Gli Auguri
In piena atmosfera festaiola, prima di lasciare l’ufficio e tornare alle nostre case, andammo a porgere i nostri auguri per il nuovo anno, il 1977, al Presidente della Società, il Professor Mario Signora. Avevamo visto scendere il personale giapponese, per questo pensammo di poterlo trovare solo e restare a parlare un po’ più a lungo e serenamente. Invece lo trovammo in compagnia del nuovo direttore di stabilimento, il Dott. Cappuccio, seduto di fronte a lui, ma il Presidente ci fece segno di entrare lo stesso e si alzò in piedi, venendoci incontro con la mano tesa.
In altri momenti, saremmo stati lusingati di questa sua gentilezza e cortesia, invece, non so perché, ne rimasi quasi scombussolato e confuso. Per fortuna, il mio collega Tavano era più lucido di me e, dopo gli auguri ed i convenevoli, gli chiese se avrebbe voluto, l’indomani mattina, che qualcun altro, oltre all’autista, andasse in macchina con lui.
- «No, no! Non c’è bisogno! Sono solo due ore di macchina! E poi..» - e si voltò verso il dott. Cappuccio che, nel frattempo, si era alzato e stava uscendo: - «Per distrarmi mi rileggerò queste carte che, oddìo, ancora non mi suonano tanto bene….» -
Tavano allungava il suo discorso, dicendo che gli avrebbe fatto immenso piacere accompagnarlo e cogliere l’occasione per porgere gli auguri di buon anno anche al fratello del Presidente, l’Arcivescovo di Pompei, luogo di destinazione appunto del viaggio dell’indomani mattina. Intanto il nuovo direttore di fabbrica, Cappuccio, salutava uscendo, lasciandoci soli col Presidente che, nel frattempo, gli rivolgeva frasi di circostanza, farfugliando però anche qualcosa di incomprensibile in milanese e terminando, così mi parve, con una espressione d’accento napoletano.
Sarà stato per la mia antipatia verso il Dott. Cappuccio, ma mi convinsi che quelle imprecazioni del Presidente erano verso di lui, così come, alzandosi e venendoci incontro, avesse voluto licenziare il suo dirimpettaio che, infatti, era uscito:
- «Qui è tutto tranquillo, vero?» - chiese il Presidente.
Pensai che la domanda fosse rivolta al Capo dell’Ufficio del Personale, il Dott. Tavano appunto, che si affrettò a rispondere affermativamente e in maniera rassicurante. Poiché tuttavia, formulando la domanda, il Presidente guardò alternativamente anche me, chiesi timidamente: - «In che senso, mi scusi?» - rammentandomi che la stessa domanda mi aveva rivolto, un paio di settimane prima, il Dott. Cipriani, già Amministratore della Società fino a pochi mesi prima, mentre io gli formulavo gli auguri per l’imminente Natale.
E il Presidente: - «Insomma, i nostri amici sindacalisti, sempre pronti a saltare su ad ogni stormir di foglia, in una situazione simile, se ne stanno calmi e tranquilli? Forse non avete..…, non hanno capito quel che sta succedendo!» - E ci congedò, affermando che n’avremmo discusso la prossima volta.
Tornando a casa in macchina, insieme, io e Tavano, ci chiedevamo il significato di quanto avevamo udito e che cosa volesse dirci con quelle parole, cosa intendesse con “quel che sta succedendo”, concludendo che, qualunque cosa fosse, non si trattasse in ogni caso di argomenti rassicuranti per il nostro futuro.
Nella mia posizione di Responsabile amministrativo, con Tavano Capo del personale, insieme al Chimico, Capo della Produzione, forestiero e in quei giorni assente per ferie, eravamo, anzi lo eravamo stati fino ad un paio di mesi prima, cioè prima del ritorno del nuovo direttore di stabilimento Cappuccio, gli italiani con la carica più alta nell’organigramma aziendale e, noi due, gli unici indigeni locali.
La società.
La Società per Azioni, con sede in Manfredonia, era stata fondata alla fine dell’anno 1963 ed era denominata ancora Ajinomoto-INSUD, anche se, ormai alla fine del 1976, l’INSUD non ne faceva più parte, avendo ceduto la proprietà del suo 50%, in parte alla stessa Ajinomoto giapponese ed in parte alla Deutsche Ajinomoto con sede in Amburgo.
All’epoca della fondazione, negli anni sessanta, v’erano pochi contatti del mondo occidentale con i giapponesi che, si riteneva, fossero solo bravi a “copiare” e “rifare” tutti i prodotti occidentali e, con questi, stessero invadendo il mercato nord americano. In Europa, le cose giapponesi più note erano le piccole radioline a transistors gracidanti che si cominciavano a portare allo stadio, e le motociclette Honda.
L’Ajinomoto giapponese era un grande colosso chimico industriale e finanziario, una vera multinazionale con stabilimenti in tutto l’estremo Oriente che, prima della guerra mondiale, aveva avuto anche uno stabilimento in California (USA), che, però, fu prima requisito dal Governo USA e poi chiuso quando, con personale americano, non furono più in grado di produrre alcunché.
Aveva in ogni modo alle spalle una storia industriale di oltre cento anni e il significato del suo nome, Aji-no-moto, composto appunto da tre lemmi, era “essenza del sapore” oppure, se letto nell’altro verso, all’occidentale, era “sapore d’essenza”.
I laureati in chimica più aggiornati m’informarono che, di 36 aminoacidi conosciuti all’epoca e isolati in laboratorio, su ben 24 il brevetto industriale apparteneva all’Ajinomoto. Sempre gli stessi tecnici, mi spiegarono che gli aminoacidi erano la base di tutti i medicinali moderni, che le industrie farmaceutiche stavano studiando tutte le applicazioni di quelli più conosciuti, e le scoperte erano continue e strabilianti.
Ma per gli aminoacidi si apriva anche un grande mercato per l’alimentazione umana e, soprattutto, per quella dietetica che stava incominciando ad affermarsi, anche se, all’epoca, era per gli “snob” e, per quanto riguardava i dolcificanti, per i diabetici.
Quando i giapponesi decisero di espandersi in Occidente fondarono la Deutsche Ajinomoto ad Amburgo, con lo scopo di studiare il mercato europeo e, contemporaneamente, per offrire i loro prodotti.
Le più grandi industrie chimiche e farmaceutiche tedesche non si fidavano dei giapponesi anche perché questi, quando si presentavano per offrire joint-venture o chiedere partnerships, per istinto di conservazione si presentavano a mani vuote, escluso le normali brochures illustrative e commerciali. La Francia, agli investitori stranieri, consentiva il 49% della proprietà. La Gran Bretagna aveva un colosso chimico che, da parte sua, cercava di penetrare sul mercato giapponese e già si era scontrato evidentemente con i nostri amici giapponesi.
L’unico colosso chimico italiano era l’ANIC ma, all’epoca, mi dispiace dirlo, era appena morto l’Ing. Enrico Mattei e non c’erano dirigenti avveduti ed esperti, e forse, come sempre mi capitava in seguito, veramente pensarono, per assonanza col nome, che l’Ajinomoto producesse motociclette tipo le Honda. E, infatti, spedirono i giapponesi all’IRI che, naturalmente, assicurò che non aveva interesse. Qualcuno del Ministero delle Partecipazione Statali, per fortuna, non volle perdere l’occasione e mandarono i giapponesi al nuovo ente di recente fondazione, l’EFIM.
Presidente dell’EFIM era l’Avv. Pietro Sette, barese e fedelissimo di Moro, che ricevette appunto i giapponesi, affiancato da un altro barese, l’ingegner Musaio-Somma, Presidente della INSUD e d’altre numerose società del Gruppo. Avranno avuto fiuto, saranno stati abbagliati dalla visita in Giappone presso la sede della Ajinomoto, qualcosa insomma li avrà convinti rispetto agli altri “boiardi” delle P.S., perché fu immediatamente convenuto di costruire la nuova fabbrica per la produzione del glutammato monosodico in Puglia e, più precisamente, nel Collegio elettorale di Moro, con la partecipazione paritetica della INSUD.
Veramente si pensava di metterla nell’area industriale barese, dove, secondo i programmi dell’EFIM, si stavano insediando nuove industrie chimiche e, soprattutto, si stava costruendo il Centro Ricerche Breda per la ricerca pura e applicata nell’area chimica e farmaceutica, ma i giapponesi, con la loro simpatica e irremovibile cortesia, scelsero, sempre in ogni modo nel Collegio di Moro, la terra vergine di Manfredonia, naturalmente per una, per loro, valida ragione: volevano tenerla lontana da occhi indiscreti o da curiosi più o meno disinteressati.
Rimase qualcosa, comunque, della terra di Bari, perché tutti i giapponesi conoscevano la parola “sciamanìnn(e)!” che nel dialetto barese significa solo “andiamocene”, ma viene anche usata per intendere “andiamo avanti! Cominciamo!” e, a quanto pare, fu l’ultima parola pronunciata dall’Ing. Musaio-Somma alla fine della trattativa e, come tale, degna di passare alla storia.
Loro l’avevano intesa con questo significato e come un vocabolo della lingua italiana, anche se sbagliavano l’accento e dicevano “sciamàni”, ma se ne servivano, al termine di un incontro, come biglietto da visita con gli italiani per rendersi simpatici, solo che la potevo intendere subito io, pugliese, ma non i nostri chimici settentrionali, che ci scherzavano sopra, avendola ascoltata addirittura in Giappone e capìta solo dopo molte difficoltà grazie alla presenza, tra loro, di uno con genitori e origini baresi.
I Preliminari
I patti para-sociali per la vita della nuova Società prevedevano che la parte tecnica e produttiva fosse esclusivo campo dei giapponesi che ne avevano la conoscenza e, soprattutto, ne detenevano il brevetto industriale che gestivano e proteggevano, coprendolo molto gelosamente.
I nostri laureati in chimica, tutta gente di qualità, molto preparati ed esperti, mi raccontarono che, in Giappone, ebbero modo di costatare che la protezione del segreto industriale e del brevetto assumeva aspetti addirittura maniacali e paranoici, specie se visti con la nostra mentalità occidentale.
Il prodotto scelto per mettere un piede nell’occidente era appunto il glutammato monosodico ottenuto in maniera organica dalla fermentazione della melassa di barbabietola, e tale glutammato era presente, e comunemente usato, sulle mense e nelle cucine orientali da oltre cento anni.
Tutti gli alimenti e le sostanze alimentari in genere contengono l’acido glutammico sotto la forma delle glutammine, che sono quelle sostanze “tipiche” di ciascun alimento che ne determinano il sapore ed il contenuto vitaminico. Il glutammato monosodico è un sale sodico dell’acido glutammico che, aggiunto ai cibi, si scioglie immediatamente, “liberando” l’acido glutammico perché “attratto”, appunto, da quelle glutammine tipiche e proprie dello stesso cibo, con le quali si apparenta aumentandone il sapore ed il valore nutritivo; resta “libero” il sodio ma, siccome in tutti i cibi è presente o ci aggiungiamo il cloruro di sodio, ovvero il sale da cucina, trova con questo il suo “parente” naturale.
Al termine di ogni spiegazione, da qualunque soggetto venisse, naturalmente esperto del settore, tutti concludevano.
- «In ogni caso fa bene al cervello. No! Non è che fa diventare più intelligente o più stupido! E’ che rinforza la corteccia cerebrale. Ciò significa che previene o rende più difficile la degenerazione dei tessuti nella corteccia cerebrale, per qualsiasi causa o accidente!» - Periodicamente, su qualche rivista, apparivano degli articoli che predicavano sulla nocività del glutammato, definito “additivo” alimentare, “scoperto” analizzando gli alimenti nel quale era stato aggiunto.
I chimici mi spiegavano che era pressoché impossibile scoprire il glutammato se aggiunto in un cibo nelle giuste dosi, per la semplice ragione che il composto, non essendo un “additivo” ma semplicemente un “esaltante” del sapore, svaniva presto e, con i cibi caldi, in un attimo, e non lasciava tracce se non in un incremento delle glutammine e, quindi, delle sostanze nutritive proprie del cibo: in pratica, era come dire che “questo cibo è più nutriente e saporito del normale, quindi vi deve essere stato aggiunto il glutammato”.
L’additivo alimentare che veniva invece spesso usato dall’industria alimentare era il “ciclammato di sodio”, una sostanza chimica sintetica, fabbricata in laboratorio quindi, di cui, all’epoca, non era stata ancora valutata la nocività, ma era tutta un’altra cosa, completamente diversa, ed in seguito fu severamente vietato.
Il glutammato si ricava con un procedimento naturale quale la “fermentazione”, lo stesso millenario procedimento con il quale si trasforma l’uva in vino, provocata appunto da batteri noti contenuti nella buccia o nei graspi. Il segreto industriale dei giapponesi era proprio questo “batterio” usato per la fermentazione della melassa e segreta era la sua composizione e la sua natura.
Detto in parole povere, questo batterio, posto nella melassa zuccherosa, con la temperatura giusta e studiata e con l’aggiunta dosata di aria compressa, l’assorbiva e si nutriva di essa, riproducendosi fino a “consumare” tutta la sostanza nutritiva, trasformandola in tutt’altra sostanza, finché, giunto il composto ad una voluta saturazione, si faceva fermare la fermentazione e, tramite vari passaggi e con sostanze chimiche adatte, si depurava il prodotto ottenuto e si cristallizzava come un sale che veniva poi insaccato e confezionato.
Fui il testimone inconsapevole dell’arrivo in Italia, a Roma, del primo ceppo dei batteri, portato come “bagaglio appresso” in una borsa termica da viaggio da uno degli amministratori giapponesi in visita al nuovo stabilimento in corso di ultimazione. L’arrivo a Roma di questo amministratore della casa madre, creò nei giapponesi una grande eccitazione, fin dai giorni precedenti al suo arrivo, tanto da richiedere anche la presenza dei chimici già trasferiti a Manfredonia.
Ed effettivamente, l’importazione di batteri vivi doveva essere severamente vietata o, quanto meno, prima di ammetterne l’entrata in Italia, doveva essere analizzata e valutata l’eventuale pericolosità: proprio ciò che i giapponesi volevano assolutamente evitare. In verità i retroscena di questo ingresso le intuii, più che ascoltati, dalle sonore e sollevate risate dei giapponesi quando i pochi presenti al racconto dell’amministratore, per ragioni di posizione gerarchica, la riferivano agli altri. In breve, aveva “fatto fesso” i doganieri italiani dichiarando che si trattava di cibo dietetico al quale, data la sua avanzata età, non avrebbe potuto assolutamente rinunciare durante il suo breve soggiorno in Italia.
In fabbrica, invece, il batterio era custodito in un’apposita sala sterile costruita nel Laboratorio dello stabilimento e, in questa sala sterile, nessuno era autorizzato ad entrarvi se non un paio di chimici giapponesi. La sala sterile aveva le quattro pareti di vetro. Non appena ci entrava il chimico, il primo suo gesto era abbassare le veneziane per non mostrare all’esterno cosa stesse facendo.
Ritornando al racconto dei patti para-sociali, dopo l’esclusiva della parte tecnico-produttiva della fabbrica che, sotto certi aspetti, era anche comprensibile, l’altra esclusività di competenza dei giapponesi era la parte commerciale, la vendita. Anche questa, in un certo senso, poteva ritenersi comprensibile sapendo che i giapponesi conoscevano tutto del mercato del glutammato in Europa.
Da Amburgo, tramite un vero e proprio servizio di spionaggio industriale a livello europeo, sapevano le quantità prodotte dagli altri produttori, le quantità vendute ai maggiori clienti, e persino le quantità che si sarebbero potuto produrre con la campagna annuale della barbabietola.
Infatti, i principali produttori europei erano gli stessi degli zuccherifici che, però, ottenevano il glutammato dagli avanzi della lavorazione dello zucchero, ma era un glutammato di scarsa qualità e di basso rendimento, puro al 50% mentre, quello del nostro Stabilimento, era puro al 99+% e ad alto rendimento, il che significava un impiego di dosi minori e con più risultato.
Ma prima del nostro, quello impuro era l’unico conosciuto e usato dalle grandi industrie alimentari per la produzione, essenzialmente, del dado per brodo o per i pochi, anzi pochissimi, “piatti pronti” pre-cucinati offerti all’epoca.
Con l’impiego del glutammato di Manfredonia, le più grandi industrie produttrici di dadi per brodo cambiarono la loro pubblicità, ora il piccolo e maleodorante dado da brodo era usato e consigliato per “insaporire” l’arrosto e gli altri piatti cucinati dalla brava cuoca: non è il dado che “insaporisce” i cibi ma il glutammato contenuto nel dado, ed, infatti, sulla confezione si incominciò a scrivere “”a base di glutammato monosodico””.
Qualche fabbrica del nord Italia, con una politica di vendita coraggiosa ed aggressiva, cominciò ad aumentare la gamma delle proprie produzioni, specie se destinate ai servizi di ristorazione e “catering”, introducendo i primi piatti precotti e confezionati, insaporiti ed esaltati nel sapore proprio dal glutammato.
In verità, il problema principale nella fabbricazione dei piatti pronti precotti era l’uso di appropriati additivi chimici destinati a conservare e stabilizzare il composto, additivi che, tuttavia, riducevano o modificavano il sapore del cibo: l’aggiunta del glutammato monosodico permetteva appunto ad esaltare il sapore del prodotto, nonostante la presenza degli additivi chimici.
I primi grandi clienti del nostro stabilimento furono la Star e la Knorr, che si convinsero però solo dopo lunghe e insistenti trattative e prove. Ma la perdita di questi due grandi clienti, ci creò dei nemici tra gli altri produttori che poi, come ha dimostrato in seguito la Magistratura, anche se per altre questioni, esercitavano un vero e proprio “cartello”, a livello anche europeo, controllando tutto il mercato dello zucchero, dalla barbabietola al prodotto finito, ed erano, in Italia, le famose “tre M”, vale a dire il gruppo Monti, quello Montesi e quello Maraldi che, insieme, rappresentavano circa l’85 per cento del mercato saccarifero italiano.
Ma del mercato dello zucchero e della melassa di barbabietola avremo modo di riparlarne più avanti. Ritornando ai patti para-sociali, l’unico aspetto di esclusività italiana, e quindi della INSUD, era la gestione contabile-amministrativa, questo perché i nostri amministratori si illudevano di poter controllare tutta la vita aziendale attraverso il controllo economico di gestione. Ma anche di questo parleremo dopo.
Il Presidente Prof. Signora.
Dopo Musaio-Somma, venne, come Presidente, il Prof. Mario Signora, che, mi pare di ricordare, fosse libero docente di chimica industriale, comunque era stato un combattente della Resistenza e, come tale, amico personale dell’Ing. Mattei dell’ENI e da lui messo alla Presidenza di varie società del gruppo. In seguito, con il passaggio della Terni Chimica all’EFIM, entrò a far parte anche di questo ultimo gruppo, oltre ad essere Presidente e Consigliere di Amministrazione in altre Società varie sparse tra la Campania e il nord Italia.
Dotato di grande carisma e di innata simpatia, oltre che di competenza industriale, entrò subito nelle simpatie dei dipendenti della Società e dei sindacalisti, non disdegnando il contatto diretto con gli stessi sindacalisti e con le maestranze, ma sempre con il dovuto rispetto dei reciproci ruoli, ciò in virtù della sua signorilità, di nome e di fatto.
Si definiva un paladino e tifoso degli italiani del sud, lui lombardo verace, dicendo spesso che noi sudisti eravamo più in gamba e svegli dei nordisti, ci mancavano solo le opportunità e le occasioni. Sotto questo aspetto, non potevamo non essere d’accordo con lui, noi che avevamo scalciato e sgomitato per assurgere ai più alti gradini nell’organigramma aziendale, sempre pronti ad ascoltarlo e riverirlo, senza comunque servilismi o lecchinismi che lui odiava.
Se dunque, in quel fine anno 1976, il Presidente si lamentava che non avevamo capito niente della situazione societaria, se si meravigliava di come i nostri sindacalisti non si fossero fatti avanti per protestare, o comunque, far sentire la loro presenza, voleva dire che, secondo la sua visione della cosa, si avvicinavano avvenimenti sfavorevoli e che, in ogni caso, erano previsti tempi bui per la nostra società e per i suoi dipendenti.
L’avvenimento più recente verificatosi nella vita della Società era stato l’uscita dalla compagine societaria della INSUD e, quindi di conseguenza, l’uscita della Società dall’ambito delle Partecipazioni Statali per diventare a tutti gli effetti una società privata a completo capitale estero. In verità la Commissione Interna dei sindacalisti era stata avvertita di questo movimento ma era stata anche rassicurata che, per i dipendenti, niente sarebbe cambiato.
Dopo l’uscita della INSUD, a ottobre del 1976, tornarono a Manfredonia due ex dipendenti licenziati anni prima, per la precisione un ex Direttore Amministrativo, il Rag. Fraschetti, e l’ex Responsabile dell’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio.
Il Rag. Fraschetti fu presentato come il Consulente Amministrativo della Società con sede di lavoro presso il nostro Ufficio Vendite di Milano, questo, evidentemente, per non creare o meglio per non far riemergere le frizioni con me che ero il Responsabile Amministrativo in fabbrica e gli altri impiegati amministrativi, mentre il Dottor Cappuccio fu presentato come il nuovo Direttore italiano dello stabilimento, che affiancava il precedente Direttore giapponese che, però, conservava la delega unica della firma societaria e la rappresentanza legale.
In conclusione, quel Capodanno del 1976-1977 non fu il più sereno per me e per il collega Tavano.
La INSUD
L’EFIM era il terzo Ente statale destinato, come diceva la sigla, al finanziamento delle industrie manifatturiere. In verità, mentre all’IRI predominavano i DC, all’ENI il PSI e il PRI, l’EFIM doveva essere il feudo dei socialdemocratici, per ricomporre il quadripartito al potere.
Si dedicò all’inizio soprattutto a “salvare” per volontà politica quelle industrie ormai “decotte”, sparse “a pioggia” un po’ in tutta Italia, che non erano gradite né all’ENI né all’IRI. Ed infatti, il suo primo “regalo” fu l’acquisizione della Società per l’estrazione e lo sfruttamento dell’alluminio sardo, una impresa da liquidare, con un numero importante di dipendenti e trascorsi storici molto significativi: ciò determinò una buona dotazione finanziaria iniziale per il nuovo Ente.
A nord, la principale e più importante partecipata EFIM era la Breda che fu spezzettata; le attività più economicamente valide furono inglobate nell’IRI (come la Breda armi e la Oto Melara), anche perché complementari alle altre attività del gruppo, tutte le altre (ad es. la Breda Fucine ferroviaria) furono rilevate dalla Finanziaria Ernesto Breda che le gestiva e le controllava, insieme con altre industrie alimentari, meccaniche, tessili e varie ed era, a sua volta, di proprietà dell’EFIM.
Al centro Italia, nel “portafogli” EFIM, all’epoca c’era la Terni Industrie Chimiche, già abbandonata dall’ENI, ma bussava prepotentemente la Terni Siderurgica, in grave crisi industriale e finanziaria, la cui destinazione naturale sarebbe stato il gruppo IRI che aveva altre siderurgiche nel portafoglio, ma che, evidentemente, aveva le sue ragioni per rifiutarla.
Al sud esisteva già la INSUD, una finanziaria con la partecipazione dell’ISVEIMER, l’istituto della “famosa” Cassa per il Mezzogiorno. L’EFIM entrò come azionista minoritario della INSUD ma, a poco a poco, a furia di coprirne le perdite, ne divenne il principale azionista e gestore.
Questa INSUD, oltre a finanziare nuove iniziative industriali, aveva anche “nel portafoglio” la proprietà di una pletora di piccole e medie industrie ubicate nei territori del Mezzogiorno, tutte ampiamente e largamente finanziate tramite la “Cassa” e l’ISVEIMER, ma che poi, per non vederle fallite, venivano acquisite e ristrutturate, anche finanziariamente, e quindi offerte sul mercato ad altri investitori più o meno locali, quando v’erano.
L’Amministrazione della nostra Società era di competenza della INSUD e della EFIM che si riservava la scelta e la nomina del Direttore Amministrativo e, inoltre, aveva propri funzionari nel Collegio Sindacale. Penso che feci invece una buona impressione ai Sindaci della Società quando vennero per una delle solite rituali visite, e vollero controllare la Cassa ed i valori, come previsto e prescritto dal Codice Civile italiano.
Pur essendo giovane, non ero completamente alle prime armi, avendo avuto anche nella mia precedente esperienza di lavoro le visite di Sindaci, anche se erano di piccole Cooperative locali, tuttavia ero perfettamente a conoscenza delle funzioni del Collegio Sindacale. Ero tuttavia irriverente, come tutti i giovani, e mi fece molto ridere l’eccitazione del mio Capo contabile prima della visita, ed il suo nervosismo quando il Presidente dei Sindaci volle rimanere solo con me per controllare i valori di Cassa.
La visita andò bene e ricevetti moderati elogi dal Presidente dei Sindaci, il dott. Antonio Zurzolo. Solo dopo capii e compresi il nervosismo del Capo contabile, quando seppi che il dott. Zurzolo era il Direttore Generale dell’EFIM.
Il primo Direttore Amministrativo, quello che mi assunse, si dimostrò utile per i rapporti con il Comune di Manfredonia e tutti gli altri enti necessari per le numerose autorizzazioni per la costruzione, ma con poca esperienza operativa in fabbrica.
Infatti fu poi subito richiamato presso la sede dell’EFIM per continuare l’opera per altre aziende e fu sostituito da un Direttore operativo, esperto di contabilità e di amministrazione di fabbrica ma, soprattutto, bravo nella gestione delle risorse umane. Nel suo primo anno di lavoro a Manfredonia, questo giovane e simpatico direttore insegnò, a tutti noi amministrativi, il modo di lavorare in squadra, l’individuazione degli scopi aziendali, i moderni sistemi di rilevazione delle spese e di contenimento dei costi.
Si viveva un momento critico nella gestione dei rapporti sindacali tra 1967 e 1969: lui ci insegnò che, nei rapporti con i dipendenti, bisognava prima di tutto essere onesti e severi, ma non arroganti. Riuscì a convincere i giapponesi a riconoscere ai dipendenti e agli operai le categorie ed i livelli retributivi previsti dal contratto di lavoro.
Purtroppo questo Direttore, il Dott. Roberto Italia, romano, dopo un paio d’anni, prese l’epatite virale e rimase fuori della fabbrica per oltre sei mesi, senza tuttavia che il lavoro in ufficio ne risentisse, proprio perché ormai la “squadra” di lavoro era pronta e formata. In ogni caso, dopo la guarigione, rimase pochi mesi e fu subito richiamato presso altre aziende più grandi, lasciando un grande rammarico per la sua bravura e per la sua innata simpatia.
Fu sostituito dal Rag. Fraschetti, un altro esperto amministrativo, quasi sessantenne, che rimase per un più lungo periodo ma che, dopo il licenziamento, ritornò come “consulente” in quel 1976 “fatidico”. Fra il ’73 ed il ’74, il Rag. Fraschetti fu sostituito dal Dott. Cipriani che, per la sua esperienza, entrò a far parte anche del Consiglio di Amministrazione in rappresentanza, appunto, dell’azionista INSUD, ma quest’ultimo merita un capitolo a parte.
Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti