. rispose che “”il costo del lavoro è una variabile indipendente rispetto al costo della produzione”” per cui non si sarebbero verificate quelle previsioni.

Per me, che facevo ogni anno il budget preventivo del costo del lavoro sarebbe stato molto difficile far capire ai nostri amici giapponesi una affermazione del genere, perché saltò subito agli occhi l’aumento del costo del lavoro in seguito all’adeguamento della contingenza del sud a quella del nord.

Poi, era già difficile per me giustificare, ogni trimestre, la previsione in crescita del costo del lavoro, sulla base dei punti di contingenza in aumento. Loro erano pragmatici e la previsione di aumento volevano vederla documentata, mentre gli aumenti si dovevano interpretare leggendo tra le righe dei vari analisti e commentatori economici.

Si verificarono, puntualmente, tutte, ma proprio tutte, quelle pessimistiche previsioni avanzate dagli analisti ed economisti. Fissato a priori il valore base del punto di contingenza, l’aumento di un punto scattava quando l’aumento del costo della vita superava lo 0,50 per cento rispetto al trimestre precedente.

Ad ogni scatto in aumento della contingenza, cresceva il costo della vita per cui, alla prossima rilevazione, scattavano altri punti di contingenza e così via. Soltanto che, aumentando l’indice del costo della vita (numeratore) e rimanendo fisso il punto di contingenza (denominatore) come quando si era partiti, dopo pochi trimestri l’aumento degli scatti cominciò a diventare sempre più facile a verificarsi ed a duplicarsi: diventarono due al trimestre o due e mezzo, con il mezzo che si sommava all’aumento del prossimo trimestre; ed al prossimo trimestre, con i resti precedenti, i punti era facile diventassero tre.

Ma la rincorsa reciproca, tra l’aumento della contingenza e l’aumento del costo della vita, non adeguava il salario al costo della vita, come era nell’idea originaria di partenza, anzi, più aumentava la contingenza, più si divaricava la differenza rispetto al potere d’acquisto “reale”, cioè al netto dell’inflazione, del salario del lavoratore dipendente, ma sulle ragioni di questa divaricazione sono stati già scritti molti libri.

Un anno avevo previsto nel budget un aumento di ben dieci punti di contingenza, un azzardo all’atto della previsione, ma al consuntivo, al 15 novembre di quell’anno, i dieci punti previsti erano diventati undici effettivi, per cui, per il budget dell’anno successivo, tutto mi portava a ipotizzare un aumento di 15 punti di contingenza. Molti analisti finanziari erano dell’opinione che, se si fosse verificato un aumento annuale superiore ai dodici punti, avremmo avuto una inflazione galoppante con il fallimento dell’intera economia industriale italiana.

Dopo una tormentata e sofferta gestazione, decisi di calcolare i costi nel budget prevedendo i quindici punti di contingenza e portai il risultato all’Amministratore giapponese, preparandomi ad una lunga e analitica discussione.

Invece, quell’Amministratore dallo sguardo impenetrabile, dopo aver studiato i miei calcoli e letto tutte le mie annotazioni a margine, mi fece una sola domanda:

- «Do you think so? (Lei crede?)» - ed alla mia risposta affermativa rimase in silenzio un buon minuto poi mi ringraziò e salutò.

E quell’anno la contingenza aumentò di 15 punti, l’Italia restò in piedi e pure il sistema industriale che si era adeguato, evidentemente, all’inflazione.





I Rimedi

Indipendentemente da quel che pensava il Sig. Luciano Lama che, tra l’altro, dopo qualche anno definì “una bestialità” quella sua affermazione, la lievitazione del costo del lavoro incise pesantemente sul nostro costo di produzione e rese il nostro prezzo di vendita, questo sì del tutto indipendente da qualsiasi aumento del costo della vita, non più remunerativo. E le perdite della Società aumentarono e si accumularono, costringendo i Soci a continui versamenti per “pareggiare” ed annullare le perdite stesse.

Dopo i primi anni, lentamente il prezzo del glutammato era cresciuto, anche se non di molto. In Europa, i concorrenti corsero ai ripari e, col prezzo cresciuto, aumentò la produzione totale, determinando una offerta superiore all’impiego e, a questo punto, la quotazione riprese a scendere.

I nostri amici giapponesi non vollero ribassare il prezzo del nostro glutammato e preferirono “non svendere” il prodotto, accumulando e stivando la produzione, con la speranza che la crisi durasse poco. Una volta riempito il nostro magazzino, si ricorse all’affitto di altri capannoni esterni da riempire.

Con la produzione al massimo e le vendite col contagocce, la Società si trovò in crisi finanziaria, una vera e propria mancanza di contanti. C’è da ricordare che, all’epoca, i tassi bancari erano elevati ed in crescita continua, anche per noi che avevamo un trattamento di favore e godevamo del cosiddetto “prime rate”, ma anche questo cresceva più volte nel corso dell’anno e nessuno era in grado di prevedere quando e di quanto sarebbe cresciuto.

In una situazione del genere, per la prima volta, i nostri amici giapponesi misero mano al portafogli e rimpolparono le finanze della società. Ci fu, nei primi mesi del 1971, un primo versamento di un milione di dollari USA, tramite la Deutsche Ajinomoto di Amburgo, che doveva far parte di una tranche totale prevista di almeno tre milioni.

Il secondo versamento partì dal Giappone in piena estate, ma ritardava ad arrivare. Avevo lasciato l’Ufficio Paghe diventando il Capo Contabile, per cui toccò a me aspettare da solo in ufficio l’arrivo della rimessa del contanti, per far poi partire i pagamenti a favore dei fornitori, ed ero in servizio il 15 agosto 1971, quando il Presidente americano Nixon annunciò la fine della convertibilità del dollaro USA con l’oro.

Per lavoro, tutte le mattine, mi leggevo il giornale “Il Sole-24 Ore” e mi annotavo a mente il cambio del dollaro USA, del marco tedesco e quello dello Yen giapponese, sicuro che, nel corso della giornata, il Direttore giapponese me l’avrebbe chiesto.

Dal sedici agosto, dopo l’annuncio di Nixon, il tabellino dei cambi ufficiali del dollaro rimase fermo a quello del 14 agosto, intorno alle 627 lire per dollaro.

Cominciai a parlare con i vari direttori di banca, accorgendomi che molti erano rientrati frettolosamente dalle vacanze. Quando sentirono che avevo un bonifico in dollari in arrivo, si scatenarono tutti i Direttori e funzionari a chiedermi di appoggiare il bonifico sulla propria banca.

In effetti, sul mercato monetario, la moneta straniera, e quella USA in particolare, scarseggiava perché, mentre era richiesta per l’acquisto da parte delle aziende importatrici, i possessori, e quindi gli esportatori, attendevano la stabilizzazione del nuovo cambio, in continuo rialzo, per incassare le proprie divise estere in dollari: gli uni e gli altri si attendevano infatti un notevole balzo in aumento del cambio, chi lo temeva e chi lo sperava.

Con il tasso di cambio “fluttuante” e “libero”, cioè determinato “liberamente”, senza l’intervento di autorità di controllo e di riferimento, noi però non eravamo in condizione di poter speculare e attendere, per cui, quando, nel giro di una diecina di giorni, arrivò la rimessa del milione di dollari, l’unica speculazione che potei fare fu quella di domiciliarla sulla banca che mi offrì il tasso di cambio migliore, e ne ricavammo una buona ed inaspettata plusvalenza di oltre duecento milioni di lire.

Un po’ per la plusvalenza realizzata, un po’ perché il nuovo cambio del dollaro rendeva più competitivo il prezzo in dollari del nostro glutammato, le vendite all’estero cominciarono a crescere e, nel giro di dodici mesi, si riuscì a scaricare i magazzini a sufficienza per guardare al futuro con più serenità, mentre i giapponesi non versarono il terzo milione previsto, sacrificando, bontà loro, i propri crediti per il costo del personale e quello delle provvigioni, ritardandone l’incasso ma senza rinunciarvi.

La crisi intanto, consigliò gli Amministratori a ricorrere ai ripari e di mettere in atto misure per ridurre i costi. Furono riviste alcune previsioni sul futuro e ridimensionati alcuni obiettivi. Per prima cosa si ridusse il numero degli impiegati superiori dello staff dirigenziale.

Andarono via alcuni degli ultimi arrivati, impiegati provenienti dalla Terninoss, azienda già presieduta dal Prof. Signora, si chiuse l’Ufficio commerciale di Roma e si rinunciò al programma di lancio di vendita diretta al consumo. La gran parte delle posizioni di lavoro lasciate libere da coloro che andarono via o non furono surrogate, oppure furono “coperte” dal personale rimasto nel reparto.

In verità, a margine di questi avvenimenti, avvenne che, per la prima volta, il Direttore Amministrativo Fraschetti, per la chiusura del Bilancio civilistico, adottò dei provvedimenti contabili che cercavano di diminuire l’entità della perdita e queste “operazioni” ci vennero comunicate dall’alto, senza spiegazioni o motivazioni.

Alla luce delle successive esperienze e avvenimenti, oggi mi sembra chiaro che il povero Fraschetti, da noi sempre snobbato e diminuito nella sua autorità dirigenziale, proprio perché non aveva, secondo noi, apportato nessuna nuova esperienza alla nostra organizzazione, in un certo senso si avvaleva ora, per la prima volta, delle sue prerogative di Direttore, e ci “dettava” le disposizioni che noi dovevamo pedissequamente eseguire.

Forse, quindi, non rispettava la solita forma, anche perché i giapponesi avevano discusso direttamente con lui la loro esigenza di voler diminuire le perdite per diminuire appunto i versamenti.

Ai nostri occhi male abituati, invece, sembrava che lui, nella sua qualità di Amministrativo che doveva difendere gli interessi della INSUD, stesse adottando dei provvedimenti ad insaputa della stessa INSUD e senza preventivamente chiedere consiglio o preavvertire, come normalmente si faceva da parte degli altri suoi predecessori e da noi stessi.

Forse commise anche un piccolo errore di valutazione perché, assunta la Direzione effettiva, chiese ai giapponesi di apportare alcune modifiche nella organizzazione, anche queste senza preavvertirci e mettendoci di fronte al fatto compiuto.

Ci fu la rivolta degli amministrativi con la richiesta di intervento del Presidente del Collegio Sindacale della società, di estrazione INSUD, per rivedere le misure “elusive” che si intendevano adottare.

Venne il Sindaco, si rese conto della situazione, approvò sostanzialmente le misure elusive, del tutto legali, e ci promise che, per quanto riguardava noi amministrativi, tutto sarebbe rimasto come prima, come effettivamente avvenne, elogiandoci, non per la denuncia, ma per la professionalità e l’esperienza da molti di noi acquisita. Dopo qualche mese, il Rag. Fraschetti si dimise e, dalla INSUD, fu mandato il Dott. Cipriani.

Oggi, alla luce delle attuali acquisite esperienze, mi viene il sospetto che la visita del Presidente del Collegio Sindacale, per quanto breve, fu piuttosto approfondita ed esauriente e determinò, o almeno accelerò sicuramente, in seguito l’uscita della INSUD dalla compagine societaria.





Il Dottor Cipriani

Oltre a ricoprire la posizione del Direttore Amministrativo, con la firma abbinata al Direttore giapponese, il Dott. Cipriani, fratello tra l’altro del più famoso direttore d’orchestra Stelvio, divenne Consigliere di Amministrazione della Società e il primo provvedimento di tale sua posizione fu quella di esercitare la decennale opzione prevista in sede di fondazione e annunciare la volontà della INSUD di uscire dalla Società. Ed infatti, nel 1974, il trenta per cento delle azioni ex INSUD furono acquistate dalla Deutsche Ajinomoto di Amburgo.

Quasi contemporaneamente all’arrivo del Dott. Cipriani, anche se non legato a questo, ci fu nel medio Oriente la guerra del Kippur tra israeliani e palestinesi, con la conseguente crisi mondiale che portò il caro petrolio, con le prime domeniche a piedi, la crisi di mercato di tutte le materie prime e la riduzione di tutti i consumi, mentre crebbe in misura esponenziale il costo dell’energia elettrica e dei combustibili petroliferi, questo nel triste inverno tra il 1973 ed il 1974.

Spiegare oggi ad un giovane cosa avesse significato per noi quella crisi mondiale, mi sono accorto che era ed è difficilissimo. Forse l’unico degli effetti che può rendere l’idea è la quotazione del petrolio greggio sul mercato internazione.

Per decenni, dal dopoguerra, il prezzo del petrolio si era mantenuto stabile, poco al di sotto dei 2 dollari al barile, diventando uno degli indici fissi per l’andamento dell’inflazione mondiale, paragonando alla sua quotazione quella dell’oro, del grano e delle altre materie prime in genere.

Improvvisamente, allo scoppio della guerra del Kippur, il prezzo del petrolio balzò ai 10 dollari al barile, continuando a salire in maniera incontrollabile, tanto che, nel primo semestre 1974, superò i 50 dollari, mettendo in crisi l’economia mondiale.

Il miglior commento alla crisi fu dello stesso Dott. Cipriani che, per farci capire la situazione, disse:

- «Oh ragazzi! D’ora in poi, il mondo non sarà più lo stesso! Niente più sarà come prima!» - ed aveva ragione!

Forse per intervento di Cipriani, forse per autoconvincimento del giapponesi, ci fu una nuova drastica riduzione dei costi. Uno dei giapponesi dell’Ufficio commerciale di Milano ritornò, formalmente e contabilmente, alle dipendenze della Ajinomoto tedesca, anche se non variò minimamente il suo modo di operare, continuando a viaggiare in tutta l’Europa e tra Milano e Amburgo ma, almeno ora gli pagavamo solo le spese di questi viaggi e non il lauto stipendio e le spese degli altri suoi tours europei.

Le richieste di aumento del Dott. Cappuccio non furono accolte, e lui si licenziò, anche se poi ritornò nel 1976 come Direttore di Stabilimento. Andarono via il Capo della produzione, un chimico, e diversi altri Capi Reparto. Era già andato via anche il Capo contabile, sostituito da me e, poco dopo, anche il Direttore Ing. Raffetto, sostituito dall’omologo giapponese che ebbe la firma sociale abbinata a quella del Dott. Cipriani.

Tra l’altro, poiché i nuovi capi reparto vennero scelti tra il personale interno, che poi erano gli ex vice o assistenti, ritenni fosse opportuno completare la formazione degli stessi ad essere “capi”, considerato la nuova politica di riduzione dei costi.

Organizzai infatti, con l’approvazione della direzione, una specie di corso “accelerato” per istruirli su tutto il sistema che avevamo per la rilevazione ed il controllo dei costi per reparto. Per molti il nostro sistema di controllo fu una sorpresa, gli altri, già scettici, dovettero ricredersi ed adeguarsi.

Ma la crisi era grave e, all’epoca, nessuno era in grado di poter prevedere quanto sarebbe durata e come fare per uscirne, anche perché, uscire dalla crisi, significava anche salvare l’economia mondiale.

In verità, i nostri giapponesi avevano, nei loro programmi pluriennali, una idea che poteva far uscire dalla crisi la nostra società, ma la misero fuori nel momento più infelice ed inopportuno, quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando il Dott. Cipriani, cedendo il primo trenta per cento delle azioni, annunciò anche che la INSUD intendeva rinunziare a breve alla titolarità delle restanti azioni per uscire completamente dalla Società perché non più interessata a quella cooperazione.

La scusa ufficiale fu quella che la INSUD aveva modificato le sue strategie di partecipazione, essendosi indirizzata verso le attività turistiche-residenziali. Infatti, nel 1974 aveva acquistato le azioni della VALTUR ed era impegnata nella costruzione di villaggi turistici in Calabria e nel Salento. Aveva “omesso” di dire che l’EFIM, per la partecipazione nelle industrie alimentari, aveva creato appunto la SOPAL, con Presidenza socialdemocratica.

Nel frattempo, i crediti della casa madre giapponese per il prestito del personale si erano accumulati, come anche i crediti per le provvigioni di vendita della Deutsche Ajinomoto di Amburgo.

La casa madre, la Ajinomoto Co. Inc. di Tokyo, aveva anche provveduto a versare un milione di dollari americani per rimpolpare le finanze della società di Manfredonia e, all’inizio del 1976, non si era ancora verificato alcun favorevole avvenimento per procedere a diminuire tale debito.

Fu in questo stato di cose che, in quell’anno, ci colse la legge n. 159, quella sul divieto di esportare capitali all’estero, con pene durissime per i trasgressori, prevedendo l’arresto ed il carcere immediato.

Con una lunga ed intensa campagna accusatoria, in televisione e su tutti i mezzi di comunicazione, durata parecchi anni, si era “scoperto” che la maggior parte degli italiani preferiva esportare all’estero, specie in Svizzera, i propri capitali, anziché investirli in Italia e, quindi, impoverendo le finanze del paese. Invece di cercare di abolire la causa dell’esportazione dei capitali, si decise di vietarne l’effetto.

Subito, non appena approvata la legge, qualche Pubblico Ministero provvide a mettere le manette agli esportatori e, insieme, a quei direttori di banca che avevano provveduto ad eseguire gli ordini del possessore di capitali, con larga esposizione di nomi e immagini sui giornali e in Tv, e, naturalmente, subito imitati dagli altri colleghi Magistrati in tutto il resto dell’Italia.

Il primo effetto fu che tutte le banche nostre corrispondenti, vennero a ritirare i modelli per l’esportazione che avevo numerosi, già firmati, nel mio cassetto. Qualcuna, più lungimirante, me ne lasciò sempre un paio non firmati, ma bastava una telefonata, che arrivava in stabilimento un procuratore per le firme e la regolarizzazione. I funzionari di banca più paurosi, non ne vollero sapere e preferirono rinunciare a lavorare con l’estero con noi.

Ci fu, a questo punto, qualche funzionario più amico che, anche con l’intento di proteggere se stesso, consigliò di sospendere e attendere a pagare le fatture di Tokyo e Amburgo, perché quei nostri pagamenti o trasferimenti all’estero, tra società quasi omonime, potevano creare qualche sospetto di esportazione di capitali e, anche all’epoca, prima si andava in galera e poi ci si accertava se ci fossero motivi commerciali seri e validi per eseguire i pagamenti stessi.

Dovetti spiegare tutta la situazione al direttore giapponese quando, proprio in quei frangenti, mi chiese di pagare un paio di fatture arretrate per Tokyo. Per fortuna, all’epoca, eravamo da poco diventati clienti della nuova e prima filiale milanese di The Bank of Tokyo, ed evidentemente qualcuno di questa banca aveva confermato e ritenute valide le mie remore nel pagare fatture all’estero.



Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti