martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'esterno

Il Paese.

Manfredonia, dunque, fu preferita dai giapponesi proprio perché un deserto vergine, industrialmente parlando, fuori da ogni altro distretto. Il Dr. Fukazawa mi raccontò che il posto gli era piaciuto dal primo momento, gli era piaciuto il paese e gli abitanti, e gli era piaciuta l’Amministrazione Comunale.

Era allora Sindaco il Dott. Nicola Ferrara, democristiano, che nulla aveva fatto per farli arrivare, ma fece molto per farli restare. Per funzionare, una qualsiasi industria ha bisogno, oltre che del suolo, dell’energia elettrica e d’acqua, molta acqua, ma soprattutto, all’epoca, di molte, moltissime licenze ed autorizzazioni, rilasciate da tantissime Autorità, ed ognuna “istruiva” un pratica “a hoc” che aveva bisogno di stimolo e controspinte per avanzare.

Per fortuna, di tutte queste incombenze se n’occupò il collega Dott. Nevio Russo, bravissimo e competente, di Foggia e fratello dell’On. Vincenzo Russo. Con la sua competenza e bravura, subito dopo aver completato tutte le pratiche per il nostro Stabilimento di Manfredonia, fu chiamato dall’IRI per realizzare lo Stabilimento Alfasud a Pomigliano d’Arco.

Nevio Russo si trasferì all’IRI per conto proprio, ma, dopo pochi anni, ci fu un vero e proprio esodo di massa dall’EFIM all’IRI, a seguito della nomina dell’Avv. Sette a Presidente appunto dell’IRI, che volle con sé anche il dott. Zurzolo, il quale, prima come Direttore, divenne poi Presidente dell’IRI a sua volta.

Nelle sue incombenze Russo era affiancato ed aiutato dal nostro Direttore Amministrativo, il Dott. Calabrò, proveniente dalla Manetti & Roberts di Firenze, ex Ufficiale di Marina che aveva effettuato il proprio servizio militare proprio presso il gran palazzo della Marina a Roma, sul Lungotevere.

Ed infatti, destò molta meraviglia, tra gli impiegati e gli Ufficiali della Capitaneria di Porto di Manfredonia, l’immediatezza con cui da Roma, dal Ministero, arrivò l’autorizzazione all’installazione del deposito costiero sul Porto, tanto che, per tutto il periodo in cui rimase in servizio lo stesso funzionario, tutti gli anni, quando andavo a rinnovare la concessione demaniale, mi accoglieva sempre con molta cordialità e ossequio.

Per parte sua, il Sindaco Ferrara impostò molto bene la pratica dell’insediamento della prima industria di Manfredonia, ottenendo subito le delibere e le approvazioni del Consiglio Comunale e tutta la nostra Società, Amministratori e Direttori, erano entusiasti dell’operato del nostro Sindaco che aveva reso, con la sua opera, molto breve il periodo morto tra la progettazione e l’inizio dei lavori.

La sua alzata di genio, infine, fu quella di far anticipare dalla Società Ajinomoto-INSUD le spese per la linea di alta tensione ENEL, a carico del Comune, impegnando con contratto lo stesso Comune di Manfredonia alla restituzione della spesa, non appena ricevuto il finanziamento statale.

Per quanto riguarda l’acqua per uso industriale, fu attinta dalle vasche di colmata del Consorzio di Bonifica, ex Lago Salso, e da una sorgente di Siponto.

Ricordo che, stando a Roma, ebbi modo di studiare una grande carta geografica della piana del Tavoliere e del Gargano, con l’indicazione di tutte le fonti e le acque di superficie e sotterranee, perfino con l’indicazione delle zone più o meno sismiche e le curve dell’altitudine sul livello del mare, v’erano poi evidenziate tutte le correnti marine del Golfo di Manfredonia e le profondità del mare.

Il disegnatore anziano che la custodiva, invalido di guerra, ma ex paracadutista della Folgore ed ex agente segreto militare durante la guerra, mi fece notare che si trattava di una carta militare, non facilmente reperibile, e che non bisognava mostrarla troppo in giro.

Quando arrivarono i mobili ed i documenti contabili da Roma a Manfredonia, notai subito il rotolo della carta geografica tra il fascio di disegni arrotolati trasportati da uno dei facchini, e la tirai subito via, nascondendola in un posto sicuro.

Dopo qualche tempo, fui chiamato dal Direttore nel suo ufficio, dove si intratteneva con un gruppo di visitatori estranei, e mi chiese se sapessi dove fosse andata a finire quella carta geografica che stava a Roma, ed io gliela tirai giù dal suo armadio e la mostrammo ai visitatori.

Per curiosità restai presente alla riunione e appresi che erano dei tecnici della B.P.& D. di Vicenza, che dovevano progettare un grande stabilimento petrolchimico nella zona e, vista la presenza d’acqua nelle vasche di colmata sulla litoranea per Zapponeta, dedussero che il posto migliore sarebbe stato appunto nella zona delle vasche (già Lago Salso), ma questa è un’altra storia.

La presenza a Manfredonia di una vera industria, la prima, e per i primi anni l’unica, non fu percepita nella sua essenza dagli abitanti indigeni, pur essendo veramente un vero gioiello della tecnica; i muratori che ci lavoravano, mi ricordo, non capivano la necessità di creare una “gabbia” in cemento armato “legato” tra le sue colonne delle fondamenta, anche nella parte interrata, sotto il piano di calpestio, tecnica imposta ora per legge per il rispetto delle norme antisismiche, ma questo accadeva già nel 1965.

In fondo, la realtà industriale, faceva parte di una cultura completamente avulsa dal territorio. Prendiamo ad esempio le banche locali, i rapporti con le quali vissi direttamente e personalmente.

C’erano allora in paese una banca a livello nazionale, il Banco di Napoli, istituto di diritto pubblico pachidermico e clientelare, che, in sede locale, rivolgeva le sue attenzioni al credito agricolo e fondiario, oltre che al servizio di Tesoreria con gli enti locali; l’altra era una banca locale abbastanza importante, la Cassa di Risparmio di Puglia, che si rivolgeva al commercio, all’artigianato e, quindi, allo sconto ed incasso di cambiali e tratte.

La nostra Società, almeno agli inizi, aveva pochi soldi da depositare nei conti bancari, ma chiedeva servizi e, quindi, dava lavoro di ogni tipo agli sportelli, naturalmente ben remunerati.

Il nostro prodotto era venduto nell’Italia del Nord e, per la maggior parte, all’estero, e nessuna delle due banche, almeno nelle figure dei funzionari responsabili, mostrava di essere interessata in queste operazioni.

A quei tempi, versare in conto per l’incasso un assegno bancario fuori piazza, era un’operazione che qualsiasi banca perfezionava in oltre un mese, se andava bene, e qualsiasi funzionario, per accogliere il servizio, doveva fornirsi di “carte” e garanzie sulla solvibilità del traente, questo anche se i nostri clienti erano la Star e la Knorr, con un assegno il cui importo, all’epoca, rappresentava una cifra pari al costo di due appartamenti.

Le nostre ricevute bancarie all’incasso, all’epoca poco conosciute in zona, erano onorate più e meglio di una cambiale da una qualsiasi delle ditte del nord nostra cliente e debitrice, ma per i funzionari del paese erano più o meno “carta straccia”, figurarsi se le accettavano per lo sconto.

Emettere un Modello A/Export per la vendita di merce ad un cliente estero, era un’operazione nuova e sconosciuta per parecchi funzionari di banca, per cui, per essere perfezionata, nella migliore delle ipotesi, richiedeva almeno dieci giorni.

Ogni operazione di vendita all’estero poteva essere finanziata con una “anticipazione all’esportazione”, a tasso molto agevolato, per la quale non c’era bisogno di “istruire” una pratica di scoperto di conto, secondo il sistema classico del fido, ma che, essendo un’operazione detta di “credito documentario”, era come una medaglia di merito che la banca si accreditava nei confronti della Banca d’Italia e dell’ICE: ma solo nominarla metteva in ambasce il funzionario di Manfredonia. Tant’è che fummo, prima costretti, e poi subito blanditi dalle principali banche di Foggia e di Bari.

La concorrenza tra le banche veniva fatta con l’offerta di tassi, attivi per i clienti, invitanti ed in nero, cioè in contanti e fuori dal conto: c’era un tasso ufficiale, conteggiato negli estratti conto bancari, ed un “di più” a parte, versato in contanti annualmente.

Era una pratica diffusa e generale, applicata, naturalmente, nei confronti dei “migliori” clienti, almeno fino all’introduzione della riforma tributaria dal 1974: prima, gli interessi sarebbero stati assoggettati al pagamento dell’Imposta Complementare (l’IRPEF di allora), ma non c’era un controllo incrociato tra quanto dichiarato dalle banche e quanto denunciato dal ricevente, per cui era una scelta affidata al “buon cuore” del contribuente.

La nostra Società, come tutte, ma proprio tutte le altre società italiane dell’epoca, utilizzò gli interessi attivi per crearsi i cosiddetti “fondi neri”, utili per “mazzette” e bustarelle.

Insomma, almeno agli inizi, noi eravamo “ottimi” clienti per le banche baresi e foggiane, discreti clienti per Manfredonia. E noi giovani impiegati imparammo tanto dal Dott. Roberto Italia, nel breve periodo che rimase presso di noi, prima e dopo l’epatite virale. Lui “negoziava” con le banche, nel senso che “dettava”, le regole applicabili ai nostri conti correnti, per cui l’assegno della Star ci veniva accreditato con valuta di tre giorni lavorativi; il modello A/Export, già firmato dalla Banca, era nel nostro cassetto e veniva da noi compilato non appena completato il carico del TIR tedesco o olandese con il nostro prodotto e, in certi giorni, di TIR stranieri potevano esserci anche più di uno.

Non c’era niente di illegale, anzi era una pratica comunemente applicata in tutta l’Europa, per non far attendere il camionista, per non far andare avanti ed indietro il funzionario di banca o il Direttore: la firma della Banca serviva a garantire che l’esportazione fosse effettiva e reale, non fasulla, e che il prezzo pattuito fosse giusto e remunerativo, e quest’ultimo controllo era chiaramente al di fuori della portata di un funzionario di banca.

Solo dopo qualche anno, quando la Banca d’Italia incominciò a diffondere il proprio tabulato sui movimenti bancari per Provincia o per zona, vedemmo arrivare i funzionari delle due banche locali, accompagnati dai direttori responsabili a livello foggiano, a “mendicare” maggior lavoro presso i loro sportelli, ma era già cambiata l’epoca.

Molte incomprensioni le avemmo anche con gli autotrasportatori locali. La maggior parte del nostro prodotto, come detto prima, veniva venduta all’estero, nel nord Europa e viaggiava con i TIR stranieri che, venuti in Italia a scaricare, oppure che tornavano scarichi dalla Grecia o dalla Turchia, e se ne andavano al nord con il nostro prodotto, con spese a carico del destinatario, stesso percorso per i camion Star e Knorr.

Ma capitava abbastanza spesso di aver bisogno di noleggiare diversi autotreni per il nord Italia, ad esempio per Trieste, dove si completava il carico di un treno che, partendo da Trieste, proseguiva il suo viaggio verso l’est europeo.

Non ci poteva quindi essere nessun contratto di “esclusiva” con i trasportatori locali, ma i contatti erano abbastanza frequenti, anche perché molte autocisterne locali, provenienti dagli stabilimenti del centro nord, venivano utilizzate dai nostri fornitori per venire a scaricare presso il nostro stabilimento. I rapporti, comunque, iniziarono con reciproca soddisfazione.

Quando il lavoro incominciò a diventare più interessante, i nostri autotrasportatori, consorziati tra loro, cominciarono ad aumentare le loro pretese, mentre il nostro ufficio acquisti cominciò a chiedere sconti.

Forse ci fu una certa supponenza da parte dei trasportatori locali che tentarono di “forzare” le decisioni dei nostri responsabili, resta il fatto che i rapporti cessarono quasi del tutto, ricorrendo a quelle agenzie di intermediazione che assicuravano il “carico di rientro”, a prezzi molto modici, ai “padroncini” che dal nord, venivano a scaricare al sud.

Uno dei miei collaboratori, addetto all’ufficio spedizioni, che aveva quindi continui contatti con gli autotrasportatori, ma che comunque era l’ultimo anello della catena decisionale, una mattina trovò le quattro gomme della sua auto tagliate con il coltello.

Simile approccio supponente si ebbe con i piccoli fornitori locali, artigiani e commercianti: sembrava quasi che tutti fossero convinti che “dovevamo” pagare una specie di differenza in più per “il privilegio” di essere “ospitati” a Manfredonia.

Il nostro Ufficio Acquisti aveva i listini prezzi di tutto il materiale che ci serviva, quando per piccole quantità ci si rivolgeva ai fornitori locali, si veniva a scoprire che questi applicavano ricarichi eccessivi ed ingiustificati.

Gli artigiani presentavano preventivi capotici e forfettari. Quando l’Ufficio Acquisti li chiamava e discuteva stendendo gli stessi preventivi in maniera analitica e precisa, si scontravano poi sul margine di guadagno da applicare.

Come esponente della “fauna” locale, cercavo di far capire ai miei compaesani che eravamo in un’economia di mercato, che v’erano commercianti e artigiani in zone limitrofe che si accontentavano di guadagnare meno, ma non tutti lo capivano.





I “concorrenti”

La materia prima per il glutammato era la melassa di barbabietola, cioè la prima lavorazione dello zuccherificio, ed era quindi prodotta dai tre grandi gruppi industriali, nostri grandi nemici che, non solo ce la rifiutavano, ma ostacolavano tutti i nostri contatti con gli altri produttori europei, perché, come ebbi modo di verificare, lo spionaggio industriale non era prerogativa solo dei nostri amici giapponesi, ma di tutti i grandi gruppi industriali.

Il Mercato Comune Europeo “premiava” gli esportatori di materie prime e, quindi, anche delle sostanze zuccherine, per cui, per riscuotere quali produttori ed esportatori tali “premi”, i nostri concorrenti preferivano “esportare” il melasso di barbabietola, anziché venderlo in Italia.

C’era in Europa una specie di Associazione internazionale che riuniva tutti i produttori di zucchero e materiale accessorio, allo scopo dichiarato di favorire l’incontro tra la “domanda e l’offerta”, in verità era un vero e proprio “cartello” che decideva il prezzo delle materie prime del settore e controllava che gli associati applicassero il prezzo concordato.

Annualmente, al momento opportuno per la “campagna” di vendita, i produttori si riunivano in una sede europea predefinita, come Montecarlo nel Principato di Monaco, oppure Rotterdam, o ancora Zurigo, e qui si svolgevano “gli incontri” tra (i pochi) venditori e (i pochi) compratori con il sistema delle “aste aperte”, vale a dire che, tra divieti ed esclusioni, il venditore poteva scegliere il compratore a proprio gradimento, magari rifiutando il cliente con la cravatta a righe o gli occhi a mandorla, subito imitato dagli altri colleghi produttori.

I giapponesi, dopo la prima volta in cui furono emarginati, rimanendo a mani vuote, trovarono subito il sistema per aggirare l’ostacolo dei divieti. L’acquisto del melasso per la nostra fabbrica veniva allora effettuato tramite un affarista greco, un finanziere che, nel suo paese, a Igoumenitsa, era titolare di una concessione per la produzione di zucchero ma che, secondo me, non aveva neanche un macinino per poterlo produrre.

Lui acquistava a nome proprio, ma non soltanto per conto di nostri giapponesi, anche per altri. Doveva essere una persona nota nell’ambiente, tant’è che i nostri amici giapponesi, sempre molto prudenti prima di fidarsi, gli concessero ampio credito e gli mettevano a disposizione anticipatamente le somme in dollari per partecipare alle aste.

Anche lui si fidava dei giapponesi, sebbene poi, puntualmente, nell’imminenza della gara, ci telefonava per chiedere conferma dell’avvenuta apertura di credito, dell’importo, della banca emittente e quella ricevente.

Lui si aggiudicava i lotti di materia prima e, solo dopo l’acquisto, apprendeva il paese d’origine di quanto acquistato. Per cui si verificava, e si verificò, il caso che dal porto di Ravenna partì una nave greca carica di melasso. Durante la navigazione in Adriatico i documenti viaggiarono verso Marsiglia dove, in Dogana, la merce venne “nazionalizzata” come francese e decurtata dal complessivo quantitativo previsto nella originaria licenza di importazione.

All’arrivo nel porto greco di Igoumenitsa, la nave trovò la documentazione in regola per “nazionalizzare” in Grecia la stessa merce di provenienza francese, che però, subito dopo, proseguì, senza scaricare, per il porto di Manfredonia dove venne definitivamente “nazionalizzata” e scaricata nel nostro deposito costiero.

Il Mercato Europeo “premiava” quindi il produttore italiano, l’esportatore francese e quello greco, tutti per la stessa merce mai uscita dall’Adriatico.

Una volta si verificò che, mentre la “nostra” nave stava scaricando il melasso nei serbatoi sul porto di Manfredonia, al largo, in rada, si trovasse un’altra nave che attendeva il proprio turno per “caricare” il melasso di barbabietola prodotto da uno dei tanti zuccherifici della provincia di Foggia e destinato chissà dove.

Naturalmente i nostri concorrenti, dopo i primi casi, cercarono di creare altri ostacoli, ma non potevano lottare contro l’ineffabile affarista greco che, altre volte, si era prestato anche al loro servizio. All’occorrenza, in certi casi, il nostro amico greco si serviva di “agenti terzi” di facciata, per compensare i quali ci chiedeva, in aggiunta all’apercredito, una congrua “mazzetta” di dollari in contanti: e qui tornavano molto utili i nostri “fondi neri”.

Potrebbe a questo punto sorgere spontanea la domanda: - «Ma perché non acquistare direttamente il melasso presso i produttori foggiani?» - la domanda è facile, la risposta meno, a parte una caratteristica tecnica del melasso foggiano che richiedeva una ulteriore lavorazione che non sono in grado di spiegare.

I proprietari degli zuccherifici foggiani erano sempre gli stessi a livello nazionale e, al principio, ci fornirono anche piccoli quantitativi di melasso, ma il “nostro” glutammato tagliava le gambe al mercato del “loro” prodotto e, finché il mercato tirava e c’era lavoro per tutti, tolleravano la nostra presenza, ma una volta andato a regime lo stabilimento, la produzione totale annua creava un surplus di offerta a livello europeo e si creò una vera e propria guerra di resistenza.

Eppure il core business degli zuccherifici non era il glutammato, però teniamo presente che, per lo zucchero, avevano una lavorazione fortemente stagionale, mentre il glutammato poteva tenere impegnate le maestranze a tempo indeterminato anche nei periodi morti; che la materia prima non dovevano acquistarla ma l’avevano in casa; che insomma il ricavo del glutammato era tutto e solo “frutto”.

Poi, io che sono abituato a pensare male, ritengo che, mentre per lo zucchero, tutta la filiera produttiva era controllata dall’Intendenza di Finanza per assoggettarlo ai dazi e gabelle previste, per il glutammato la Finanza verificava solo la materia di partenza impiegata per la produzione, mentre, il prodotto finito non era sostanza zuccherina, quindi non era soggetto a dazi, e si poteva vendere anche senza fattura e senza IVA.

Non vorrei sembrare un credulone, ma mi convinsi che, dopo quell’unico caso di due navi presenti in contemporanea nel porto di Manfredonia per il melasso, proprio perché a quel punto si poteva giustificare l’interessamento della Magistratura, dopo qualche tempo acconsentirono a venderci il melasso degli zuccherifici foggiani e molisani.





La Burocrazia

Come Società a partecipazione statale, la nostra era quanto mai rispettosa delle leggi e regolamenti, anche perché non c’era nessun “padrone” che sollecitasse diversamente, e gli stessi giapponesi, per loro mentalità, erano quanto mai rispettosi delle norme fiscali e tributarie.

Nei nostri contatti con tutti gli impiegati pubblici, era quasi diventata una canzone dover ricordare che non avevamo interesse a trasgredire, lottando per superare la convinzione del Funzionario Pubblico per il quale “tutti sono evasori, fino a prova contraria”. Per fortuna, c’erano molti funzionari intelligenti che capivano la nostra filosofia di approccio alle leggi e la condividevano, per cui, da controllori, erano quanto mai collaborativi.

Fin dalla costruzione dello stabilimento, per esempio, per la presenza in fabbrica di un deposito di “destrosio”, materia zuccherina, eravamo assoggettati, per il prelievo e il carico, della presenza di un Funzionario dell’Intendenza di Finanza di Foggia, che, con l’assistenza di un graduato della Guardia di Finanza, per legge, dovevano sovrintendere a tutti i movimenti della stessa sostanza e controllare che ne avvenisse la registrazione, a mano, su di un grosso registro.

In breve, quando capì che nessuno aveva in mente di carpire il destrosio per fare le torte o altro, rinunciò all’assistenza del finanziere e divenne lui stesso l’impiegato addetto alla registrazione ed il primo a raccomandare la nostra “onestà” ai propri colleghi.

Infatti, per la dichiarazione in dogana dei TIR destinati all’estero, sarebbe stato necessario che gli stessi TIR, dopo il carico, venissero accompagnati in Dogana, al centro del paese, qui controllati e “piombati”, ricevessero le “carte” per la frontiera e poi tornassero nella nostra fabbrica per ritirare gli altri documenti bancari e contabili per il destinatario.

Con la raccomandazione del nostro Funzionario, i documenti venivano inviati in dogana, vistati e firmati, e tornavano, insieme ad un Agente Finanziere, nella nostra fabbrica dove lo stesso finanziere controllava e piombava il carico e poi veniva riaccompagnato in Dogana, mentre il TIR ripartiva direttamente per la sua destinazione.

Questo era possibile perché i funzionari della dogana si erano convinti che potevano fidarsi sulla esattezza delle nostre carte, cioè che la quantità descritta era esatta, che il prezzo era quello vero e che non veniva caricato nessun altro prodotto oltre a quello scritto e che, quindi, ad un eventuale controllo alla frontiera sarebbe filato tutto liscio e regolare.

Secondo i principi generali, risaputi ma non espressi, per la convivenza e la collaborazione con gli Uffici statali e gli organi di controllo, essendo la nostra una Società con una contabilità trasparente, anche la cosiddetta “corruzione” era trasparente: il “panettone” natalizio ci era regolarmente fatturato con l’indicazione di nome, cognome e indirizzo del destinatario, per cui molti Funzionari ci “pregarono” di essere esentati dal regalo.

Alla Dogana, invece, non essendo il nostro un prodotto di largo e comune consumo, era destinato un “pacco” contenente carta per scrivere, cancelleria e materiale vario per ufficio, che sopperiva alle manchevolezze della fornitura statale. Ai Carabinieri fu donata l’insegna luminosa e messo a disposizione il nostro fotocopiatore.





Le Relazioni Industriali

Mi piace ricordare che, per la maggior parte, gli operai dello Stabilimento furono assunti in pieno periodo di campagna elettorale per le elezioni amministrative locali, che confermarono Sindaco il democristiano Nicola Ferrara, con un vasto consenso per tutto il Partito.

Dopo qualche mese, ci furono in fabbrica le elezioni per la nomina della Commissione Interna ed ottenne quasi un plebiscito la C.G.I.L. Non sono settario, è che anche io, personalmente ed apertamente, m’impegnai per la campagna elettorale a favore della D.C. avvalendomi della collaborazione di freschi dipendenti della fabbrica, gli stessi che, una volta assunti, non solo entrarono nella CGIL, e fin qui non ci vedo niente di male, ma fondarono poi a Manfredonia la prima Sezione del PSIup, l’estrema sinistra anche rispetto al P.C.I., con sulla parete di fondo una grande fotografia del “Che” Guevara, con sigaro, basco e stella rossa.

Non essendoci, naturalmente, passate esperienze industriali nella zona, tutto il ruolo del Sindacato in fabbrica dovette essere inventato, e non ci furono troppi problemi se non fosse poi sopraggiunto il famoso ’68, “rivoluzionario” per tutta l’Europa, l’autunno “caldo” del 1969 per noi in Italia.

Ricordiamoci che, all’inizio, la quasi totalità degli operai erano inquadrati nell’ultimo livello sindacale e retributivo. Avviatasi la produzione, non si poteva tenere il personale a quel livello, niente più lo giustificava.

Cominciarono le rivendicazioni, le dispute e gli scioperi, con i giapponesi, ma anche la parte dirigenziale italiana, restii a mollare e riconoscere avanzamenti di categoria e di livello a quelli che “prelevati dai campi o dalla strada, li abbiamo fatti diventare operai dell’industria”. Non mi piacque questa frase, ma divenne il motivo dominante delle trattative sindacali, dirette, al principio, dal Direttore Raffetto, ma la frase non era la sua.

Quando, più o meno, lo stabilimento entrò nel pieno della sua fase produttiva, gli scioperi provocavano danni alla economia di fabbrica e, per fortuna, cambiò anche lo staff dirigenziale. Raffetto venne affiancato e poi, spesso, addirittura sostituito dal Direttore Amministrativo, quel Dott. Italia che ci insegnò tanto, anche nel modo di trattare e “rispettare” il lavoro degli altri e degli operai.

Con estenuanti trattative, ogni tanto, venivano concessi gli avanzamenti di categoria per dei gruppi di operai. Per la loro mentalità, i giapponesi erano programmatori e calcolatori: parlando di avanzamenti, volevano prima conoscere quanto costava alla Società e quanto sarebbe stata la spesa complessiva per le concessioni da fare. E questo io lo so bene perché, all’epoca, ero appunto l’addetto al calcolo delle paghe e dei costi del personale.

In ogni caso, passò la stagione delle rivendicazioni, passò il 1968 e il 1969, rimasero gli scioperi a carattere nazionale e quelli per il rinnovo del contratto di lavoro. Restò comunque l’idea, nella cittadinanza, che nella nostra fabbrica non si facesse altro che scioperare, così come si radicò il convincimento che i nostri operai non lavorassero mai, o lavorassero poco, che in fabbrica, anche durante l’orario di lavoro, si proiettassero sui reparti films pornografici. Erano tutte favole o, come diremmo oggi, leggende metropolitane, che non è escluso fossero state lanciate dagli stessi dipendenti per scherzo o per dispetto.

Il processo produttivo era a ciclo continuo per 48 settimane all’anno e per ventiquattro ore giornaliere. Tutti gli addetti ai reparti produttivi erano divisi in quattro gruppi di cui uno, ogni giorno, era in riposo mentre gli altri tre coprivano e completavano la giornata lavorativa con turni che andavano dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle sei del mattino dopo.

Tra i due turni diurni avevano una solo giornata di riposo, tra gli altri, erano due i giorni di riposo. Ogni turno lavorava per cinque giorni consecutivi. In pratica, smontando alle sei del lunedì mattina, rientrava in fabbrica alle ore 14 del mercoledì successivo; smontando alle 22 del giovedì, rientrava alle 6 del sabato; quando terminava i cinque giorni lavorativi alle 14 del venerdì, rientrava alle ore 22 del lunedì.

Con il tempo, i gruppi si consolidarono rimanendo sempre gli stessi, anche se divisi tra reparti di produzione e servizi generali e questa fu una precisa scelta dei tecnici giapponesi, mentre i chimici italiani, pare secondo il comune pensiero, ritenevano che i gruppi dovessero essere mischiati spesso, per evitare che si creassero tra i componenti contrasti e attriti o, peggio, si creassero consorterie tramanti a danno dell'impianto.

Con la fabbrica distante dal paese cinque chilometri, anche se era stato messo a disposizione il mezzo pubblico, si crearono piccoli gruppi che, a turno o condividendo la spesa, preferivano arrivare in fabbrica in auto. Tra i gruppi si crearono nuove amicizie o si consolidarono le vecchie. Si crearono gruppi che, nei turni di riposo, si sfidavano in partite di calcio, organizzavano gite collettive, riunioni conviviali e simili.

Naturalmente, quando questi gruppi erano in turno di riposo, specie al mattino, rimanevano in comitiva o si incontravano in locali pubblici. Chi li vedeva insieme, si faceva l’idea che “questi non lavorano mai!” ma non li vedevano quando erano sui reparti in servizio, di giorno, di notte, di domenica, nei giorni festivi, a Natale, a Capodanno e in tutte le altre feste.

La programmazione rigida dei turni faceva in modo che, lo stesso lavoratore, potesse calcolare e prevedere con anticipo il turno che gli sarebbe capitato a Natale, fra sei mesi, all’anniversario di nozze, al compleanno del figlio o della moglie e potersi organizzare di conseguenza.

L’organizzazione e la rigidità nei turni e nei gruppi, alla luce della riscoperta socializzazione, potrebbe sembrare un piccolo successo sotto il profilo civile e educativo, invece era un grande successo per il bene della produttività in fabbrica, voluto e attuato dal personale giapponese. Infatti, col tempo, nacque tra i gruppi una specie di competitività, una gara per la produttività, anche se questa non si poteva calcolare in termini di quantità prodotta, ma solo ed esclusivamente in termini di assenza o diminuzione di momenti critici nel ciclo produttivo.

Se uno del gruppo si assentava, veniva sostituito dall’omologo del gruppo in turno di riposo; se l’assenza si prolungava per diversi giorni, venivano richiamati tutti coloro in grado di sostituirlo, sempre durante il proprio turno di riposo.

Si creava comunque uno scompenso sia nel gruppo ricevente che nei vari gruppi che “prestavano” il sostituto, perché i due giorni di riposo non erano “un lusso”, ma veramente necessari per recuperare tra un turno e l’altro. Se l’assenza era veramente giustificata e occasionale, tutti si prestavano, volenti o nolenti, a sostenere lo straordinario perché, prima o poi, poteva capitare anche al sostituto di dover essere sostituito.

Provate un po’ a pensare se l’assenza fosse stata pretestuosa: tra le tante persone “scomodate”, c’era sempre qualcuno che, quanto meno, mugugnava o se ne lamentava, e, molto spesso, il sostituto chiamato in servizio non si faceva trovare in casa, non si presentava o, a sua volta, si metteva in malattia: era per noi la denuncia che la malattia del primo era falsa o pretestuosa.

Bastava attendere la seconda o la terza assenza, e arrivava la richiesta ufficiale di “spostare” dal gruppo l’assente abituale, fatta dal Capo Turno a nome di tutti i compagni, appoggiati dal rappresentante sindacale interno. Il recidivo veniva rimosso dal turno e diventava “giornaliero” tra i “servizi generici”, con orario dalle otto alle diciassette, perdendo in busta paga, le relative indennità per turno, lavoro notturno, festivo ecc.

La “mela marcia” veniva rimossa dalle buone: un vero successo!

Questo sistema, però, costringeva a recarsi in fabbrica anche con la febbre? Perché no! Con il gruppo unito, se la persona era notoriamente uno che non dava problemi al gruppo, se un giorno non si sentiva bene, specie di notte quando erano assenti i Capi reparto e restavano solo i Capi Turno, poteva chiedere di essere lasciato libero da impegni pressanti e, almeno per un paio d’ore, se ne restava su di una panca a riposare, mentre gli altri compagni coprivano la sua posizione.

Del resto il ciclo produttivo aveva una durata più o meno fissa per ciascun reparto di produzione ed era fatto in modo che, nella maggior parte della propria giornata lavorativa, veniva richiesta un’attenzione vigile alla strumentazione e pochi interventi diretti.

Di casi del genere, cioè di spostamenti dai reparti chiesti dal gruppo, ce ne furono parecchi, penso comunque meno di una diecina, ma nel gruppo dei “servizi generici” vennero inquadrati anche coloro che, provenienti da altri servizi, non avevano molta voglia di lavorare e che, comunque, assenti o presenti a mezzo servizio, non potevano dar fastidio agli altri e alla lavorazione ma, bene o male, svolgevano un servizio che altrimenti sarebbe stato appaltato a terzi, e licenziarli non era consigliabile, perché il Sindacato li avrebbe difesi, perché sarebbe iniziata una lunga vertenza di lavoro e, già all’epoca, i Giudici del Lavoro davano sempre ragione al “povero” lavoratore.

Quando qualcuno esterno mi diceva che i dipendenti della nostra Società erano “tutti” fannulloni e scansafatiche, io li invitavo a farmi il nome o, se per omertà tacevano, li citavo io, uno ad uno, facendo appunto l’elenco degli addetti ai servizi generici: - «Ho dimenticato qualcuno? Ne ho contato una diecina! Ma ne lavorano più di duecentotrenta. Sono sempre e solo gli stessi! Come si può dire che sono “tutti” fannulloni?» -

Con il tempo, gli operai diventarono più bravi dei chimici a prevedere la durata del ciclo produttivo da loro stessi seguito e controllato, per cui erano in grado di prevedere i cosiddetti “tempi morti” nei quali potevano anche “distrarsi”, magari facendo una partita a carte, o mangiare “la parmigiana” portata in fabbrica dal collega, la torta del compleanno del figlio, e così via: l’importante era che non si creassero scompensi nel ciclo produttivo!

La Direzione, i Capi Reparto, noi dell’Ufficio del personale, sapevamo sempre tutto e tutti tolleravano questo tipo di andazzo, proprio perché, comunque, non si creava alcun inconveniente nella produzione.

Dirò di più, nella maggior parte dei casi, noi dell’Ufficio del personale, venivamo informati preventivamente delle “festicciole” programmate, ciò perché, all’ingresso ed all’uscita della fabbrica, c’era il “sorteggiatore”, il campanello che squillava a sorte per la perquisizione dell’operaio prescelto, e noi si avvertiva il guardiano di turno di tutto quello che il tale operaio avrebbe portato in fabbrica, ma non era autorizzazione, solo un “invito” a chiudere un occhio.

Come, per esempio, si faceva in occasione dei campionati mondiali e gli europei di calcio trasmessi dalla televisione: consentire l’ingresso in fabbrica dell’apparecchio televisivo, evitava il dover fronteggiare le numerose assenze, e spesso ero lo stesso Capo reparto, italiano o giapponese, che assisteva agli incontri insieme ai suoi operai.

Questo potrebbe sembrare “accondiscendenza passiva” o, peggio complicità o paternalismo. No: questo ci consentiva di conoscere tutto quello che avveniva in fabbrica, ma soprattutto ci permetteva di “concedere” favori apparentemente gratuiti, ma all’occorrenza, nei momenti critici, sapevamo a chi rivolgerci per chiedere notizie, per dare “consigli” e suggerimenti.

Con il tempo, quando le posizioni chiave della Società furono accentrate nelle mani dei “quadri” locali, eravamo in grado di “affiancare” la Commissione Interna, senza strafare o dare ordini, semplicemente con il colloquio con i “capi”, lasciando “cadere” là i nostri pareri, consigli o suggerimenti.

Qualche volta, uno di questi rappresentanti si metteva in posizione polemica nei confronti della Direzione e non “recepiva” i nostri consigli.

Se lo scontro si faceva particolarmente burrascoso, se i rapporti si fossero ormai compromessi irrimediabilmente, ricorrevamo alla squalifica completa della sua carriera di sindacalista: bastava dargli un avanzamento di livello, oppure assumere uno dei suoi fratelli o famigliari stretti, che perdeva ogni credibilità agli occhi dei suoi compagni e mordente nei confronti della Direzione.

Naturalmente c’era anche qualcuno che, pur andando diritto per la sua strada senza “ascoltare” i nostri consigli, per intelligenza, onestà e rettitudine, era rispettato da tutti, anche dalla Direzione, e uno di questi, Pasquale Lauriola, diventò anche Segretario Provinciale della Federchimici CISL.

Capitava pure, ogni tanto, che qualcuno dei sindacalisti più intelligenti venisse messo in discussione dalla “base” o da qualcuno che voleva sostituirlo, allora eravamo noi stessi a “consigliargli” di farsi momentaneamente da parte per far posto al nuovo avanzante, il quale, naturalmente, non avrebbe mai ricevuto i nostri consigli o i nostri suggerimenti.

Purtroppo, proprio in un frangente simile, mentre in Commissione Interna era stato inserito un capo, anche politico, emergente ma di scarso peso specifico ed inaffidabile, prima di poterlo mettere in discussione, capitarono le ultime fasi decisive della vita della nostra fabbrica. E questo è l’unico mio rimpianto.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti