martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - Gli inizi

L’Amministratore Delegato
Ad agosto 1965, quando io entrai in azienda, primo dipendente nativo di Manfredonia, la costruzione delle opere edili era a buon punto e si incominciavano ad ordinare le prime macchine ed i primi impianti. Il caso volle che entrai in azienda con una vistosa fasciatura alla mano destra, per essere scivolato nel corridoio di casa paterna, battendo la mano contro il vetro di un quadretto che mi procurò diversi punti di sutura.

La mattina del lunedì 2 agosto fui accolto dal mio capo contabile e dal mio direttore amministrativo che, però, partì il giorno stesso per Manfredonia per perfezionare in Capitaneria di Porto la pratica per la concessione demaniale del deposito costiero sul porto.

Il giorno dopo, il capo contabile mi consegnò la cassa, comunicandomi che l’indomani partiva per le ferie. Il mercoledì ero l’unico impiegato amministrativo presente e ricevetti, come cassiere, la richiesta di un anticipo per spese di viaggio da parte del capo dei chimici. Come da istruzioni ricevute, compilai un assegno bancario di un milione di lire, sulla Banca Nazionale del Lavoro e lo portai alla firma dell’Amministratore Delegato, il Dr. Fukazawa.

Mi avevano detto che questo Amministratore proveniva dalla carriera diplomatica e, ultimamente, era stato addetto commerciale all’ambasciata giapponese a Parigi. Era un signore dai modi gentilissimi, come e più degli altri giapponesi, e che da oltre vent’anni viveva in Europa. Fu sorpreso e meravigliato dalla mia richiesta e, prima di firmare, mi chiese notizie sulla mia ferita e poi mi chiese, sempre in inglese, di chiamare il direttore amministrativo:

- «E’ a Manfredonia, dottor Fukazawa,» - gli risposi.

- «Ah si! Ricordo! Mi faccia venire allora il capo contabile.» -

- «Non c’è signore, è andato in ferie.» -

Rimase sorpreso e mi guardò in silenzio. Poi guardò le carte che gli avevo portato alla firma, che, oltre all’assegno, comprendevano dei mandati di pagamento da me scritti a mano, con la mano fasciata, per pagamenti da me disposti e che lui doveva autorizzare. E chiese:

- «Chi va allora in banca a cambiare l’assegno?» -

- «Ci andrò io!» - risposi sicuro: - «Ieri sono stato presentato al Cassiere della Banca!» -

Ma, evidentemente, non era quella la sua preoccupazione. Andai in banca, ma prima entrai nel bar a prendere un caffè, poi prelevai il denaro e tornai in ufficio. Rientrando, non vidi al suo posto all’ingresso il fattorino, di poco più vecchio di me, che mi era stato raccomandato di tener sotto controllo per la sua facilità di imboscarsi e dedicarsi ai propri affari.

Misi tutto a posto e, per fare un gesto di cortesia, mi recai di persona a portare il denaro al Dr. Giavelli, il capo dei chimici, che apprezzò molto il mio gesto e restammo per un po’ a parlare, naturalmente, della mia ferita e di Manfredonia.

Nel corridoio, vidi al suo posto il fattorino, piuttosto accalorato e sudato, che mi guardava ad occhi sgranati dalla sorpresa. Più avanti, nel mio ufficio, trovai in piedi al centro della stanza il Dr. Fukazawa che mi aspettava e mi chiese:

- «E’ andato tutto bene in banca?» -

- «Yes Sir, of course! (Sì signore, naturalmente!)» -

Solo dopo qualche minuto, riflettendoci sopra, mi sembrò che ci fosse qualcosa di strano.

L’ufficio di Roma era al centro, a Via Bissolati, la strada dove si trovavano gli uffici di rappresentanza di quasi tutte le linee aeree internazionali e sicuramente di tutte le più importanti. Il nostro ufficio era al primo isolato verso Via Nazionale, mentre all’altro estremo, verso Via Veneto, al terzo ed ultimo isolato, quasi di fronte all’Ambasciata USA, c’era l’edificio della Banca Nazionale del Lavoro. Proprio di fronte ad un ingresso secondario della BNL, a Via San Basilio, alle spalle dell’ingresso principale di Via Veneto, c’era il bar dove avevo preso il caffè.

C’era un grande bar proprio sotto il nostro ufficio a Via Bissolati, era un American Bar, nel senso che vi si poteva mangiare anche una bistecca o un piatto di pasta, e qui al mattino, prima delle otto e trenta, facevo la colazione con cappuccino e cornetto, ma il caffè di mezza mattina preferivo prenderlo all’altro bar, perché, come mi aveva fatto subito notare un collega più anziano, in quell’American Bar, dopo le nove del mattino, sulle tazze ci potevi trovare tracce di rossetto di tutte le nazioni e continenti del mondo, ed era vero.

Quando, nell’intervallo per il pranzo, chiesi al fattorino perché fosse uscito dopo di me, quello mi riferì invece che, subito dopo di me, era uscito il Dr. Fukazawa, non prima di aver chiesto di me in maniera concitata, tanto che lo stesso fattorino, preoccupato, pensò che io avessi dimenticato qualcosa che lo stesso Amministratore mi stata riportando, rincorrendomi.

In pratica, appresi che Fukazawa mi aveva seguito a distanza, mentre io ero entrato in banca dalla porta posteriore, ne ero uscito subito dopo dal portone laterale di Via Bissolati per tornarmene in ufficio, lasciando Fukazawa a Via San Basilio a spiare e attendermi. Quando non mi vide più in banca andò forse a chiedere notizie al Cassiere, uscendo subito dopo.

- «Quando l’ho visto uscire,» - continuò il fattorino, - «mi sono messo a correre e l’ho preceduto di poco. E lui mi fa: il ragioniere? E io, nel suo ufficio! Poi, invece, t’ho visto arrivare dall’altra parte, dall’altro corridoio!» -

Tentai di trovare una spiegazione a tutto quanto avevo ascoltato: raccontai che forse aveva dei dubbi sulla mia capacità di poter ritirare il danaro dalla banca, come, del resto, si era espresso al momento della firma dell’assegno, forse perché era accaduto a lui di incontrare delle difficoltà in banca.

Invece avevo la netta sensazione che avesse pensato che potessi scappare con la cassa: proprio io che, nel mio lavoro precedente, avevo maneggiato spesso anche molto più di un milione di lire. Alla verifica dei miei primi stipendi ricevuti a Roma, dove ci rimettevo del mio ogni mese, poteva anche giustificarsi la diffidenza dell’Amministratore. In ogni caso, c’era sicuramente una certa diffidenza nei confronti degli italiani, ma anche questi, gli italiani, non erano esenti da colpe e prevenzioni verso i giapponesi.





















Lo Staff tecnico

Il Calendario Cinese: ne sapevo l’esistenza ma non avevo avuto mai occasione di farne la conoscenza. Ne sentii parlare per la prima volta la sera del 5 gennaio dell’anno 1966, scoprendo che aveva un ciclo di dodici anni, nel senso che, per dodici anni, ogni anno era rappresentato da un animale, al tredicesimo anno si riprendeva la rappresentazione daccapo, come al primo.

Quella sera del 5 gennaio 1966, vigilia di un giorno festivo, ero in una saletta riservata del Ristorante Sistina, in Via Sistina a Roma, di fronte al mitico Teatro e tempio dello spettacolo leggero e del musical italiano, palestra della premiata ditta Garinei & Giovannini e di tutti gli altri più famosi attori ed autori dello spettacolo più o meno leggero italiano.

Al tavolo del Ristorante una ventina di commensali, italiani e giapponesi misti, ed io ne ero praticamente uno degli ultimi, essendo stati assegnati i posti rispettando scrupolosamente le scala gerarchica dell’organigramma aziendale, per cui, il mio dirimpettaio era il disegnatore giovane mentre, alla mia sinistra, c’era il mio unico collega pari grado, assunto da meno d’un mese e, di fronte a lui, c’era l’usciere.

A capo tavola, quindi dall’altra parte rispetto al mio posto, sedeva l’anfitrione, l’Amministratore Delegato della nostra Società, il dott. Fukazawa di nazionalità giapponese e di religione buddista.

E fu appunto l’Amministratore Delegato che, prima di iniziare la cena, volle motivare quella serata ricordandoci che, in quel nuovo anno appena iniziato, il nostro Stabilimento di Manfredonia sarebbe stato ultimato entrando in produzione, voleva augurare quindi buon lavoro a noi dipendenti e, soprattutto, una lunga e ricca vita alla nostra Società, sottolineando a questo punto che tutti gli auspici erano favorevoli in quanto, fra pochi giorni, sarebbe iniziato il nuovo anno cinese rappresentato dal “cavallo”, animale nobile che galoppa e corre e che, quindi, avrebbe fatto galoppare anche il nostro Stabilimento, la nostra Società con tutti i suoi dipendenti.

La costruzione dello stabilimento era organizzata e diretta dal Giappone. Tutti i disegni tecnici arrivavano dal Giappone infatti, anche se non pervenivano direttamente alla sede dell’Ufficio, ma al domicilio dei tecnici giapponesi, come effetti personali spediti da privati a privati. Questo sistema, che era solo ipotizzato dai tecnici italiani, io ebbi modo di accertare con sicurezza quando poi fui messo a dividere la mia stanza con i tecnici giapponesi, ciò finché non fu assunto l’altro Ragioniere e, con il Capo contabile, potemmo creare insieme un “reparto”.

Ma fintanto rimanevo il più giovane e l’ultimo arrivato, ero il primo a traslocare ad ogni nuovo arrivo, finché mi sistemarono nella grande stanza dei giapponesi, ed ebbi modo di studiare loro ed il loro modo di pensare, e questo ancor più quando arrivò a Roma il Dr. Yamada, l’unico “consulente” amministrativo.

Era un laureato in giurisprudenza, anche lui poco più vecchio di me, e voleva assolutamente imparare l’italiano, per cui facemmo un patto, lui con me parlava italiano ed io dovevo correggerlo in caso di errori, ed io con lui parlavo in inglese, con lo stesso obbligo per lui. Per aumentare le occasioni di “studio”, evidentemente, prese a venire con noi, nell’intervallo meridiano, a mangiare nella vicina mensa del Ministero dell’Agricoltura, almeno fino a quando non arrivò a Roma la sua famiglia. Anche costui ritornò poi in Italia in quel fatidico anno 1976.

In effetti, il numero degli impiegati variava continuamente per le nuove assunzioni e per i trasferimenti a Manfredonia dopo il periodo, più o meno breve, di istruzione a Roma.

Per ogni team di italiani, c’era la corrispondente squadra di giapponesi. In ordine gerarchico, dopo Fukazawa, c’era l’ingegnere Saito, responsabile giapponese della costruzione, e il chimico capo della produzione industriale, dr. Komori. I due responsabili avevano alle proprie dipendenze gruppi di tecnici e chimici giapponesi che svolgevano il lavoro materiale, di numero molto variabile.

A fronte di questi, c’era il gruppo dei chimici italiani, capitanati dal Dr. Giavelli, proveniente dalla Squibb svizzera, ma da una fabbrica in Francia, dove aveva conosciuto la moglie che aveva sposato di corsa, pochi giorni prima di andare in Giappone.

A capo del laboratorio chimico ci sarebbe stato il Dr. Cantarella, torinese dalla Schiaparelli, poi c’era il Dr. Giappicucci, romano che aveva girato il mondo, e il Dr. Fontana, bolognese. Tutti questi chimici erano molto bravi e molto esperti, specie i primi tre. L’ultimo dei chimici era il Dr. Giorgio Gilli, nato nel Trentino ma figlio di coniugi baresi, giovane ed appena laureato.

L’altro staff tecnico, quello che si occupava della costruzione, era capitanato dall’Ing. Ciceri, milanese, bravo ed esperto, sempre distratto o assorto nei suoi pensieri, altissimo e dalla camminata sbilenca.

Lo staff dell’ing. Ciceri, tutta gente molto esperta, era in gran parte già al lavoro presso il cantiere di Manfredonia, come il geom. Caponio, barese, che praticamente costruì tutte le parti in muratura. C’era un bravo perito meccanico milanese e uno strumentista pneumatico marchigiano, si era alla ricerca di uno strumentista elettronico.

Restavano invece fissi a Roma i due disegnatori tecnici, un giovane ed uno molto anziano. Infatti i disegni giapponesi venivano ridisegnati per i tecnici italiani, rivisti dai tecnici giapponesi, approvati dall’Ing. Saito e, quindi, firmati dall’Ing. Ciceri. Gli impianti chimici subivano la stessa procedura. Le caratteristiche tecniche arrivavano dal Giappone, tradotte in inglese dai tecnici giapponesi, ritradotte in italiano dai chimici e dai tecnici italiani.

Si stendeva quindi l’ordine di fornitura in italiano che, però, prima di essere trasmesso, veniva tradotto in inglese dagli italiani, poi in giapponese dai tecnici nipponici, approvato dall’Ing. Saito e firmato dal Dr. Giavelli o dall’Ing. Ciceri, oltre che dall’Amministratore Fukazawa con valore di impegno finanziario. Si saltò un passaggio quando il Dr. Komori, il chimico, andò a Manfredonia a seguire direttamente i lavori.

Tuttavia, prima di andar via, Komori ebbe un lungo colloquio con me, solo perché ero l’unico indigeno locale di Manfredonia. Si informò sulle abitudini locali, sui nomi dei medici, sui pediatri più bravi, sui ristoranti, sui meccanici riparatori d’auto, sulle farmacie e sui negozi più importanti, prendendo debita nota di tutto. Questo perché, verso la fine di agosto, portò a Manfredonia moglie e figlie.

Tutti gli ordini ed i contratti di fornitura dei materiali e dei lavori, venivano compilati dall’Ufficio Acquisti, dall’Ing. Porcelli, un anziano ed esperto pensionato, con lunga militanza nella Breda, affiancato da un avvocato barese.

Tutti i chimici italiani, che erano stati circa un mese in Giappone, per uno stage sugli impianti presso la casa madre, trattavano i corrispondenti chimici giapponesi con rispetto e simpatia, anche se, tra loro, ne sparlavano dicendone peste e corna. Gli altri tecnici italiani trattavano i giapponesi con curiosità e qualcuno con sufficienza.

Essendo la società nell’orbita delle Partecipazioni Statali, era stato concordato, evidentemente, che le forniture ed i lavori sarebbero stati affidati, nei limiti del possibile, alle altre aziende parastatali, con preferenza per le baresi e le meridionali. Ciò anche in considerazione che il Contributo a fondo perduto erogato dalla Cassa per il Mezzogiorno per i nuovi investimenti nel Sud, era in misura maggiore per gli acquisti da aziende del Mezzogiorno e, similmente, il finanziamento a tasso agevolato.

Tutte le opere edili e murarie erano affidate alla Società “Giovannini & Micheli”, introdotta presso tutte le aziende parastatali, gli impianti elettrici alla “Energie”, con sede a Bari, una società che aveva assorbito varie altre piccole imprese meridionali.

Due ingegneri di questa Società, la Energie appunto, vennero richiamati a discutere dei loro disegni esecutivi con l’Ing. Saito e l’Ing. Ciceri, in mia presenza, visto che dividevo la stanza con Saito e due altri tecnici giapponesi.

In pratica, Saito aveva trovato molte cose sbagliate nei disegni e negli schemi elettrici preparati. Lui ne aveva discusso, come al solito animatamente, con Ciceri che li aveva riferiti alla Energie e questi avevano contestato i rilievi perché ingiustificati.

Quando vennero i due giovani ingegneri, si sedettero davanti a Saito con molto sussiego e sufficienza. Dopo i primi preamboli, Saito prese il disegno e cominciò a svolgerlo sulla propria scrivania e, con un pennarello rosso, cominciò a segnare con grossi tratti, i punti errati, come un maestro che corregge il compito degli allievi.

Gli ingegneri della Energie prima reagirono timidamente, poi incominciarono a protestare, dicendo di aver seguito le direttive e le prescrizioni ricevute dal nostro ordine di fornitura, ma, quando Ciceri li invitò a rileggere l’ordine, confessarono di non averlo portato con sé, dimostrando la scarsa preparazione o la poca importanza data all’incontro. Ciceri prese la sua copia che io mi preoccupai di fotocopiare per i due tecnici, mentre Saito mise fuori la propria copia in giapponese.

Alla fine, pur non comprendendo quanto dicevano, essendo termini strettamente tecnici, con Ciceri che parlava in inglese con Saito ed in italiano coi due ospiti, dedussi che avevano davvero sbagliato, dimostrando di aver svolto con molta approssimazione il proprio lavoro, sottovalutando i committenti e, soprattutto, non avevano capito il significato di molte soluzioni tecniche adottate o solo richieste dai giapponesi, soluzioni che in Italia, all’epoca, erano sconosciute o non applicate, ritenendole inutili o inutilmente dispendiose. In pratica, davanti ad una soluzione tecnica per loro sconosciuta o semplicemente nuova, l’avevano ignorata adottando la propria o quella a loro nota, dando per scontato che i giapponesi si fossero sbagliati.

Qualche mese dopo, a Manfredonia, ero diventato amico del capo cantiere barese della Energie, colui che dirigeva i lavori, e non potei fare a meno di raccontargli la scena cui avevo assistito.

Da lui ebbi la conferma che i due ingegneri della Energie non avevano capito niente, che la Società aveva firmato il contratto di fornitura sulla base dei disegni predisposti dai due ma che, quando furono rifatti e corretti secondo la esatta interpretazione delle prescrizioni, risultò che il prezzo pattuito era stato esageratamente basso e poco remunerativo, e i due furono licenziati.

Stesso atteggiamento di sufficienza vidi nei tecnici di una grande e storica società siderurgica genovese, l’Ansaldo, alla quale erano stati ordinati i due fermentatori in acciaio inossidabile, cioè i giganteschi serbatoi nei quali avveniva la fermentazione della melassa, la prima e la più delicata fase della lavorazione. In questo caso erano meno giovani e si discuteva in via preventiva e senza disegni.

Qui, subito all’inizio, avvenne che uno degli ingegneri fece osservare che forse c’era stato un errore, in quanto era stato previsto un certo tipo di acciaio inox speciale anche per bulloni e dadi, mentre era risaputo che, in effetti, nessuno aveva mai usato bulloni di tale materiale. Alle insistenze di Saito, uno degli ingegneri si rivolse in milanese a Ciceri:

- «Via! Non perdiamo tempo! Lo convinca lei che tali tipi di bulloni non esistono in Europa, figuriamoci se li hanno loro!» -

- «Signori miei!» - rispose Ciceri: - «Se li hanno previsti, significa che “loro” li hanno e li usano anche!» -

Saito era un vero Samurai e aveva oltre quarantacinque anni. Il Samurai, mi spiegarono, era il capo ereditario di una grande e nobile famiglia e, quindi, oltre alle materie tecniche della sua facoltà, aveva avuto una educazione tipo principe regnante, cioè istruzione umanistica orientale, arti marziali giapponesi, uso delle antiche armi e studi tecnici presso le migliori Università, con Stage e Master presso le più importanti Università della California, USA.

Era alto e massiccio, con grande testone, tanto che, vedendolo da lontano, si sarebbe pensato fosse un “piccoletto” come i suoi connazionali; il suo modo di camminare mi ricordava quello tipico visto nel film, con cintura bassa sotto la pancia e passo leggero, quasi in punta di piedi. Parlava in ufficio un inglese ruvido ed elementare, con la sua voce gutturale, e capiva abbastanza bene l’italiano, anche se non lo dava a vedere e non lo parlava mai.

Questo per spiegare che aveva capito la conversazione dell’ingegnere italiano e, infatti, partì un ordine secco, in giapponese, verso il suo collaboratore, che uscì immediatamente e tornò dopo un quarto d’ora con un telex ed uno dei loro soliti foglietti in carta di riso sui quali scrivevano a mano, era l’elenco di tutte le fabbriche che producevano i bulloni in quel tipo speciale di acciaio: in Europa c’erano due svedesi, due tedesche e una italiana, in Giappone ben sei e una a Singapore.

I rapporti di lavoro tra Ciceri e Saito erano quanto mai tempestosi e animati, ed io ne ero, mio malgrado, il testimone. Avevo assistito a tante discussioni e battibecchi, ma avevo capito che, in fondo, si stimavano vicendevolmente. Naturalmente i diverbi nascevano sulle diverse vedute circa le soluzioni tecniche da adottare e sui prezzi da riconoscere ai fornitori, e avvenivano sempre in inglese, lingua che entrambi, evidentemente, dominavano perfettamente.

Se l’argomento era di natura chimica, allora al fianco di Ciceri interveniva il Dr. Giavelli e, con lui, Saito era sempre meno irruente e la conversazione aveva un tono più calmo e sommesso.

Una di queste discussioni a tre fu particolarmente lunga e complessa, trascinandosi per diversi giorni. Quando i due italiani parlavano tra loro, capitava spesso che conversassero in francese, forse perché sapevano che Saito non lo capiva, ma, una volta, anziché parlare di termini tecnici, Giavelli fece un commento piuttosto salace su Saito.

Io avevo la testa sul mio lavoro ma capii il commento ed ebbi un involontario scatto e sorriso poi, allarmato, alzai il capo e guardai prima Saito e poi Giavelli: Saito stava guardandomi con occhi furbi, Giavelli guardò prima lui poi me, allarmato. Da quel giorno i nostri due tecnici non usarono più il francese, ma parlarono in tedesco, una lingua di cui a stento conoscevo il significato di una diecina di vocaboli, oppure una lingua per me veramente ostica e del tutto incomprensibile: il bergamasco.





Il processo produttivo

Nella produzione di glutammato, i giapponesi avevano, come già detto, una esperienza più che secolare e, come sistema, avevano l’abitudine di registrare e conservare nella storia tutti gli incidenti e gli inconvenienti che si fossero verificati e incontrati nel corso del processo produttivo, di ogni tipo e genere.

I loro tecnici, prima di essere assunti, facevano uno stage aziendale e dovevano imparare a memoria tutti gli inconvenienti con tutti i relativi rimedi e le soluzioni adottate e praticate, e quanti più episodi dimostravano di conoscere, più probabilità avevano di essere assunti e impiegati sui reparti produttivi.

Negli uffici romani, come normale orario di lavoro, avevamo un intervallo per il pranzo per più di due ore, appena sufficiente per coloro che andavano a mangiare a casa propria, ma troppo lungo per me che mangiavo alla mensa del Ministero dell’Agricoltura, a cinquanta metri dall’ufficio, e che, in poco più di mezz’ora, avevo ben che finito tutto.

C’era sempre qualche collega dello staff tecnico che mi faceva compagnia alla mensa, mentre il più anziano dei disegnatori rimaneva in ufficio con il panino, e accadeva quindi, molto spesso, che si rientrasse in ufficio molto prima dell’orario previsto, rimanendo a chiacchierare nella grande stanza dei disegnatori, tra l’altro l’unica con finestre sulla Via Bissolati.

Fu proprio in questi colloqui con l’anziano disegnatore e con gli altri colleghi tecnici che appresi tutti gli aspetti più interessanti e particolari dello stabilimento e della produzione. Anzi, per non smentirsi, un pomeriggio il dr. Fukazawa, prima dell’orario di lavoro, sorprese me ed il disegnatore a colloquio davanti al disegno tecnico proprio del processo, e rivolse, sorridendo, un garbato e gentile richiamo all’anziano disegnatore ed a me di ignorare e dimenticare tutto quel che c’eravamo detti, essendo riservato.

Tra l’altro mi saltò subito agli occhi la stranezza del nome dato ai vari reparti di produzione: si partiva da “H2”, per andare poi a “H4”, “H5” e “H6”, saltando il numero uno e il numero tre. Appresi che l’H1 sarebbe stato il reparto per ottenere la melassa di barbabietola ma, la cosa più interessante, il reparto H3 poteva essere il reparto più importante dello stabilimento in quanto, con l’utilizzo di una parte della sostanza fermentata, vi si poteva produrre molti tipi di aminoacidi e in quantità industriali.

I reparti H2 e H5 formavano un unico blocco, avendo vari piani di lavoro in comune tra loro, anche se ben separati. Nello stesso blocco, al piano terra, c’era il reparto H6, dove si insaccava e confezionava il prodotto che, attraversando una cancellata, veniva stivato nel magazzino. Il reparto H4, grande forse più degli altri tre messi insieme, faceva blocco a sé e separato.

Mi spiegarono, in pratica, che la fabbrica era costruita a struttura modulare, nel senso che aveva spazio sufficiente per costruire il famoso reparto “H3” mancante e prevedeva dall’origine la possibilità di raddoppiare gli impianti esistenti, anche per le cosiddette utilities, cioè aria compressa, caldaie a vapore ed energia elettrica.

L’unica struttura che, anche ad un occhio inesperto, dimostrava di “largheggiare” come spazi e dimensione, era il laboratorio chimico, già pronto quindi a qualsiasi progetto di espansione. Infatti, tutto il processo di produzione industriale veniva ripetuto, in scala ridotta, nelle sale del Laboratorio chimico da dove poi si avviava, in effetti, l’intero processo produttivo.

Dopo qualche anno dall’inizio della produzione, parlando con un perito chimico italiano che lavorava in Laboratorio, mi riferì che aveva avviato, in via sperimentale, d’accordo con i chimici giapponesi, una specie di reparto H3, per poter quantificare, in scala ridotta, il prodotto che si sarebbe potuto ottenere nella eventuale lavorazione industriale.

Mi mostrò un recipiente in vetro, contenente, per un paio di litri, una polvere finissima e bianchissima, dicendomi che lo aveva ottenuto dal materiale fermentato che, normalmente, si buttava in fogna, che quella polvere era un aminoacido molto richiesto dalle industrie farmaceutiche che lo pagavano al prezzo di 40 mila lire (anni settanta) al grammo, mentre lui ne aveva prodotto in pochi giorni, nei ritagli di tempo, oltre due chili.

Il Dr. Cantarella era un chimico di vasta e documentata esperienza, ed era destinato a diventare il Capo del Laboratorio. Quando da Roma fu trasferito a Manfredonia, venne subito a cercarmi per chiedere informazioni. Ci accordammo per andare in auto insieme a Manfredonia un sabato, lui per trasferirsi con la moglie in albergo, io per portare a casa i panni sporchi da lavare, risparmiando le spese del treno.

Ebbi modo di conoscere lui e sua moglie, avendo la conferma che era un vero signore torinese dai modi fini e cortesi, poco esperto di viaggi in auto, tanto che, diceva, “avrebbe sbagliato strada anche nel “Sahara”. Non so cosa avvenne nei suoi pochi mesi di lavoro a Manfredonia, so soltanto che ancor prima dell’avvio dello stabilimento per la produzione industriale, il Dott. Cantarella se ne tornò, insalutato ospite, alla sua Torino ed alla sua Schiaparelli, raccogliendo allori e successi, come ebbi modo di apprendere, in seguito, dalla stampa.

Quasi tutti i giapponesi, in questa fase e prima di trasferirsi a Manfredonia, venivano da me per informarsi sulla vita paesana a Manfredonia, facendomi le solite domande sugli alberghi e sui ristoranti, o sui dottori o sui meccanici per auto. Ci fu uno solo, il Dr. Okada, un chimico piccoletto e sempre sorridente, che venne con una agenda multilingue, comprata in cartoleria, e mi chiese notizie e spiegazioni su tutte le festività italiane, ovvero le numerose giornate in cui, all’epoca, normalmente non si lavorava.

Ad ogni mia spiegazione, lui annotava con una matita a mina Pilot, naturalmente in giapponese, ciò che gli dicevo sulla pagina dell’agenda del giorno in questione. Poi rileggeva quanto scritto e ripeteva: - «A-scen-sio-ne, ne-skà? Ah so de-skà!» - e restava per un lungo minuto in silenzio.

Avevo iniziato a spiegare dettagliatamente le ragioni della festività, poi, specialmente per le religiose, mi trovai in difficoltà, perché, per esempio, tra Pasqua, Ascensione e Corpus Domini, il festeggiato era sempre lo stesso e lui mi chiese: - «Ancora per Gesù?» - e sorrideva scuotendo la testa.

Stesso commento per le festività della Madonna, finché arrivammo all’8 dicembre, che io non nominai ma che lui lesse distintamente e poi mi formulò la temuta domanda:

- «Che significa Imma-co-la-ta Con-ce-zione?» -

Ci pensai bene prima di rispondere e, infine, con un po’ d’inglese e un po’ di italiano, cercai di spiegargli il Dogma della Vergine e Madre.

Ci pensò sopra per parecchi minuti, guardando alternativamente me e l’agenda, poi guardandomi diritto negli occhi: - «Do you know it’s impossible? Ne-skà? (Lei sa che è impossibile? Nevvero?)» -


Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti